Benjamin Britten fu un notevole interprete della viola, strumento al quale si applicò a partire dall’età di nove anni, dopo aver iniziato a studiare il pianoforte, al punto che rimase un punto fermo nel corso della sua vita, anche se ad essa dedicò di certo non molte pagine, le quali, in ambito cameristico, si fissano in Reflection (1930) per viola e pianoforte, Elegy for Solo Viola(1930) e Lachrymae. Reflections on a song of John Dowland per viola e pianoforte (1950). Si noti come due di queste composizioni portino il titolo di Reflection, ossia riflessione, come a dire che la viola, per il compositore inglese, fosse una sorta di sonda con la quale indagare la propria interiorità, le proprie pulsioni profonde da far affiorare attraverso il suono emanato dallo strumento. A questo striminzito corpus, vanno di fatto aggiunte anche le trascrizioni che la celebre violista giapponese Nobuko Imai fece delle tre Suites che Britten compose tra il 1964 e il 1971 per il sommo violoncellista Mstislav Rostropovič.
Il decennio fissato tra il 1961 e il 1971, oltre ad essere dedicato da Britten principalmente alla musica cameristica, ai cicli di canzoni, a quel capolavoro che è il War Requiem e all’opera televisiva Owen Wingrave, fu in un certo senso dedicato anche a una sorta di impegno politico, soprattutto a favore di quegli artisti russi che, più o meno apertamente, cercavano di sfidare con la loro arte il regime sovietico. Per questo, il musicista di Lowestoft volle diventare amico, oltre che collega, di personaggi come Dmitrij Šostakovič, Sviatoslav Richter, Galina Višnevskaja e, per l’appunto, Mstislav Rostropovič. Quest’ultimo fu per Britten un’autentica ispirazione, visto che per il violoncellista di Baku compose la Sonata per violoncello op. 65 (1961), la Sinfonia per violoncello op. 68 (1962-63), le tre Suites per violoncello non accompagnate, op. 72 (novembre/dicembre 1964), op. 80 (agosto 1967) e op. 87 (febbraio 1971), nonché una serie di cadenze per il Concerto in do maggiore di Haydn (1964).
Per ciò che riguarda le tre Suites, rappresentano ovviamente una chiara risposta a quelle bachiane, che Britten ebbe modo di ascoltare tramite la folgorante lettura dello stesso Rostropovič. La Prima Suite è in nove tempi strutturati da tre coppie di due ciascuno, preceduti e divisi da tre Canti; da questi tempi emergono la Fuga, ingegnosamente elaborata, che riecheggia modelli barocchi; la Serenata, il cui pizzicato richiama le atmosfere di Debussy; il Bordone, i cui temi ricordano in vari passaggi le idee che formano il Concerto per violino op. 15 e il Concerto per violoncello di Elgar. Anche la Seconda Suite presenta atmosfere e richiami ad epoche precedenti, soprattutto nella Fuga e nella Ciaccona finale, mentre la Terza Suite, anch’essa in nove tempi, risulta essere maggiormente “emotiva”, soprattutto per via dell’utilizzo di tre arrangiamenti fatti da Čajkovskij da altrettanti canti popolari e da un Kontakion ortodosso, con Britten che fa enigmaticamente eco, variando e disperdendo il materiale tematico di queste melodie russe nel corso di tutto il lavoro, prima di presentarle nella loro forma originale alla fine della Passacaglia che chiude la Terza Suite.
Questi tre capolavori rappresentano un’ideale cartina al tornasole per comprendere non solo la visione estetico-musicale di Britten, ma anche la sua personalità di artista, così particolare e sfuggente nella storia della musica colta del Ventesimo secolo. Uomo apparentemente semplice, sfuggente ad ogni forma di elitarismo compositivo, Britten in realtà fu un musicista la cui opera è infarcita di elementi altamente elitari, al punto che Aaron Copland nel 1949 lo definì «difficile da comprendere» rispetto, per esempio, alla musica di uno Šostakovič o di un Walton, così come nel 1972, il critico e musicologo Donald Mitchell, grande studioso di Mahler e attento conoscitore dell’opera britteniana, scrisse testualmente di lui: «Al centro della sua musica c’è un’atmosfera intensamente solitaria. [Britten] appare come uno spirito riservato, turbato, a volte anche come un visionario disperato, un artista ossessionato da immagini notturne, dal sonno, da presentimenti di mortalità, un creatore consapevole dell’appetito distruttivo (la bestia sempre affamata nella giungla) che si nutre di innocenza, virtù e grazia». E un musicista come Bernstein, che ebbe modo di conoscerlo, affermò nel 1980, quattro anni dopo la morte di Britten: «È stato un uomo in contrasto con il mondo e ciò può apparire strano, perché in superficie la musica di Britten sembrerebbe decorativa, positiva, affascinante, ma in realtà è molto più di questo. Quando si ascolta la sua musica, se la si ascolta davvero, si diventa consapevoli di qualcosa di molto oscuro. Ci sono ingranaggi che stridono e che non si ingranano del tutto, e che provocano un gran dolore».
Queste parole assumono tutto il loro rilievo quando si va ad ascoltare il disco che il violista varesino Simone Libralon ha registrato recentemente per l’etichetta discografica Aulicus Classics, che presenta in prima mondiale, oltre all’Elegy giovanile, anche le tre Suites per violoncello nella trascrizione effettuata da Nobuko Imai per viola. Un concentrato di scrittura impervia, al punto che in alcuni tratti impone quasi una sorta di ascolto dissociativo, tale è la sua spigolosità nel suo fraseggiare, irto di difficoltà tecniche, di rare rarefazioni melodiche, di un andamento aritmico, che entra decisamente in contrasto con quella volontà di Benjamin Britten di presentarsi, come affermò egli stesso nel 1964, ricevendo l’Aspen Award, «Voglio che la mia musica sia utile alle persone, per compiacerle, per migliorare le loro vite. Non scrivo per i posteri... ». Ma la desolazione, l’arditezza delle soluzioni armoniche, l’impossibilità di aggrapparsi a possibili enunciati melodici, non fanno di queste composizioni, soprattutto le Suites, opere utili per migliorare le persone, ma solo per scavarne in profondità, per sondarle implacabilmente di fronte al ventaglio di grigio cupo che le ammanta.
Di fronte a una dimensione così urticante, a volte perfino scostante, la lettura fatta da Simone Libralon assume una particolare preziosità, non solo nella perizia tecnica con la quale farcisce il tutto, ma anche e soprattutto per la capacità di rendere oltremodo espressive queste pagine, riuscendo a strapparle da un’iconica algidità, che resterebbe tale se l’interprete non riuscisse a decodificare segni e suoni che possono d’acchito apparire restii a un approccio d’accettazione e di metabolizzazione. Invece no, perché il violista varesino riesce a tramutare la lontananza in vicinanza, la carezza in contropelo in un pettine che assume un andamento lineare, lucido, intellettualmente congruo, facendo sì che questo apparente deserto sonoro possa avere un valore in sé.
Ascolto arduo, ma fecondo, poiché la sua dimensione interpretativa non è mai autocompiacente, uno sterile virtuosismo, ma partecipazione autentica, perfino passionale, atto d’amore verso opere che meritano di essere riflettute e diluite nel tempo.
Buona anche la presa del suono effettuata da Paolo Guerini, capace di ricostruire al meglio della viola Thomas Aillerie utilizzata da Libralon; la dinamica è sufficientemente energica, veloce e naturale, in modo che il palcoscenico sonoro presenti l’artista al centro dei diffusori, posto a una discreta profondità. Anche l’equilibrio tonale non tradisce, con una resa del registro medio-grave e di quello acuto dello strumento che non mostra sbavature, così come il dettaglio è piacevolmente materico.
Andrea Bedetti
Benjamin Britten – Elegy-Three Suites, Op. 72, 80 & 87 for Solo Viola
Simone Libralon (viola)
CD Aulicus Classics ALC 0076
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5