La violinista, didatta e direttrice artistica del Festival delle Settimane Musicali del Teatro Olimpico di Vicenza si racconta in questa intervista tra ricordi del suo Paese, il rapporto e l’apprendimento con grandi musicisti, la sua necessità di esibirsi a piedi nudi, la totale simbiosi con il suo strumento, un Gennaro Gagliano del 1760, i suoi sogni nel cassetto…
Maestro Tchakerian, lei ha avuto modo di studiare, una volta venuta in Italia dalla natìa Armenia, con musicisti del calibro di Giovanni Guglielmo, Salvatore Accardo, Franco Gulli e Nathan Milstein. Presi uno ad uno, che cosa le hanno insegnato? E, allo stesso tempo, la fase di naturale e inevitabile distacco dal maestro, che porta ad avere e a manifestare la propria personalità artistica, come viene tramutata e metabolizzata da parte di chi è stato allievo?
Sono stata molto fortunata perché ho avuto Maestri straordinari. Giovanni Guglielmo l’ho incontrato a sette anni e sono diventata adulta con lui al mio fianco. Ricordo bene le sue lezioni, il suo affetto quasi paterno e la tenerezza che aveva per me nei primi tempi. Ma sempre molto esigente, non si accontentava, non era “buono” con me perché ero piccolina, anzi, se necessario, mi tirava le orecchie! Ricordo ancora… Franco Gulli l’ho incontrato in varie masterclasses in Italia. Grandissimo violinista e musicista. Mi ha aperto gli occhi sullo stile, sul valore del testo, con una disciplina eccezionale che mi ha conquistata. Nathan Milstein l’ho seguito per tre anni a Zurigo. Che artista! E che uso dell’arco! Vederlo così da vicino… ricordo dei colpi d’arco alla punta come non avevo mai visto prima, con una purezza e bellezza di suono tutta sua. Con Salvatore Accardo… credo di essere fra le allieve più longeve della Stauffer! Andavo a lezione persino incinta del mio primo figlio! Non potevo rinunciare. Un grande violinista, un grande Maestro. Sempre mi sorprende la sua competenza, la vastità del suo repertorio (come pochi altri), la lucidità con cui risolve ogni situazione, sia tecnica che stilistica. E soprattutto, mai geloso dei suoi segreti e della sua esperienza. Ancora adesso, se lo cerco, se gli chiedo consigli, mi accoglie con affetto e generosità. Tutti, in modi diversi fra loro, con grande passione, mi hanno donato le loro competenze, quello che a loro volta hanno ereditato dai loro maestri. Un po’ alla volta, in un’evoluzione naturale, grazie all’aiuto di tutti, ho iniziato a camminare da sola. E li ringrazio riconoscente.
Parliamo adesso del rapporto che ha o che ha avuto con i direttori orchestrali, tra i quali Piero Bellugi, Daniele Gatti, Antonio Janigro, Daniel Oren, Daniele Rustioni, Claudio Scimone, Emil Tchakarov. Come si crea il giusto feeling artistico/interpretativo con un direttore d’orchestra? Su quali basi deve fare affidamento questo rapporto? E poi, durante il concerto dal vivo o la registrazione discografica come comunicano l’uno e l’altro? Ogni direttore ha un proprio sistema, una sorta di “linguaggio corporeo” con il quale “dialogare” con l’interprete solista?
Mamma mia quanti ricordi e incontri, tutti importanti e molto diversi fra loro! Il più “traumatico” (lo dico sorridendo! ero davvero ragazzina) è stato con il Maestro Janigro! Per me il primo artista davvero “internazionale”. Lui, bravissimo, grandissimo, carismatico, ma un carattere, e poi un vocione… Io ero davvero molto giovane e intimorita. Il feeling non è scontato. A volte è una naturale affinità artistica, in altre arriva con il confronto. Ma, sempre con grandi artisti, si trova la via giusta insieme, ci si incontra strada facendo. Poi, ciascuno costruisce a modo suo: chi lavora molto in fase di concertazione, chi sorprende di più in esecuzione… Fra tutti, con Daniele Gatti, oltre ad avere avuto l’onore di suonare insieme, c’è una lunga amicizia…
Il suo ultimo lavoro discografico, registrato per la Universal Classics & Jazz, è stato dedicato all’integrale dei concerti violinistici di Mozart con l’Orchestra di Padova e del Veneto, e con Giovanni Sollima che ha scritto appositamente le cadenze. Com’è nata questa collaborazione, tenuto che il violoncellista e compositore palermitano ha scritto anche un brano per lei, e come può definire il lavoro che è stato fatto sulle cadenze? Vantano un respiro che è Mozart o vanno oltre Mozart?
Desideravo delle cadenze nuove per i concerti di Mozart. Avrei voluto improvvisarle, ma non sono così brava. Chi poteva farlo per me? Giovanni Sollima è stato subito il mio primo pensiero. Grande artista, eclettico, curioso, visionario. In più un grande violoncellista, uno strumentista ad arco. Chi meglio di lui? Ho espresso il desiderio e lui lo ha accolto con entusiasmo. Un amico! Nelle sue cadenze c’è tutto Mozart e tutto Sollima. Un cammino che ho molto amato, coerente e inevitabilmente visionario, come sono loro due. Grazie Giovanni!
Continuiamo con il suo rapporto con i compositori; il suo compatriota Tigran Mansurian le ha dedicato un pezzo per violino solo, Monodia, impregnato di un seducente misticismo sonoro, il cui impianto armonico è basato sul linguaggio modale che richiama inevitabilmente un andamento spirituale, oltre al fatto che ci sono continui rimandi a canti popolari armeni. Che cosa significa essere armeno oggi, tenendo conto che il genocidio di cui è stato vittima il suo popolo viene ancora oggi in parte dimenticato o sottovalutato? Gustav Mahler, parlando di se stesso, amava ripetere: «Tre volte senza patria, boemo fra gli austriaci, austriaco fra i tedeschi, ebreo in tutto il mondo». In fondo, credo che ogni armeno possa riconoscersi pienamente in questa affermazione, visto che porta sempre con sé un bagaglio di rifiuto e di persecuzione.
I miei nonni paterni erano profughi del genocidio. Non so dirle perché ma lo “sento” molto vicino, mi appartiene al punto che ho sempre pensato che qualsiasi orrore può ripetersi, sempre, ovunque. Chi non ha da raccontare rifiuti e persecuzioni, quante le tragedie vissute e purtroppo dimenticate o negate… Per il resto, sono esattamente metà armena (di madrelingua, fino a sette anni non ho parlato in italiano) e metà italiana. L’Italia è il mio Paese. Sono stata accolta, integrata, ho potuto studiare e ho avuto un lavoro, come posso non essere italiana! L’“armenità” la devo cercare un po’ di più. Nella lingua che provo a mantenere (sono poche le persone con cui riesco a parlare in armeno), nella malinconia, nella nostalgia… La musica tradizionale, in questo senso, è davvero evocativa. Come artista, Tigran Mansurian lo amavo da tempo ma, una decina di anni fa, l’ho incontrato a Venezia e da subito ho amato anche la sua gentilezza. Monodia è un dono meraviglioso che il maestro mi ha fatto. Evocativo, gentile, profondo, essenziale come è lui.
Lei sovente preferisce esibirsi nei concerti suonando a piedi nudi. Questa nudità le permette di sentire meglio le vibrazioni che dal violino passano attraverso il suo corpo per essere scaricate a terra? Mi piace pensare che in quei frangenti lei si senta come un’antenna ricettiva, in cui tutto il suo organismo s’impregna dell’essenza fisica del suono, in modo da non percepirlo solo con l’udito. È così?
Per molti anni ho suonato con un paio di scarpe rosse che ho molto amato e che usavo quando le scarpe rosse erano introvabili!… ma, sono sincera, a casa, nella vita quotidiana, da sempre vivo a piedi nudi. Studio a piedi nudi. Ci sto bene, effettivamente è un contatto diverso con l’essere… ovunque, su un prato, sulla sabbia, in casa… Così è stato un passaggio molto naturale, è bastato decidere di portarlo con me anche ai concerti… davvero lo vivo come segno di semplicità e umiltà.
Lei è anche docente di violino ai corsi di Alto Perfezionamento dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma. Negli studenti che segue, consiglia e istruisce che cosa condivide, in che cosa si riconosce rispetto a quando è stata allieva? E quali sono, invece, le differenze?
Sicuramente i ragazzi di Roma sono molto motivati, appassionati, credono nel valore della musica e ne hanno rispetto. Questo è già uno straordinario punto di partenza. Poi ciascuno ha la sua storia, il suo carattere, il suo talento e le sue fragilità, siamo tutti persone uniche. Rispetto a quando ero ragazza, hanno molte più opportunità. I contatti e gli incontri sono molto più agevolati, e questo è sicuramente un vantaggio ma, ritengo, lo si debba gestire con intelligenza e prudenza. I ragazzi a volte seguono troppe vie contemporaneamente e non so quanto alla fine sia veramente utile. Vedo che può anche creare confusione. Al giorno d’oggi, nella quantità di informazioni a disposizione, non è facile trovare la propria via. Da parte mia, desidero condividere quello che ho ricevuto dai miei maestri, ai quali sarò sempre riconoscente. Passione, serietà, onestà intellettuale, disciplina, curiosità. Spero acquisiscano le competenze per camminare da soli, per trovare il giusto equilibrio tra umiltà e ambizione.
La sua attività e l’amore per la musica l’hanno spinta anche a diventare, con passione ed entusiasmo, direttore artistico del Festival delle Settimane Musicali del Teatro Olimpico di Vicenza, ruolo che ricopre dal 2019. Quanto è importante per ricoprire questo incarico l’essere una musicista, ossia chi fa musica oltre a saperla solo organizzare?
Il ruolo del direttore artistico rimane fondamentale nell’organizzazione delle attività musicali e richiede notevoli competenze. Di fatto sono sempre di più gli amici e colleghi musicisti che vivono il doppio ruolo di artista e organizzatore, e non solo in Italia. Forse perché dal pensare il programma di un proprio concerto a quello di un’attività musicale più articolata diventa un passaggio “naturale”. E anche perché gli incontri fra artisti creano di per sé novità artistiche inaspettate! E si impara sempre… e poi è davvero stimolante immaginare, creare, essere visionari anche nell’organizzazione. Anche se da tempo mi occupavo della programmazione dei concerti cameristici, spero che la firma della mia direzione artistica del Festival tracci un segno, un carattere, una via che la contraddistingue.
Lei suona un violino costruito nel 1760 a Napoli da Gennaro Gagliano. Come è nato questo rapporto unico con lo strumento in questione? Ogni violinista sceglie un violino non solo per le insite peculiarità musicali, ma anche perché si riconosce attraverso il suono prodotto da quel determinato strumento. Si può dire lo stesso per lei e per il Gagliano?
Il rapporto del suono dell’artista con il suo strumento è in effetti misterioso. Si sa (!) che un violino (lo prendo ad esempio visto che sono violinista, ma vale per qualsiasi strumento) cambia suono a seconda di chi lo suona. Si sa anche che ogni violinista ha un suono, il suo suono, in strumenti diversi… Molto interessante! Credo che ciascuno cerchi lo strumento che più si avvicina al suono che ha dentro di sé, al colore che più si avvicina alla propria essenza. E quando si incontra quello strumento, è amore a prima vista! Così è stato anche per me. Con il mio Gennaro Gagliano viviamo insieme da molti anni.
Ha già in mente quale sarà il suo prossimo progetto discografico oppure è ancora riposto nel cassetto?
Tanti progetti e uno, in particolare, c’è nel cassetto… Ma, mi chiedo e le chiedo, ha ancora un senso incidere dischi con tutto quello che già esiste? Sono in questa fase…
Andrea Bedetti