Durante il triste periodo della pandemia, per la Da Vinci Classics ha preso avvio una nuova registrazione dell'integrale delle Sonate per violino e pianoforte di Ludwig van Beethoven, interpretata dalla violinista russa Yulia Berinskaya (leggi qui la sua intervista) e dal pianista milanese Stefano Ligoratti. Un'integrale che si è conclusa con il terzo disco uscito lo scorso anno e che merita un minimo di analisi, in quanto, lo affermo fin da subito, ha mostrato spunti di una lettura generale assai interessanti e felici. Prima, però, è il caso di richiamare alla memoria alcuni concetti che riguardano le dieci Sonate che il sommo genio di Bonn volle comporre in un lasso di tempo che va dal 1797 al 1812 (con le prime nove che furono scritte fra il 1798 e il 1803, mentre l'ultima, l'op. 96, risale al 1812, il che le fa rientrare a pieno diritto nel cosiddetto "primo periodo" beethoveniano), anche rispetto all'esecuzione fatta dai due interpreti in questione (la quale, anche per motivi di capienza all'interno dei tre dischi, non segue una precisa cronologia numerica, con il primo CD che presenta la Sonata op. 12 n. 1, la Sonata op. 30 n. 2 e la Sonata op. 96, mentre il secondo CD ospita la Sonata op. 23, la Sonata op. 24 Primavera e la Sonata op. 47 Kreutzer e il terzo CD le Sonate op. 12 n. 1 & 3 e le Sonate op. 30 n. 1 & 3).

La cover del primo CD Da Vinci Classics dedicato alla registrazione integrale delle Sonate per violino di Ludwig van Beethoven.

Cominciamo da quanto esposto dal programma dei tre dischi, seguendo invece cronologicamente e storicamente ciò che concerne queste composizioni. Le tre Sonate op. 12 sono il frutto di un giovane compositore che ha già alle spalle le belle speranze che nel frattempo sono divenute ormai una piacevole e stimolante realtà. Ricordiamoci che Beethoven, pur avendo studiato a più riprese lo strumento ad arco (dapprima a Bonn con Franz Rovani e poi a Vienna con Wenzel Krumpholz) non fu mai un sagace interprete del violino come lo fu invece Mozart; ma se il genio di Bonn prese un modello quale riferimento per le tre Sonate in questione questo fu proprio il sommo salisburghese, al quale riconobbe il merito di aver frantumato quei dettami barocchi con i quali questo genere cameristico si era fino ad allora confrontato. Dettami che vedevano primeggiare del tutto la linea violinistica, mentre al clavicembalo era riservata esclusivamente quella di un basso numerato. Al contrario, Mozart fu tra i pochissimi che all'epoca diedero vita a quella che si può definire una “sonata concertante”, vale a dire una composizione in cui il pianoforte, il quale ha ormai soppiantato il clavicembalo, e il violino si trovavano su un piano di parità, ossia che entrambi erano necessari per sviluppare un discorso musicale a due e nel quale, inoltre, potevano scambiarsi il ruolo di strumento principale o di quello riservato alla parte di accompagnamento.

Questa equa distribuzione delle parti viene esemplarmente esposta nel primo tempo, l'Allegro con brio, della Sonata op. 12 n. 1 in re maggiore, il quale può essere preso e considerato come un “manifesto programmatico” a cui Beethoven farà riferimento nel proseguo delle altre sonate violinistiche da lui composte, e non solo quelle che riguardano l'op. 12. Non ci può risultare semplice l'acquisizione di questo dato assai importante, tenendo conto del fatto che l'op. 12 fu composta nel corso del biennio 1797-98, ossia che a quel tempo l'idea, il progetto di porre i due strumenti sullo stesso piano di sviluppo tematico, provocò negli ambienti musicali viennesi un notevole scalpore, che virò rapidamente in una reazione critica negativa, come si può constatare prendendo come esempio la rivista tedesca più importante dell'epoca, l'Allgemeine Musikalische Zeitung, in cui il recensore definì testualmente la prima delle tre Sonate op. 12 un «ammasso senza metodo di cose sapienti: niente di naturale, niente canto, un bosco in cui si è fermati ad ogni passo da cespugli nemici, e da cui si esce esausti, senza piacere; un mucchio di difficoltà da perderci la pazienza». Cose sapienti, assenza di piacere e perdita di pazienza: non avrebbe potuto esserci altra reazione di fronte a un dialogo fra pianoforte e violino così costante e determinante, con i due strumenti che si alternavano nella linea melodica, dando vita a un colloquio che si sviluppava attraverso una vivace elaborazione motivica. Inoltre, in barba al concetto di musica d'intrattenimento nella quale rientrava buona parte della coeva produzione cameristica, oltre al sapiente contrasto che si trova fra tema principale e tema secondario, in queste tre Sonate Beethoven puntò su un dualismo drammatico: contrasti dinamici, spostamenti di accento ricorrendo alle sincopi, brusche modulazioni e spiazzanti scatti ritmici che andarono a scolpire i tempi iniziali e finali di queste Sonate, contraddistinti da accenti di immediata spontaneità, spezzati da tempi lenti oltremodo espressivi, tali da trasmettere una sorprendente qualità inventiva. Da qui, si può ben capire per quale motivo il suddetto recensore accusò Beethoven di aver scritto delle pagine che trasudavano “cultura, troppa cultura”. Se questa accusa può oggi meravigliare di fronte alla freschezza offerta dalle tre Sonate op. 12, bisogna ricordare che alla fine del Settecento la musica da camera con pianoforte fu fondamentalmente destinata non ad interpreti professionisti, ma a quelli dilettanti; e tale tradizione esecutiva, come si è già accennato, ebbe di conseguenza inevitabili ripercussioni sul “disimpegno” concettuale del contenuto musicale; una tradizione alla quale, da parte sua, Beethoven cercò di adeguarsi, soprattutto nel corso dei primi anni trascorsi a Vienna, cercando di venire incontro a ciò che il mercato editoriale dei dilettanti gli richiedeva, ma non disdegnando, allo stesso tempo, anche la sfera “professionale” e più “impegnata”, puntando fin da subito a una dialettica interna e a un completo equilibrio di scrittura fra gli strumenti, una caratteristica, questa, che risultò del tutto incomprensibile ai contemporanei, abituati a una facile “cantabilità” e al predominio del pianoforte sullo strumento ad arco.

La cover del secondo CD della presente integrale proposta dalla Da Vinci Classics.

Ciò che colpisce nella lettura fatta dal duo Berinskaya & Ligoratti è la resa quasi “operistica” di queste tre Sonate, le quali, è bene ricordarlo furono dedicate da Beethoven ad Antonio Salieri, suo maestro di canto e di lingua italiana. In effetti, se la violinista russa vira verso una robusta cantabilità tale da investire anche i tempi veloci (se si ascolta con attenzione l'Allegro con brio della Sonata in re maggiore, si avverte il desiderio di imprimere un'accesa rotondità agli acuti come se fossero vocali), Ligoratti l'asseconda con una timbrica che non è (falsamente) declamatoria, ma molto più opportunamente scolpita in un andamento che fa da ideale contraltare, voce che assorbe e sostiene l'altra voce, incalzandola, stimolandola, perfino sfidandola. Questo permette al violino di essere risolutamente assertivo, anche nei momenti più lirici, più dolcemente intensi presenti nei tempi lenti, in cui il gioco dialettico si fa più terso, ma senza mai scadere nel didascalico. E fin da queste prime tre Sonate si evidenzia quello che può essere definito il denominatore comune di tutta l'integrale, vale a dire la ricercata bellezza del suono unitamente a una sua chiarezza espositiva, la quale emerge proprio nei momenti in cui i tempi lenti si impennano improvvisamente verso dimensioni che sono intrise di fugaci tragicità. Come a dire: equilibrio, ora e sempre. Inoltre, non bisogna dimenticare come Yulia Berinskaya riesca a lavorare con il bulino sulla dimensione ironica che traspare nell'Allegro vivace della Sonata in la maggiore, giocando magistralmente sulle luci e sulle ombre nelle quali si imbatte, in contrapposizione al raffinato timbro che Ligoratti crea alla bisogna.

Rispetto all'“intellettualità”, sempre che possa oggi essere ancora considerata tale, mostrata nelle Sonate dell'op.12, la Sonata n. 4 op. 23 in la minore e la Sonata n. 5 op. 24 in fa maggiore, entrambe risalenti al biennio 1800-01, possono far pensare, fin dal primo ascolto, a una sorta di “voltafaccia” di Beethoven, in quanto maggiorente assimilabili e fruibili a causa di una minore tensione esplosiva, a una spigolosità timbrica che viene a mancare rispetto alle prime. Cosa che il solito recensore dell'Allgemeine Musikalische Zeitung non mancò di far notare con un elegante dietrofront se confrontato con quanta solerzia aveva stroncato la prima Sonata dell'op. 12, definendo testualmente l'op. 23 e l'op 24 «molto meno difficili da suonare, e dunque, più accessibili a un vasto pubblico, di molte precedenti opere di Beethoven». Questa affermazione la dice lunga e può anche spiegare per quale motivo la Sonata in la minore venga ancora oggi sottovalutata rispetto alle altre a causa del fatto che si tratta di una pagina cameristica a dir poco insolita. Il primo tempo, un Presto, è strutturato secondo un moto perpetuo e la sua forma assomiglia maggiormente a un finale, mentre il secondo tempo, Andante scherzoso più allegretto, ai più può sembrare né carne né pesce, tenuto conto che non è un Adagio e nemmeno uno Scherzo, ma un'affascinante emanazione trasognata appartenente all'universo schumanniano. Anche il finale, Allegro molto, è a dir poco particolare, visto che la prima parte è concepita come un tema con variazioni per poi tramutarsi in un Allegretto dal sapore decisamente schubertiano. Così, questa originalità, se è piaciuta agli ascoltatori coevi, per via della mancanza di drammaticità del primo tempo, così come di quella di un vero e proprio tempo lento, ha poi finito per deludere in un certo modo coloro che hanno voluto identificare e incasellare la musica beethoveniana in uno scomparto ben preciso, quello di un “eroismo titanico” che non è presente in questa pagina, la quale, e ciò è particolarmente interessante, precede di appena un anno il trauma del testamento di Heiligenstadt. Semmai, nonostante un'evidente patina apollinea, è proprio la Sonata coeva, la cosiddetta Primavera op. 24 (questo titolo fu dato dall'editore Mollo di Vienna che la stampò nel 1802) ad essere imparentata per vie traverse con quanto il sommo di Bonn enunciò in quella celeberrima lettera indirizzata ai fratelli.

La cover del terzo e ultimo CD Da Vinci Classics.

Questo perché se la Sonata n. 5 in fa maggiore a un primo ascolto può apparire squisitamente idillica e anche, sotto certi aspetti, mozartiana, in realtà assume un'importanza decisiva, una sorta di “svolta” nel corpus delle opere per violino e pianoforte non solo nel catalogo beethoveniano, ma nell'intera letteratura di questo genere cameristico. Intanto, è la prima Sonata nella quale il genio di Bonn inserisce quattro tempi, aggiungendo un brevissimo Scherzo; inoltre, come avviene nella coeva Sonata Pastorale per pianoforte, anche La Primavera è strutturata con due tempi di ampie dimensioni, l'Allegro e il Rondò, posti alle estremità che un Adagio molto espressivo e il già citato Scherzo. Le apparenti felicità e serenità, contrassegnate dalla rara, almeno in Beethoven, tonalità di fa maggiore, con cui si apre l'Allegro iniziale, sono in realtà un paradigma nel quale si cela un'inquietante drammaticità che viene espressa dal secondo tema, la cui tensione emotiva viene però poi svilita dal ritorno del tema iniziale. E se il primo tempo è frutto di un contrasto tematico, il Rondò finale, mirabile nella sua concezione architettonica, è un trionfo del principio di una costruzione, il cui risultato è il frutto di equilibrio formale raggiunto da una padronanza della materia musicale e che nella parte centrale, rappresentata da un tema sincopato in la minore, necessita di un notevole virtuosismo da parte degli interpreti.

La pregevolezza nella resa esecutiva fatta dai nostri due interpreti della Sonata n. 4 risiede nel fatto che ne fanno una lettura elettrizzante, fibrillante: se qui Beethoven si traveste nei panni di Schumann prima e di Schubert poi, allora diamo a Cesare quel che è di Cesare. Nel senso che il Presto iniziale viene preso di petto, cosparso di benzina e poi gli viene dato fuoco: visionarietà, folgori eraclitee che saettano nell'aere musicale, mentre l'infido (ossia nell'approccio e nel relativo svolgimento) Andante scherzoso viene affrontato con la debita grazia, ma senza indecisioni di sorta, poiché essere assertivi è la parola d'ordine che Yulia Berinskaya e Stefano Ligoratti si sono dati e che rispettano sempre. Quindi, una grazia che riesce a decodificare nell'arcata generale del tempo anche i momenti sospesi, i segmenti tipicamente settecenteschi, le carezze vezzeggiative, dosando la cipria timbrica, facendo finta che sia un Minuetto sbagliato, come lo è il tipo di Negroni avvezzo per palati più smaliziati. L'Allegro molto finale è tutto un gioco di volumetrie che devono essere non solo rispettate, ma esaltate da un uncinetto sonoro che deve non solo enunciare, ma soprattutto far trasparire mediante un dialogo appassionato, ma non sguaiato, facendo attenzione ad essere delicati, ma non timidi, per poi lasciarsi andare a delle sgasate controllate, soprattutto nella linea violinistica. E qui l'artista russa è un manuale d'interpretazione, grazie a un resa che è sempre un cerchio giottesco, con il risultato di restituire una deliziosa tensione espressiva, controllando magistralmente le cavate e con il pianista milanese che l'asseconda come un perfetto cavaliere vecchio stile, senza però dimenticare il maschio che c'è in lui.

I protagonisti di questa registrazione integrale: il milanese Stefano Ligoratti e la russa Yulia Berinskaya.

L'Allegro della Sonata Primavera mi ha colpito soprattutto per come Ligoratti ha saputo renderlo, partendo dal fatto che qui il dialogo è di una nevralgica importanza, nelle domande e nelle risposte, nel saper porgere e nel saper prendere e rimpallare, con il pianoforte che guida il gioco senza dar da vedere che in realtà è guidato, deve saper illudere, ossia attuare un faire semblant a favore della linea violinistica, prendendo in mano la situazione quando gli viene affidato il tema conduttore che deve esprimere come un dono e non come una cosa acquisita che gli spetta di diritto; quindi, energia delicata, vaporosa lucidità timbrica, gioia da tutti i pori ma senza limitare la felicità violinistica, semaforo accorto che non sa cosa sia il rosso, virando tutt'al più sul giallo. L'Adagio espressivo che segue diventa con l'archetto di Yulia Berinskaya un atto supremamente “mozartiano”, quando il salisburghese riesce ad essere straordinariamente puro, incorrotto, con un cantabile da mozzare il fiato, tale da diventare una preghiera meravigliosamente panteistica, con Ligoratti che veste i panni del sacerdote officiante. L'esplosività implosiva che traspare dalla lettura fatta dai due interpreti del brevissimo Scherzo, più che un ponte di collegamento si tramuta in una rampa missilistica sotto il pelo dell'acqua, in modo che poi il Rondò finale possa venire fuori dalla linea liquida senza fare alcuno sbuffo, ma con quella placidità che serve per evidenziare al meglio la progressiva dirompenza dell'eloquio, il quale abbisogna di dionisiaco controllo, ancorato a una suprema forma che non deve però dare l'impressione di una camicia di forza, perché non lo è. Impeccabile.

Ma se vogliamo dare una rappresentazione sonora di quanto Beethoven visse, con fervore, contraddizione, con slanci eroici e ripiegamenti vittimistici causati dalla tragedia della sordità, che incorniciano il periodo di Heiligenstadt in quel fatidico 1802, allora dobbiamo farlo con il trittico di Sonate per violino che è racchiuso nell'op. 30, la n. 6 in la maggiore, la n. 7 in re minore e la n. 8 in sol maggiore (si faccia attenzione alle loro tonalità), la cui formulazione e costruzione possono essere identificate in una sorta di “quaderno di comunicazione” musicale, un quaderno che comprende, a livello coevo, anche la Seconda sinfonia e un altro trittico, quello che riguarda le Sonate pianistiche op. 31. Questo perché il trittico op. 30 dimostra ancora una volta come Beethoven, e questo si evince soprattutto nella Sonata in la maggiore,  vide sempre più nel messaggio musicale da lui creato una possibile risposta filosofica, speculativa, un modo per fornire un perché rispetto al destino avverso. Codesta Sonata è pervasa da un intenso e struggente lirismo ed è un peccato che sia  una composizione ancora oggi raramente eseguita in concerto, forse a causa del fatto che si tratta di una pagina in cui emerge maggiormente un'estrema cura del dettaglio rispetto a conclamato virtuosismo interpretativo.

Scevra da ogni forma di sperimentalismo, la Sonata n. 6 è articolata ancora in tre tempi di dimensioni contenute (nella lettura dei nostri interpreti supera di poco i ventuno minuti di durata). La ricerca del dettaglio, che si attua in tutta l'arcata architettonica della composizione, si stempera nell'Allegro iniziale sulla struttura di una consueta forma sonata, con un educato dialogo fra gli strumenti e un materiale tematico di pregevole eleganza, nel quale si avvertono sentori squisitamente mozartiani. E tanto per richiamare sempre un concetto di alta “classicità”, nell'Adagio che segue aleggia lo spirito di “papà” Haydn attraverso una materia musicale intrisa di cantabilità, anche se il segmento centrale non manca di una certa inquietudine. L'Allegretto con variazioni che conclude la sonata richiama invece tipici gusti rococò, con la serie di variazioni che sono basate principalmente su delle ornamentazioni, ben lontane dalle complesse soluzioni scelte altrove da parte di Beethoven.

L'incisione della stampa della Sonata Kreutzer, definita "elegante" dalla negativa recensione data di quest'opera dall'Allgemeine Musikalische Zeitung.

È indubbio che la Sonata n. 7 in do minore (n. 2 dell'op. 30) sia considerata la più pregnante e profonda del trittico in questione; l'eleganza e il dettaglio mostrati nella Sonata n. 6 lasciano invece spazio, dipanati in quattro densi tempi, su cui primeggiano i due opposti, l'Allegro con brio e il Finale-Allegro, a un'energia, una tensione emotiva che porta il genio di Bonn a offrire soluzioni tematiche e stilistiche di ardua comprensione per i contemporanei: come potrebbe non essere, altrimenti, di fronte a scelte quali una concezione quasi sinfonica, la presenza di originali formule strumentali tra cui passaggi in “staccato martellato”, le complesse sovrapposizioni di articolate linee melodiche e le tempestose irruzioni del registro basso del pianoforte e quei tratti modernamente percussivi e declamatori, senza dimenticare l'inusitata lunghezza e complessità della Coda nel primo e nel quarto tempo?

Con la Sonata n. 8 in sol maggiore che chiude il trittico dell'op. 30 Beethoven ancora una volta non si smentisce: dopo la tempesta drammatica incarnata dalla Sonata precedente, con quella in sol maggiore torna il sereno, la calma (è celebre la definizione di “carattere pastorale” data da Lenz) e anche un connotato di umorismo (nonostante si fosse nel tragico 1802!). E il tutto avviene con una personalissima struttura costruttiva, nella quale sono ormai tramontati i raffronti e i contributi dati dai grandi del passato, Mozart su tutti. Qui, ormai, l'Ottocento ha preso definitivamente il posto del secolo precedente; si prenda come esempio principe l'esteso Tempo di Minuetto nel quale l'idea stessa di “intrattenimento settecentesco” viene mutata in un'alta forma di “concettualizzazione”, di passaggio transitivo nell'elaborazione generale che premia una visione in cui, riprendendo l'affermazione di Wilhelm von Lenz, tutto viene offerto, quale forma di ringraziamento, a una natura benigna e benefica, secondo un principio estetico che porterà poi, quattro anni più tardi, Beethoven a dare vita alla Sinfonia n. 6, la Pastorale, per l'appunto.

L'interpretazione della Sonata n. 6 è all'insegna di una notevole pulizia stilistica, il che permette di evidenziare al meglio il dialogo efficace tra il violino di Yulia Berinskaya e il pianoforte di Stefano Ligoratti; pulizia s'intende la capacità di non ascoltare uno strumento che primeggia timbricamente sull'altro, la proprietà di offrire un eloquio che non tracima dalle linee guida, saldezza d'intenti senza sacrificare le spinte dinamiche che si alternano ad arcipelaghi di pacata sobrietà. L'ordine del giorno è “Classicismo”, quindi con Apollo che sale su proscenio e non lo lascia ad altre deità, con Beethoven che è ancora in pieno clima settecentesco e con i due artisti che fanno dunque in modo che la concezione apollinea non venga mai allettata dal sensuale reggicalze indossato maliziosamente dal primissimo Ottocento (il violino della musicista russa nell'Adagio molto espressivo ha quasi accenti che si ricollegano al primo Viotti!), mentre il principio della saldezza interpretativa si ripresenta puntualmente con l'Allegretto finale, in cui non bisogna mai perdere di vista la concezione generale architettonica, con un'equa distribuzione dell'eloquio, del variare agogico, cosa che i nostri due interpreti fanno benissimo.

La Sonata n. 7 viene affrontata nell'Allegro con brio con una scarica elettrica rivestita di pelo d'angora, vale a dire con un'energia che viene accarezzata per il verso giusto, con quintalate di lucidità, senza debordare, senza lasciare le briglie, facendo sentire sempre (Yulia Berinskaya) il morso alla linea violinistica, permettendo così al pianoforte di essere sempre sul pezzo; ma è il gioco psicologico che il violino affronta e stravince alla grande, la capacità di usare un bulino nucleare per cesellare come una katana affilatissima le asperità tecniche, che vengono domate come dimostrava di saper fare Carl Hagenbeck con i leoni nei giorni di grazia ai tempi di Bismarck. E poi, subito dopo, con l'Adagio cantabile, Yulia si trasforma in un soprano belcantistico, andando a zonzo sulle montagne russe canore, facendo sì che il suo violino cangi in una voce capace di essere un continuo dispenser di emozioni fatte di altezze e discese vorticose, passando con nonchalance dal registro acuto a quello grave senza mai lasciare per strada l'intensità di quel dato momento, di quella carezza che fa rabbrividire di sorpresa e di piacere. I due Allegri, quello dello Scherzo e quello del Finale, sono espressi dai due strumenti con una tavolozza di colori e di sfumature che fanno ringraziare i numi ermeneutici di esistere per noi poveri esseri umani, con una perfida e mefistofelica sagacia nel primo e con una feroce grazia nel secondo, in cui sembra che il suono del violino e del pianoforte sfondi la barriera delle leggi fisiche, tale è la portata timbrica che riescono a raggiungere. Ma quanto scontorno, nettezza emissiva, precisione da microscopio atomico lenticolare! Un bianco e nero bergmaniano visto in 4K...

Infine, la Sonata n. 8 che chiude il trittico dell'op. 30. Qui, nel primo tempo la violinista russa e il pianista milanese fanno provare a uno Sturm und Drang contrabbandato nel tempo le ebbrezze di un acido lisergico annacquato, ossia decidono di virare verso una fibrillazione che è come la miccia che accende il fiore di dylaniana memoria, schiacciando il pedale dell'accelerazione dell'intensità emissiva, in modo da esaltare maggiormente poi le stagnanti stasi che l'Allegro assai distilla con parsimonia, quasi che un Giano bifronte dovesse fare i conti con se stesso. E poi, ecco, la “concettualizzazione” del Minuetto, l'idea di esso, che non è più una danza, ma il ricordo di essa, nel quale il violino dell'artista russa veste i panni di una delicata dolenzia che assume i connotati di una larvata marcia funebre, osando lanciare persino manciate di umorismo noir. Ciò trasforma il tutto in un raffinato gioco psicologico, con il pianoforte che non si tira indietro e accetta le sue regole, assecondando e sostenendo con un'attenzione timbrica a dir poco necessaria per non frantumare l'essenza ludica e mandare il tutto alle ortiche, per non dire di peggio. Questo perché il gioco deve dare l'immagine non solo di un ricordo di un Minuetto ma, nella seconda parte del tempo, di una sua pantomima. Ecco fatto. Il tutto per poi rendere al meglio la danza vorticosa, che sembra anticipare quelle ungheresi di brahmsiana memoria, che viene esemplarmente srotolata nell'Allegro vivace finale, la cui densità armonica fa pensare a un buco nero che dal cosmo cade nel pentagramma.

Il celebre dipinto Sonata a Kreutzer di Lionello Balestrieri, dipinto nel 1900 e conservato al Museo Revoltella di Trieste.

Volendo evitare di ribadire cose trite e ritrite, a cominciare dalla storiella con il “gran pazzo” mulatto George Bridgetower, scaturite dalle tonnellate di inchiostro che sono state spese sulla Sonata n. 9 op. 47 Kreutzer, punto fermo e ineludibile di tutta la letteratura della sonata violinistica, creata tra il 1802 e il 1803, basterà citare ancora una volta l'implacabile giudizio tranchant del solito Allgemeine Musikalische Zeitung, il quale giunse a scrivere che in questa composizione Beethoven aveva «spinto la ricerca dell'originalità fino al grottesco», al punto di essere ormai divenuto  «l'adepto di un terrorismo artistico» e che l'unico aspetto veramente notevole di questa Sonata era data dalla «stampa bellissima», con una particolare menzione riferita alla sua incisione! Come se il tutto non bastasse, ci si mise di mezzo, più di ottanta anni dopo, la pubblicazione dell'omonimo romanzo tolstojano, il quale aggiunse melma, da intendersi non in quanto tale, ma solo a favore di quei porci, e sono tuttora tanti, che vivono la dimensione di un'opera musicale solo attraverso i diretti o indiretti tributi forniti da altri mezzi espressivi, il che porta sovente a mitizzare, nel senso bastardo del termine, ciò che non dev'essere illividito o sbiadito. E questo perché il romanziere russo, il cui misticismo genuflesso evidentemente non gli fece digerire adeguatamente l'arte dei suoni come quello delle parole, giunse al punto di far sostenere al protagonista del romanzo che il secondo tempo, l'Andante con variazioni, è «bello ma comune e non nuovo, con ignobili variazioni (sic)» e che il terzo, Finale Presto, è «assolutamente debole (sic!)».

Ad ogni modo, al di là della leggendaria (e controversa) esecuzione che lo stesso Bridgetower fece con Beethoven al pianoforte una mattina di maggio del 1803, la Sonata fu considerata all'epoca ineseguibile (la sua durata di oltre quaranta minuti, al di là delle difficoltà tecniche, la rendeva ben più ardita di un'ascesa dell'Everest sotto una tempesta di neve), al punto che il futuro primo maestro di Brahms, Eduard Marxsen, decise di renderla appetibile e potabile strumentandola per orchestra e aggiungendovi, come se ciò non bastasse, addirittura lo Scherzo della Sonata per pianoforte op. 106! Fortunatamente, dopo qualche esecuzione, tale barbarie fu opportunamente cestinata nel bidone del dimenticatoio storico.

I nostri due interpreti forniscono una lettura assai “teatrale” del primo tempo, l'Adagio sostenuto - Presto, dove il termine di teatralità non dev'essere considerato in senso negativo, ma nella resa di un'enunciazione che pone i due strumenti come elementi di un'assolutezza assorbente data dalla ricerca sperimentatrice ed esplorativa del brano. Fin dalle prime battute dell'Adagio, la violinista russa e il pianista milanese contrappongono i loro strumenti in modo straniante, quasi “espressionista”, mettendo subito in chiaro che se dialogo ci sarà, questo sarà fatto all'insegna di una coppia che si affida ai rispettivi legali per le pratiche del divorzio. Divorzio che si dipana con forza, con un sentimento disperato nel corso del Presto, senza però affrontare i luoghi crepuscolari, i pp e i ppp, con una delicatezza che sa di rimpianto, come se dopotutto ci fosse ancora la volontà, data dall'uno e poi dall'altro, ma mai insieme, di dare un'illusione di continuità, impiegando le necessità virtuosistiche imposte dalla partitura come elemento isolante, nel quale ognuno trova motivo di sfogo, di pianto, di stridor di denti e di reciproche accuse. La modernità fa irruzione, sembrano indicarci i due interpreti, e l'uomo si scopre improvvisamente più solo, più isolato, e questo tempo musicale, perno su quale ruota l'intera composizione, è il suo atto di accusa verso la dimensione esistenziale che si fa sempre più straniante. Nell'Andante con variazioni, Yulia Berinskaya e Stefano Ligoratti si pongono un obiettivo ben preciso: annullare, disintegrare le accuse di “manierismo” che aleggiano intorno a questo tempo, ma improntandolo, rispetto a quanto enunciato nel movimento precedente, a un processo di riconciliazione, dando luogo a quell'imperativo che sovente interviene in Beethoven, ossia a un atto di ripiegamento, di commovente inversione a u, il tentativo di “rimettere le cose al loro posto”, come se il tutto fosse stato all'insegna di un ira furor brevis est. Da qui, il susseguirsi delle quattro variazioni, oltre alla coda, rappresenta nella loro lettura la ricerca di ricostituire una perduta rotondità del suono, in nome di una classicità precedentemente andata in frantumi, mediante un'espressività timbrica che cerca di assorbire e trasmettere più sfumature possibili, come una donna che elegantemente si risistema la gonna e si ricompone davanti allo specchio dopo un frenetico e selvaggio rapporto fisico avuto nella toilette di un ristorante. Ma sotto un altro modello di intensità il Finale Presto che segue e conclude la Kreutzer deve continuare, nelle intenzioni dell'autore, quanto enunciato dall'Adagio, dovendo affidarsi a un perfido e infimo ritmo di 6/8 che non facilita di certo le cose, anzi. Il Finale, così, eredita le atmosfere della coda dell'Adagio, dovendo restituirne, con altre intensità, uno spirito tendente a “ristabilire” un ordine perduto. D'accordo l'essere trascinanti (il ritmo lo impone), ma con il pieno rispetto di una forma che non dev'essere tanto esteriore, quanto interiore. E qui deve intervenire un sapiente sfruttamento della ricerca timbrica, capace di esprimere forza e delicatezza, energia e vaporosa precisione, con i due strumenti che nella loro alternanza dialogica devono affinare progressivamente questo tentativo di conquista, dando l'impressione che temporalmente e spazialmente questo tempo finale sia in realtà un moto perpetuo (lo scopo delle “sospensioni” che animano il Presto è proprio questo: qualcosa che è destinato a non avere idealmente fine). Ebbene, trovo che entrambi gli interpreti siano riusciti altrettanto idealmente a raggiungere tale obiettivo, portando la croce di tale ricerca su un Golgota che viene la loro trasformato in un'amabile e dolce collina toscana.

Un prezioso violino Giovanni Battista Guadagnini.

Infine, la Sonata n. 10, op. 96 in sol maggiore. Balza subito all'occhio la medesima tonalità che contraddistingue l'ultima Sonata del trittico op. 30, che simboleggia una pacifica serenità che trae spunto dalla felice contemplazione della natura. Ciò pone tale opera, scritta a dieci anni di distanza dalla Kreutzer, in una dimensione antitetica rispetto a quest'ultima, votata a un ben conosciuto sperimentalismo. Al contrario, l'op. 96, anche se non rappresenta un ritorno ai modelli del passato, è votata a criteri di regolarità e chiarezza espositive, il che rimanda a una visione dichiaratamente “classica”, come appunto avviene nel tempo iniziale, l'Allegro moderato, il quale vanta una struttura dalle proporzioni squisitamente equilibrate nel rapporto tra pesi e contrappesi espressi dai due strumenti, che non si lasciano mai andare a tentazioni improvvisative, ma restano sempre vincolati a un rigoroso schematismo. Una classicità meno vincolante, semmai, può essere colta nell'Adagio espressivo, con un'immacolata melodia enunciata dal pianoforte e ripresa poi dal violino, melodia che viene sviluppata in una serie di quattro limpidi episodi musicali. E se lo Scherzo, pur mostrando la consueta irrequietezza e instabilità emotive, appare meno convulso rispetto ad altri tempi similari in Beethoven, è il Poco Allegretto finale ad assumere il ruolo di momento più intrigante di tutta la Sonata, visto che qui viene unita la forma del rondò con quella tipica del tema con variazioni.

Ascoltando come i due artisti della registrazione in questione affrontano la pacatezza del primo tempo Allegro moderato, mi è tornata alla mente una lettura di Bruno Walter della Seconda sinfonia brahmsiana in cui l'immagine della natura non è mai separata da una commovente tenerezza, riecheggiando quanto afferma Montaigne, quando scrive che «nella natura tutto è utile, perfino l'inutilità stessa». Qui, il violino e il pianoforte si congiungono in un suono che è radiosa irradiazione, mai abbagliante ma sempre soffusa, come l'ammirare un panorama assolato sotto le fronde di una quercia: la luce delle cose è precisa, scontornata, ma non acceca, non ferisce gli occhi. Un suono che non aggredisce, ma che accarezza lietamente, anche se con un accenno di mestizia (il trillare del pianoforte), quasi come se ciò che stiamo ascoltando sia destinato a perdersi per sempre. In questo modo, l'arcata di tutto il tempo vede la distribuzione del suo equilibrio resa magistralmente, con un pieno rispetto dei volumi incarnati dai due strumenti. L'esecuzione del tempo lento, poi, non subisce da parte del duo Berinskaya & Ligoratti uno scarto interpretativo, ossia è guidato dal medesimo principio enunciativo dato dall'Allegro iniziale, con la precisa volontà di rendere apollinea anche la raffigurazione melodica che sovrintende tutto l'Adagio espressivo in questione, rendendo semmai più mesto il suo divenire tematico. Restituire la “continuità perduta”, quasi fosse vincolata da un sapore proustiano, in cui il violino nulla ruba e nulla aggiunge a quanto espresso dal pianoforte, pur non tenendosi per mano, ma solo passandosi il testimone di tale continuità. Una continuità che si ricollega allo Scherzo, che i due interpreti riescono a rendere con un'idilliaca eleganza, come un rutto che si trasforma in bacio (il raro dono di un re Mida che riesce a ingentilire tutto ciò che tocca o sfiora), perpetuando così l'immagine del testimone. Il tutto viene poi portato sull'altare del Poco allegretto finale, nel quale si celebra il matrimonio tra la sfera del Rondò e quella delle variazioni, ossia l'unione della leggiadria agogica con quella della ricerca esplorativa. Quindi, percorrere il filo di un rasoio alla perenne ricerca di un equilibrio che dev'essere reso il più stabile possibile. Ecco, allora, che Yulia Berinskaya e Stefano Ligoratti raggiungono trionfalmente la quadratura del cerchio, mantenendo emozionalmente fremente l'idea del Rondò nel quale sguazzano liberamente le variazioni che non si sentono imprigionate a causa della trasparenza timbrica felicemente raggiunta.

Degna conclusione, questa, di una delle più avvincenti, riuscite integrali delle Sonate violinistiche di Beethoven che abbia ascoltato negli ultimissimi decenni. Come motto di questa registrazione, propongo tale immagine: riuscireste a cavalcare a lungo la tigre senza che essa se ne accorga? Meditate, gente, meditate.

Lo stesso Stefano Ligoratti si è assunto l'onore e l'onere della presa del suono di questi tre dischi, una presa che doveva prima di tutto fissare e restituire l'incantevole suono che il meraviglioso Giovanni Battista Guadagnini del 1745 imbracciato da Yulia Berinskaya riesce a sprigionare nel corso delle dieci Sonate, oltre allo Steinway  D-274 usato da Ligoratti. Operazione perfettamente riuscita, poiché la dinamica e la microdinamica (e ciò evidenzia la corretta microfonatura effettuata) sono un crogiolo di energia e di naturalezza tali da rendere un servizio di prim'ordine a favore degli altri parametri, a cominciare del palcoscenico sonoro, che vede i due strumenti ricostruiti assai bene nello spazio fisico nel quale si trovano posizionati, con il violino leggermente e giustamente avanzato rispetto al pianoforte. La loro profondità non risulta eccessiva, il che rende l'immagine di una composizione cameristica, con entrambi gli strumenti quindi posizionati in avanti, al centro dei diffusori, con il suono che si irradia piacevolmente in altezza e in ampiezza. L'equilibrio tonale, oltre ad esaltare le sfumature del timbro del Guadagnini e la corretta decadenza degli armonici del pianoforte, vanta un pieno, totale rispetto dei registri dei due strumenti, i quali non risultano mai reciprocamente invasivi, ma sempre perfettamente distinguibili e adeguatamente scontornati (un esempio, in tal senso, è dato quando il registro grave dello Steinway si confronta con quello acuto del violino, senza risultare impastati o, peggio, sovrastanti l'uno sull'altro). Infine, il dettaglio è oltremodo materico, con una generosa quantità di nero che circonda gli strumenti e con la chiara percezione fisica dei due interpreti, chiaro segno di una grande, grandissima pulizia.

Andrea Bedetti


Ludwig van Beethoven – Complete Sonatas for Violin & Piano Vol. 1 (Op. 12 No. 1 – Op. 30 No. 2 Op. 96)

Yulia Berinskaya (violino) – Stefano Ligoratti (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00267


Ludwig van Beethoven – Complete Sonatas for Violin & Piano Vol. 2 (Op. 23 – Op. 24 “Spring” - Op. 47 “Kreutzer”)

Yulia Berinskaya (violino) – Stefano Ligoratti (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00385


Ludwig van Beethoven – Complete Sonatas for Violin & Piano Vol. 3 (Op. 12 Nos. 2 & 3 – Op. 30 Nos. 1 & 3)

Yulia Berinskaya (violino) – Stefano Ligoratti (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00525

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5