Definire le Goldberg Variationen uno dei capolavori più inflazionati a livello discografico, per via dell’esorbitante numero di incisioni che si sono andate a sommare, soprattutto negli ultimi decenni, sarebbe a dir poco pleonastico, ma è indubbio che quest’opera, oltre ad essere presa di mira dal fuoco incrociato delle letture clavicembalistiche e pianistiche, è ormai appannaggio di ogni tipo di approccio strumentale, cameristico e perfino orchestrale. Certo, contribuisce anche (e soprattutto) il fatto che lo stesso Bach, concedendo piena libertà all’esecutore per via di un’essenzialità estrema nelle indicazioni fornite sulla partitura, abbia fornito la debita stura a un proliferare di registrazioni che, a conti fatti, possono riassumersi, tra le tante che personalmente ho avuto modo di ascoltare, in poche veramente indispensabili, alcune eccelse, moltissime senza che offrissero qualcosa di interessante, e diverse del tutto inutili o, peggio, dannose per l’udito e per l’intelletto.

La cover del CD ICSM Records dedicato alla Goldberg Variationen di Bach.

Un’altra costante, come ho già fatto presente in altre occasioni, è che se c’è stato un tempo (fissandolo, si può determinarlo fino agli anni Sessanta, con debite eccezioni, del secolo scorso) durante il quale la registrazione discografica delle Goldberg Variationen ha rappresentato un momento di arrivo nella carriera di un artista, che si sentiva in grado di affrontarle ed esprimerle solo al raggiungimento dello stadio della sua maturità interpretativa, oggi, al contrario, sono divenute aperta terra di conquista da parte dei rappresentanti delle ultimissime generazioni (e da qui l’irrefrenabile numero di incisioni che ci bombardano da ogni angolo), che le prendono a modello per iniziare la loro avventura con il mondo delle sale di registrazione. Cosa che ha puntualmente fatto anche un giovane clavicembalista e fortepianista inglese, Nathaniel Mander, il quale ha fatto praticamente il suo debutto discografico proprio registrando le Goldberg Variationen con l’etichetta britannica ICSM Records, esibendosi con il suo clavicembalo, una notevole copia da Jean-Claude Goujon del 1749, costruita da Andrew Garlick nel 1990 (strumento sul quale mi soffermerò poi). Se ho voluto parlarne, essendo restio nell’ascoltare e valutare ulteriori incisioni di questo capolavoro per i motivi che ho appena addotto, è stato sulla base di tre precisi motivi: 1) l’approccio esecutivo scelto da Mander 2) la conseguente riflessione estetico-filosofica 3) la qualità tecnica della presa del suono.

Prima di tutto, il giovane tastierista inglese ha voluto imbastire la sua lettura evitando di proporre le ripetizioni e i ritornelli, asciugandola o, per meglio dire, prosciugandola, spolpandola di ogni elemento che potesse apparire ridondante e riducendo così il tempo di registrazione a poco più di quaranta minuti, a fronte di incisioni che arrivano a sfiorarne il doppio. Un’essenzialità che è stata ulteriormente avvalorata dal tipo di suono espresso dal suo clavicembalo, il cui timbro è tipicamente fiammingo-francese, ossia contraddistinto da sonorità delicate per quanto riguarda il registro grave e da quelle più cristalline, sfumate e dal decadimento degli armonici più repentino in quello medio-acuto, contrariamente ai clavicembali di scuola tedesca, che manifestano un suono più roccioso sulla gamma bassa e più “metallico” e possente in quella alta. La delicatezza del registro acuto e la compostezza di quello grave hanno così permesso di enunciare con estrema chiarezza l’ordito contrappuntistico senza ripudiare l’elemento della bellezza melodica, tenendo sempre bene in mente il costrutto generale e, allo stesso tempo, la scansione individuale delle singole variazioni, le quali, a livello di presa del suono, risultano sempre essere distanziate le une dalle altre da diversi secondi di pausa, conchiudendole così, di volta in volta, in una sorta di cornice da renderle pienamente “autosufficienti”.

Nathaniel Mander con il suo clavicembalo, con il quale ha registrato le Goldberg Variationen.

Trovo che questa “autosufficienza” di intenti nella progressiva proposizione dell’opera porti a circoscrivere spazialmente lo svolgersi delle variazioni, e qui affrontiamo il secondo punto, e parallelamente il tipo di considerazione temporale che Nathaniel Mander ha voluto dare alla sua lettura/registrazione. Una certa tradizione critica, interpretativa delle Goldberg Variationen ha sempre voluto simboleggiare la dimensione temporale di quest’opera in un senso ciclico, ossia un flusso ininterrotto il cui raccordo inizio/fine dato dall’Aria introduttiva e dalla sua riproposizione finale rappresentasse una sorta di cerchio infinito, dando modo all’interprete, all’ascoltatore e al pensatore di vedere in essa una composizione che idealmente non ha inizio, così come non ha fine (considerazione che, in un certo senso, nelle note di accompagnamento a questa registrazione, Corrina Conner rimarca, ricordando come il compositore americano Lawrence Kramer, appartenente alla New Musicology, quella votata a una concezione maggiormente umanista e interdisciplinare della musica, abbia definito la ricomparsa dell’Aria come una sorta di revenant, un fantasma musicale, confrontandola con la definizione che Freud dà di questa immagine, la quale vede in tale raffigurazione qualcosa di inquietante, di stranamente nuovo e, tuttavia, allo stesso tempo familiare: familiare perché consolidata dalla concezione temporale che si instaura nella mente di chi ascolta e contemporaneamente estraniata dal processo di rimozione).

Da qui, quella di Mander si pone come una lettura che non prende in considerazione la ciclicità dell’opera, ma ne offre una in cui prevale la linearità, la rettilineatà, un segmento che ha un inizio e una fine, frutto di trentadue micro-segmenti capaci di formare un tutto che si esaurisce con la fine del suo costrutto musicale, mettendo così da parte la tentazione di un’illusione revenante, in quanto la sua concezione “temporale” non riconosce più il fascino spettrale dell’Aria, la quale non assume più una veste da considerarsi introduttiva, così come non lo è più (falsamente) ripropositiva, ri-proponendo, quindi, l’idea di una sua infinita ciclicità. A parte ciò, Mander riesce ad affascinare in sé con la sua esecuzione, sempre eloquente, convincente nella sua asciuttezza (e in ciò, l’uso del suo strumento lo agevola in termini di timbrica), per il fatto che il suono ridotto all’essenziale, nella sua sublime nudità, viene offerto come una vittima sacrificale, come un dono da elargire al divino e agli umani. Una lettura immanente, ma che non mette mai da parte il trascendente.

Nathaniel Mander, praticamente al suo debutto discografico con la registrazione fatta per la ICSM Records.

Da ultimo, la presa del suono. Ancora una volta, Tony Faulkner ha fatto un lavoro più che pregevole, facendo sì che ci troviamo di fronte a una registrazione capace di soddisfare anche i palati più esigenti. La dinamica è il risultato di un delicato equilibrio tra energia, naturalezza e velocità nei transienti, tale da permettere la ricostruzione del clavicembalo a due manuali a una discreta profondità per ciò che riguarda il parametro del palcoscenico sonoro, in modo da rendere palpabile e corretta la spazialità che si trova intorno allo strumento, scolpito al centro dei diffusori. L’equilibrio tonale mette in risalto le proprietà e le caratteristiche del clavicembalo, permettendo così di apprezzare la perfetta compostezza del registro grave, con un’esemplare decadenza degli armonici, e l’affascinante “cristallinità” di quello acuto, che non presenta mai accenni di una fastidiosa “metallicità”. Infine, il dettaglio restituisce una notevolissima matericità, con una palpabile fisicità dello strumento, il quale si staglia in senso tridimensionale grazie a uno scontorno dato da tanto, tantissimo nero che lo circonda.

La cover del CD della On Classical, con brani per clavicembalo di François Couperin.

Per rimanere nel contesto dell’universo clavicembalistico, un altro titolo decisamente interessante è quello che ha visto la tastierista veneta Elisabetta Guglielmin registrare alcuni pezzi per clavicembalo di François Couperin, in un album intitolato Preludes & Miscellaneous Works, pubblicato dall’etichetta discografica italiana On Classical. Questo grande musicista barocco, oltre ad avere contraddistinto un momento importante dell’evoluzione compositiva ed interpretativa della musica organistica, ha anche lasciato un fondamentale testamento in ambito clavicembalistico formato da quasi duecentocinquanta pezzi scritti nei primi tre decenni del XVIII secolo, un corpus che fu suddiviso da Couperin in quattro libri, a loro volta formati da ventisette ordres (i quali riflettono un preciso costrutto espressivo), così progettati: il Premier Livre de pièces de clavecin (1713) contiene sessantasette brani condensati in cinque ordres, il Second Livre (1716-17) presenta cinquantatré brani raggruppati in sette ordres, il Troisième Livre (1722) contiene cinquantuno brani contenuti in sette ordres e, infine, il Quatrième Livre (1730) vanta anch’esso cinquantuno brani radunati in otto ordres.

Ci sono due aspetti che devono essere ben chiari in mente da parte di coloro che si avvicinano a questa vera e propria Bibbia della letteratura clavicembalistica, e non solo francese: il primo è, come ricorda giustamente Marta Marullo nelle note di accompagnamento al disco, è che lo stesso compositore invitò, sulla scia di quanto già enunciato dai liutisti del Cinquecento, a considerare l’esprit dei suoi pezzi partendo dal loro titolo («les Titres répondent aux idées que j’ay eüe»), creando così una sorta di filo rosso sotterraneo che stabilisce un rapporto “semantico” tra titolo e composizione nel panorama dapprima clavicembalistico e poi pianistico nella musica francese, filo rosso che sarà poi spezzato, tra fine Ottocento e inizio Novecento, con la precisa volontà debussyana di frantumare tale ordine identificativo di rapporto (vedasi capitolo inerente i due Livres des Préludes), e il secondo, sempre seguendo le precise indicazioni fornite da Couperin, riguarda il suo trattato L’Art de toucher le clavecin, edito nel 1716 e ripubblicato l’anno successivo con una prefazione aggiornata e un supplemento con le diteggiature da adottare per risolvere i passaggi più difficili presenti nel Second Livre appena dato alle stampe, specificando che (cito il preciso passaggio estrapolato dalla stessa Marta Marullo) «très utile en general; mais absolument indispensable pour exècuter mes pièces dans le goût qui leur convient, et que j’ai jugé devoir placer entre mes deux livres», vale a dire che il compositore francese poneva assoluto rilievo nel fatto che il saper toucher (un verbo che dobbiamo intendere non tanto nell’atto di “toccare”, interpretare, suonare il clavicembalo, quanto di saperlo fare esprimere partendo proprio dalla raffigurazione data a ogni determinata pièce contraddistinta dal suo titre) era dir poco indispensable per evidenziarne il goût, ossia il reale “significato”, partendo dal “significante” dato dalla corretta diteggiatura da adottare di volta in volta, in modo che la tecnica (nel senso precipuo dato dal corrispettivo termine greco τέχνη) potesse far evocare e intendere il suo grado di espressività.

François Couperin, in un ritratto coevo di anonimo.

Considerate sotto questa angolazione interpretativa, le pièces di Couperin non devono essere soltanto eseguite correttamente, ma per rispettarne il goût, come auspicato da loro autore, devono essere raffigurate per poter esprimere pienamente il loro enorme potenziale artistico; la loro intitolazione equivale, così, a quella di un dipinto, è il corrispettivo sonoro dato da un’idea, da un’immagine, da una sensazione, da un’emozione, in quanto già in epoca barocca, ancor prima della tanta evocata “unità delle arti” di romantica memoria, le connessioni tra arte pittorica e quella musicale si manifestarono chiaramente, tra lo spazio coloristico e il tempo sonoro. Così, ascoltare i pezzi clavicembalistici di Couperin significa saperli anche vedere, ammirare, contemplare, in quanto rappresentano uno splendido spaccato non solo artistico, ma anche sociale e culturale della loro epoca, una chiave di volta per poter concepire la sontuosità di un tempo in cui la dimensione temporale (sempre nell’ambito della pittura) era ancora sotto l’egida di quella spaziale, andando a definire meglio, più in profondità, la loro “tridimensionalità” espressiva.

Ora, la scelta fatta da Elisabetta Guglielmin, la quale non è stata per caso allieva del grande Kenneth Gilbert, per presentare una silloge del corpus clavicembalistico di Couperin, è stata escogitata e programmata come se si trattasse di una mostra pittorica fatta in chiave sonora; non per nulla, la “chiave di volta” è stata data dalla tastierista veneta attraverso un preciso andamento “aritmetico”, nel senso che ha estrapolato dai primi due Livres (per fornire un’immagine ancor più radicata e immediata da quanto enunciato dal trattato de L’Art de toucher le clavecin) otto coppie di pièces, facendole precedere dagli otto préludes che fanno, di volta in volta, da “catalogo” della mostra sonora, andando a definire l’impianto, la struttura, il colore, perfino il sapore delle pièces che ne derivano. Ecco, perché mi piace immaginare, a mia volta, che il progetto discografico di Elisabetta Guglielmin sia stato una sorta di “Quadri di un’esposizione” ante litteram di musorgskijana memoria, dando modo all’ascoltatore, soprattutto a colui che dev’essere introdotto all’arte clavicembalistica di François Couperin, di ammirare una mostra sonora che presenta uno squarcio affascinante e coinvolgente della sua epoca, di capire come la musica abbia rappresentato un potente mezzo di coesione di una classe sociale (quella più agiata, colta ed economicamente forte), della quale Couperin è stato sonoramente il più lucido e geniale, così come un Watteau, un Fragonard, un de La Tour, un Chardin lo sono stati a livello pittorico.

Questo tipo di immagine/mostra sonora viene ulteriormente corroborato dal tipo di pièces che l’artista veneta ha voluto presentare, dando modo di creare otto “sale sonore”, tutte contrassegnate da una tematica, proprio come avviene all’interno di una mostra pittorica. Così, abbiamo chiari riferimenti a persone (pièce La Raphaèl, omaggio a Raffaello Sanzio, la cui pittura fu ammirata dal classicismo francese, abbinata al pezzo La Morinète, in onore al compositore Jean-Baptiste Morin), così come a contesti sociali del tempo, come nel caso de La Bandoline, un tipo di cosmetico femminile in voga nelle classi agiate dell’epoca, unita a una figura femminile, L’Angélique (Beaudet de Morlet), moglie di Nicolas Sézille, tesoriere del re, così come a sensazioni emotive, Les Langueurs-Tendres, unita al misterioso ed allegorico Les Baricades Mistérieuses. O ancora la natura, data dalle pièces Les Silvains e Les Abeilles (con quest’ultima che potrebbe anche far riferimento alla Duchessa del Maine, Louise Bénédicte de Bourbon, nota anche con il soprannome de La Reine des Abeilles).

La clavicembalista veneta Elisabetta Guglielmin, allieva del grande Kenneth Gilbert.

La bellezza, il fascino di questa registrazione risiedono nella capacità di Elisabetta Guglielmin non solo di rendere pieno merito alla profondità delle pièces da lei prese in esame, ma per come riesce ad evidenziarne la loro raffigurazione. Per i motivi che ho già spiegato, qui non si tratta solo di possedere alte doti esecutive in fatto di interpretazione musicale, ma anche e soprattutto di qualità e sensibilità metamusicali, ossia la proprietà di inserire adeguatamente le opere affrontate calandole in una dimensione temporale e spaziale ideali, cosa che l’artista veneta riesce a fare benissimo. Con la sua lettura, ci aggiriamo nelle sale di una mostra pittorica, sfogliamo le pagine di un romanzo epistolare del Settecento, ci immergiamo nel cuore di una classe sociale nella quale Couperin si mosse e visse a suo completo agio; ciò vuol dire che Elisabetta Guglielmin ha saputo musicalmente rendere metamusicalmente la loro dimensione totale, icona di un’epoca, parametro di una società e della sua cultura. Quando si eseguono lavori musicali fatti di pura astrazione, di tecnica diluita tra assolute armonia e melodia, soprattutto quelli che provengono da un tempo a noi lontano, la trappola della loro incomprensione, della loro estraneità al nostro ascolto (sarebbe più corretto definirlo goût) è sempre in agguato; solo chi penetra in quella materia sonora nel giusto modo, ed Elisabetta Guglielmin lo fa con straordinaria “ortodossia” interpretativa, si riesce a rendere, in sede di ascolto, atemporalmente il loro essere temporale.

Avvalendosi di un’affascinante copia di clavicembalo Johann Ruckers del 1638, costruito nel 2009 da William Horn, la tastierista veneta ci permette di accedere al cuore compositivo/esplorativo di questi brani, permettendo a noi contemporanei/estranei di assaporare il loro succo sonoro e psicologico, culturale ed estetico; il senso ritmico delle danze e dei tempi, il loro disvelarsi subitaneo, la capacità di saper tratteggiare le loro forme poliedriche e spaziali, in modo da far affiorare la raffigurazione di cui sono fatta materia, offrono un ascolto e un coinvolgimento totali. Quando un interprete raggiunge il suo scopo con ciò che esegue, vuol dire che coloro che l’ascoltano cessano, nel corso di quel tempo sonoro, di essere uomini del tempo che vivono e tornano, miracolosamente, ad esserlo nel tempo da cui proviene quella musica.

Grazie ad Elisabetta Guglielmin, per settanta minuti, siamo tutti destinati a diventare uomini del Settecento, per poi tornare ad essere più ricchi e consapevoli dopo tale ascolto.

Ancora Elisabetta Guglielmin, con il produttore ed ingegnere del suono Alessandro Simonetto.

Anche in questo caso, grazie alla presa del suono effettuata da Alessandro Simonetto, ci troviamo di fronte a un risultato tecnico di indubbio valore: la dinamica rende giustizia, grazie alla velocità dei transienti e alla mancanza di colori innaturali, la bellezza cristallina tipica di un clavicembalo fiammingo, dotato di un registro grave preciso, sontuoso, ma allo stesso tempo mai debordante e invadente. Il palcoscenico sonoro, poi, ricostruisce con precisione al centro dei diffusori lo strumento a una discreta profondità, ricreando in tal senso lo spazio fisico nel quale si trova. L’equilibrio tonale si dimostra sempre corretto, in grado di mettere a fuoco distintamente sia il registro medio-acuto, sia quello grave, senza che si creino problemi di accavallamento. Infine, il dettaglio è squisitamente materico, pregnante nel restituire la fisicità e tridimensionalità del clavicembalo, permettendo allo stesso tempo di effettuare un ascolto che non risulta mai stancante a livello di udito.

Andrea Bedetti

Johann Sebastian Bach – Goldberg Variations, BWV 988

Nathaniel Mander (Clavicembalo)

CD ICSM Records ICSM 018

Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5

François Couperin – Preludes & Miscellaneous Works

Elisabetta Guglielmin (clavicembalo)

CD On Classical OC21090B

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5