A mio modo di vedere, cosa che susciterà reazioni contrastanti, perfino esecrate, ma di cui non me ne importa nulla, il programma presentato nel CD registrato per la Da Vinci Classics dalla giovane pianista francese Macha Kanza, che ha inciso i Gesänge der Frühe op. 133 di Robert Schumann e gli Études-Tableaux op. 39 di Sergej Rachmaninov, è a dir poco impietoso e implacabilmente discriminante, visto che abbina una delle ancora misconosciute pietre miliari della letteratura pianistica, quella del romantico tedesco, con un’ostentazione sonora, quella del compositore russo naturalizzato americano.
Sarà per il fatto che più passa il tempo e più mi scopro del tutto indifferente rispetto al mondo rachmaninoviano, sarà per il fatto che considero sempre più non solo anacronistico (e questo di per sé non sarebbe un difetto), ma soprattutto inadeguato alla propria epoca, il suo corpus compositivo, votato in massima parte, tranne pochissime eccezioni, a una rappresentazione “passatista”, da non considerare ovviamente in chiave futurista, a un mantenimento serrato di determinate posizioni creative che sono incluse nel variegato arcipelago del tardoromanticismo (se è per questo anche innovatori/conservatori come Max Reger, Ferruccio Busoni e Aleksandr Skrjabin vi appartengono di diritto), ma che in realtà formano un bozzolo ancorato a una visione del mondo crollata inesorabilmente tra le betulle di una foresta di Ekaterinburg, a una concezione scolpita e cristallizzata in nome di un nostalgico sentore del quale si sarebbe fatto volentieri portavoce e testimone un cineasta quale Andrej Tarkovskij, ma è indubbio che la produzione pianistica di questo autore, nonostante il continuo successo che miete tra interpreti e ascoltatori, rappresenta un capitolo a parte, un’anomalia metastorica agganciata a una storicità estetico-musicale che deve imporre quantomeno delle domande e delle riflessioni. D’altronde, se un Benjamin Britten trovava a dir poco ributtante la musica di Johannes Brahms (autore che considero personalmente il mio dio), al punto da eseguirla solo una volta l’anno per rammentarsi della sua “bruttezza”, mi sarà ben concesso manifestare tutta la mia avversione nei confronti di quella dell’aristocratico musicista di Onega.
Ma tutto ciò poco deve importare a chi, oltre al sottoscritto, intende ascoltare la musica di Rachmaninov e valutarla seguendo scorci personali e del tutto soggettivi che non devono tenere conto di uno spassionato parere, il quale, invece, non deve trasparire nell’esame critico di un concerto o di una registrazione discografica, come quella di Macha Kanza per l’appunto, la cui lettura è riuscita perfino a rendermi fruibile, oserei perfino affermare non indigesto, l’ascolto degli Études-Tableaux.
Ma partiamo da quella pagina irripetibile rappresentata dagli schumanniani Gesänge der Frühe; una pagina scoperta relativamente tardi dal mondo concertistico (prima di Maurizio Pollini nessuno dei grandi pianisti del Novecento si era preso la briga di registrarla), in quanto, come ogni opera dell’ultimissimo periodo schumanniano, pesava ancora quella sorta di “ostracismo” lanciato da Clara Wieck, che fece di tutto, già quando il marito era rinchiuso a Endenich, per sminuire, cancellare, cercare di distruggere (come cercò di fare con il Concerto per violino) quei lavori che andavano dalla tarda estate del 1853 e che a suo parere erano già macchiati, deturpati dai segnali di un imbarazzante disagio mentale da parte di Schumann, in poche parole cercando di occultare il culmine che precedette l’abisso. E di culmine si deve per l’appunto parlare quando si fa riferimento a questi Canti dell’Aurora, che buona parte della critica e di una certa letteratura divulgativa vuole che siano stati stimolati e scritti dopo il folgorante incontro tra il giovanissimo Brahms e il tramontante Schumann in quel di Düsseldorf nell’autunno del 1853, come a dire che con questi cinque brevi brani il compositore di Zwickau avesse voluto salutare simbolicamente l’inizio di un sentiero musicale da parte di un novello genio, la cui precocità creativa era già del tutto manifesta. In realtà, l’“Aurora”, questo Frühe, dev’essere inteso in altro modo, ossia come l’ultimo, stranito tentativo di Schumann di aderire a un principio di Lichtung, per dirla con una potente immagine data da Heidegger, o con il ricorso delle Strahlungen, vale a dire “irradiazioni”, secondo una cara definizione jüngeriana, attraverso le quale giungere a una sorta di magica e irripetibile “lucidità” assoluta, quella destinata irrimediabilmente a perdersi, a diluirsi nel mare immoto della penombra e dell’oscurità.
Un’aurora che più oscura, difatti, non potrebbe essere, tenuto conto che ci troviamo di fronte a cinque pezzi tutti assimilati da un denominatore comune, quello della “devianza”, cioè di un deviare ineluttabile rispetto a un inizio consueto, codificato, canonico di un determinato impianto pianistico, una sorta di “scarto”, di ribellione formale che costringe un principio acquisito a trasformarsi in uno “sperdersi” in altra direzione (si prenda come esempio proprio il brano iniziale, Im ruhigen Tempo, un placido, riflessivo corale in re maggiore che porta il costrutto a svoltare nell’inconsueta tonalità del si minore, oltre ad essere stranamente di nove e non otto battute, oppure il quarto brano, Bewegt, in fa diesis, apparentemente identificabile all’inizio con una Romanza senza parole di mendelssohniana memoria e che invece, dopo sedici battute, al posto di riproporre la tranquillizzante ripresa iniziale, vede l’irruzione di un inatteso sviluppo che prosegue per tredici battute, alla fine delle quali ritorna l’inizio, ma che non può avere ormai la stessa, placida raffigurazione in quanto mandata a pezzi dall’instabilità creata dallo sviluppo stesso).
Questo è lo Schumann dell’ultimissimo periodo, quello che ricerca, quello che esplora, quello che tenta “nuove vie” (prima ancora di Brahms), pochi mesi prima di abbandonare per sempre il mondo della cosiddetta “normalità”. È come se i Gesänge der Frühe rappresentassero, quindi, un commovente tentativo di coniugare, di assemblare la “normalità” del prima con l’“anormalità” del dopo, della luce illuminante con quella accecante che conduce inevitabilmente all’oscurità. Da ciò, si può ben intuire la difficoltà, non tanto tecnica, quanto espressiva che ogni interprete deve affrontare e risolvere per rendere al meglio la “sospensione” timbrica, l’aura irradiante che tali pezzi impongono. Cosa che la giovane pianista francese esalta con una lettura che mette in luce (è il caso di affermarlo) grazie a un suono capace di identificarsi in un principio di sospensione formale, lavorando in modo pressoché ideale con la pedaliera. Fin dal primo brano, l’ascoltatore entra così in un territorio magico, “sospeso” nel tempo e nello spazio e in cui la forma corale, che contraddistingue tre di questi cinque pezzi, trasmuta in una liquidità immota, segnata da una timbrica in cui gli armonici vengono sagacemente sfuocati (sempre l’uso dei pedali) per rendere “visibile” lo smaterializzarsi del suono, il suo ingresso fisico nel regno della penombra, come se la tastiera fosse stata immersa nelle acque del fiume Lete.
È un sottilissimo e periglioso equilibrio quello scelto da Macha Kanza, votato a un’immaginifica rarefazione del suono, a una sua identificazione che quasi non appartiene più al tempo schumanniano, ma lo pospone, lo materializza formalmente in un futuro “altro”, in una dimensione che subisce la tentazione dell’atemporalità, indicando una “nuova via” tra i sentieri esecutivi di quest’opera.
Non intendo soffermarmi sulla tanto decantata “metastoricità” della musica rachmaninoviana, ma desidero solo richiamare l’attenzione su un punto che sovente viene obliato, quello che mette in evidenza come la produzione pianistica del compositore russo naturalizzato americano vanti a mio parere una caratteristica assai peculiare, basata sul fatto che la sua esecuzione, la sua resa sonora possa risultare più appagante, maggiormente soddisfacente per l’interprete piuttosto che per l’ascoltatore. A tale proposito, pur non aderendo del tutto con le sue posizioni ermeneutiche, non posso non citare quanto il neurologo, psicoterapeuta e musicista Enrico Mancini scrive nel libro La misteriosa apoteosi. Psicologia del punto culminante nella musica, pubblicato da De Angeli Editore, nel capitolo “Rachmaninoff interprete al quadrato”, quando afferma che il mero atto creativo del compositore in questione non risiede nella sua scrittura musicale, quanto piuttosto nel gesto interpretativo stesso, tale da cristallizzare l’arte rachmaninoviana nell’essenza del gesto esecutivo, facendo così rientrare il compositore e la sua produzione creativa nell’ambito della Gestalt. Ciò fa comprendere meglio il presupposto che la musica di Rachmaninov non viene incontro all’ascoltatore, ma dev’essere inseguita dall’ascoltatore stesso e questo, riportando il tutto nel territorio della critica musicologica, per via di incontrovertibili squilibri che la contraddistinguono.
Squilibri che appesantiscono drammaticamente la Sonata n. 1 (al limite dell’inascoltabilità), risalente al 1907 e revisionata nel 1931, e che infettano anche le due serie degli Études-Tableaux, con la prima (op. 33) composta nel 1911 e la seconda (op. 39) scritta due anni più tardi. Per ciò che ci riguarda, basti considerare lo squilibrio a dir poco imbarazzante del settimo Étude-Tableau dell’op. 39, l’inconcludenza del secondo e del quinto, incentrati su una ricerca coloristica che non porta a benefici eclatanti, ma che rientrano pienamente in quell’effetto del “punto culminante” delineato da Mancini nel suo saggio.
Se ho citato questo studio del neurologo e musicista italiano è perché Macha Kanza ha il merito quantomeno di mettere in rilievo proprio il senso interpretativo del gesto creativo in Rachmaninov, ossia esaltando un aspetto che dovrebbe apparire positivo in sé. Non è il caso di affrontare in questa sede tale questione, ciò che interessa è la capacità della pianista francese di relazionarsi alla partitura nella chiave della sua espressività che viene messa in luce mediante l’atto esecutivo, ossia facendo in modo che quest’ultimo possa essere racchiuso in una cellula propositiva sganciata dalla mera lettura del pentagramma. Questo significa demarcare, ritagliare, scontornare l’atto estetico e porlo in assoluto rilievo; da ciò un impatto con i nove brani dell’op. 39 che vivono, sotto le sue dita, di una propria autonomia stilistico/espressiva che esula dalla trasposizione tout court del rapporto segno/suono, ponendo di fatto l’interprete nel ruolo non solo di esecutore ma di secondo artefice compositivo di ciò che sta suonando.
A molti sembrerà quindi che la lettura di Macha Kanza tendi a esasperare i contrasti timbrici, a impattare con una presa di contatto con la tastiera fin troppo effettistica, ma è proprio la continua ricerca del “punto culminante”, di un’asfissiante creazione della creazione nella musica rachmaninoviana a volere ciò. E questo può piacere come non può piacere. D’altronde, è stato lo stesso compositore russo naturalizzato americano a scrivere che «Ogni motivo, così mi sembra, racchiude in sé il suo impulso vitale come un seme», cosa che la giovane pianista transalpina puntualizza in modo certosino, corroborando con il proprio gesto creativo la creatività data dal senso vitalistico che Rachmaninov ha cercato di instillare nelle sue opere, un vitalismo che per resistere alla propulsione implacabile del tempo dev’essere necessariamente posto sul piedistallo della metastoria.
Nulla da obiettare sulla presa del suono effettuata da Gabriele Zanetti presso la Fondazione Santa Cecilia a Brescia; la dinamica rocciosa e imperiosa dello Steinway D274 viene restituita in modo ottimale senza dare adito a indesiderate enfasi. Il palcoscenico sonoro ricostruisce lo strumento correttamente, anche se spazialmente risulta essere avanzato verso l’ascoltatore senza però risultare innaturale; infine, sia l’equilibrio tonale sia il dettaglio garantiscono una debita correttezza d’ascolto.
Andrea Bedetti
Schumann-Rachmaninoff – Piano Music
Macha Kanza (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00241