Quello presentato dalla pianista bergamasca Sara Costa, per l’etichetta discografica Da Vinci Classics, nel suo ultimo, recentissimo disco, dal titolo Evocations è un programma decisamente impegnativo dedicato a Johannes Brahms. Programma che inizia con la Sonata n. 2 in fa diesis minore op. 2, che continua con due brevissime rarità, l’Albumblatt in la minore e le Zwei Gavotte WoO 3, e che si conclude con le meravigliose Variationen und Fuge über ein Thema von Händel op. 24.
Cominciamo dalle due rarità, che meritano qualche delucidazione in più rispetto alle altre celeberrime pagine del gigante di Amburgo presenti nel disco in questione; anche se pochissimo eseguite, le Due Gavotte WoO 3 rappresentano un tentativo di composizione focalizzato sull’interesse che Brahms nutrì, a metà degli anni Cinquanta, relativamente al genere della suite, che all’epoca non solo in seno al pianismo era del tutto desueto. Non sappiamo per quale motivo e partendo da quali autori Brahms si sia interessato così vivamente alla suite (Piero Rattalino ha sostenuto che tale interesse nell’amburghese sia sorto dopo aver conosciuto una ricerca fatta dal collega francese Alexandre-Pierre-François Boëly che, tra il 1853 e il 1855, aveva scritto otto suite «composte nello stile degli antichi maestri», quattro delle quali erano state pubblicate nel 1854). Ora, non sappiamo se Brahms entrò in possesso della partitura stampata di queste quattro suite, ma è certo che cercò all’epoca di mettere sul pentagramma una suite più o meno nello stile tratteggiato, a livello di collegamento, da Boëly. Di tale composizione furono delineati e portati a conclusione solo alcuni segmenti, che furono stampati solo molto più tardi, esattamente nel 1917 e nel 1927, mentre le due Gavotte in questione, una in la minore e una, incompiuta, in la maggiore, furono riportate alla luce nel 1976, per merito del musicologo gallese Robert Pascall.
Ancora più particolare è la storia riguardante l’Albumblatt; questo brevissimo schizzo fu scritto di proprio pugno dal giovane Brahms nel giugno 1953, quando il compositore era impegnato in una tournée con l’amico violinista Edouard Remenyi, nel cosiddetto Album amicorum appartenuto ad Arnold Wehner, direttore musicale dell’Università di Göttingen, un album contenente contributi musicali e citazioni di importanti compositori e musicisti contemporanei, tra cui Schumann, Mendelssohn e Liszt. Il pezzo brahmsiano (scritto in modo chiaro e comprensivo di indicazioni di esecuzione) è stato scoperto allorquando la casa d’aste Doyle di New York City ha venduto l’Album amicorum nell’aprile del 2011 per 158.500 dollari, facendo capire ai musicologi che il tema pianistico riportato era poi stato utilizzato dal sommo amburghese nella sezione del trio dello Scherzo nel suo Trio per pianoforte, violino e corno, composto dodici anni dopo.
Per ciò che riguarda la Sonata n. 2, anche se la sua composizione precede la prima, in quanto pubblicata come seconda, si devono quantomeno ricordare due aspetti, uno generale in seno al trittico di Sonate che il giovane Brahms compose “dall’alto” dei suoi vent’anni, ed uno specifico nella Sonata in fa diesis minore in oggetto. L’aspetto generale è che questo trittico fu escogitato in nome di quel classicismo al quale il nostro autore non venne mai meno in tutta la sua attività di compositore e, più specificatamente nel nome di Beethoven, anche se è vero che il genere della Sonata, almeno nel contesto dello schema formale, non venne mai inteso da Brahms nel senso accademico del termine, se si tiene conto di come intese plasmare i rapporti di tonalità. Da qui, entrando nell’aspetto specifico della Sonata n. 2, il compositore tedesco volle mantenere un’unità del modo minore, oltre a privilegiare il concetto dell’unificazione tematica, su ascendenze squisitamente mendelssohniane, con il tema dello Scherzo che rappresenta una variante di quello dell’Andante con espressione, mentre il primo tema dell’Allegro non troppo, ma energico iniziale è costruito sulla medesima cellula motivica che appartiene allo stesso Andante con espressione.
Come sappiamo, Brahms compose le Händel-Variationen durante l’estate del 1861, contemporaneamente alle Variationen über ein Thema von Robert Schumann op. 23, e furono eseguite ufficialmente a Lipsia da Clara Wieck il 14 dicembre di quello stesso anno, esecuzione durante la quale la moglie di Schumann indirizzò mentalmente accidenti a non finire all’autore per via della spossatezza fisica che tale composizione provoca a chi le esegue, a causa delle varie esigenze che confluiscono in esse, vale a dire la tecnica della variazione e le sue implicazioni e la continua e spossante ricerca sulla scrittura e sul suono. Senza contare che quest’opera, sul solco della leggendaria esecuzione della Matthäus-Passion di Bach, voluta e curata da Felix Mendelssohn nel 1829 a Berlino, rientra in un aspetto assai caro al Romanticismo musicale, quello che riguarda la scoperta del concetto della “storia” e del suo procedere che diviene valore, cioè che la musica concepita in un passato più o meno remoto può essere restituita al presente non solo per essere strappata ad un ingiusto oblio, ma anche in quanto può fornire nuovi stimoli in chiave estetica e in quella etica. Appare quindi ovvio il fatto che un compositore come Brahms, che guardava alle forme del passato come modelli da attualizzare e non certo da rinnegare, andasse a nozze con il processo storicizzante in chiave musicale. Un processo che, per ciò che riguardava il genere della variazione, vide Brahms dissociarsi completamente dalla valutazione e dall’uso fatto dal suo maestro, ossia Schumann, in quanto se quest’ultimo le trattò attraverso un modello del tutto libero (vedasi il capitolo dei Symphonische Etüden), nel suo allievo, al contrario, vi fu un’esaltazione votata a un principio rigoroso, con il quale, come fecero Bach e Händel, fare in modo che il valore formale del tema iniziale venisse sempre rispettato. Sulla base di ciò, a livello di risultato finale, le Händel-Variationen vanno a concludere l’ideale trimurti formata dalle Goldberg Variationen di Bach e dalle Veränderungen über einen Walzer von Diabelli di Beethoven.
Quindi, da ciò si può comprendere come la pianista bergamasca si sia lanciata in un programma decisamente impegnativo, sia a livello tecnico, sia stilistico-espressivo. Un programma che, in linea generale, appare convincente a livello di lettura e con dei punti che, in sede interpretativa, meritano dei brevi approfondimenti. Al di là dell’Albumblatt, nel quale Sara Costa insuffla una delicata vena malinconica, e delle due Gavotte, in cui ovviamente il senso lato della danza viene giustamente messo in evidenza, ho notato che nella Sonata l’artista bergamasca ha voluto mettere in mostra il suono ottenuto da Brahms, nel senso che la sua esecuzione è andata a scavare nel segno per mettere in rilievo la bellezza sonora della composizione. Ciò si denota soprattutto nel primo tempo, in cui gli elementi di contrasto mettono anche in luce gli aspetti di instabilità emotiva, una sottile linea sotterranea che fa da carattere propulsore e che si riverbera anche nei tre rimanenti tempi, in cui il dato interpretativo si focalizza sui piani timbrici, andando a privilegiare ulteriormente questo compito di plasmare il suono in chiave estetica, pur non rinunciando all’enunciazione di una resa in cui si può rilevare la permanente tensione alla quale mira il sommo amburghese.
Di base le Händel-Variationen pongono un problema di scelta in chiave esecutiva: o si privilegia una lettura che tenga conto dell’arcata generale dell’opera, amalgamando di conseguenza il tema iniziale, le variazioni e la fuga finale, fornendo di conseguenza un quadro che assommi il tutto, oppure si punta su uno scavo individuale tassello per tassello, segmento per segmento, andando ad appoggiare, in chiave teorico-tecnica, la visione schönbergiana che punta il dito sulla “modernità” assoluta dell’opera brahmsiana, in una sorta di rivisitazione metaclassica della sua portata. Ascoltando la lettura di Sara Costa, opterei su questa seconda scelta, anche se non sono sicuro che l’artista l’abbia fatta pensando al padre del linguaggio seriale. Direi piuttosto che la sua è stata un’esecuzione “sismografica”, trasformando così il quadro generale in una quadreria, incorniciando di volta in volta la materia musicale per ciò che offriva in quel preciso passaggio, sia a livello di contrasto delle dinamiche, sia nell’assecondare le pulsioni sotterranee che governano quel passaggio musicale in sé (e ciò vale soprattutto per la serie delle variazioni). Sia ben chiaro, con ciò non voglio affermare che la pianista abbia voluto rinnegare un approccio in nome di quel classicismo (non un banale neoclassicismo, come ebbe a dire giustamente poi Ferruccio Busoni riguardo la visione brahmsiana rispetto al rapporto da attuare con la grande lezione del passato) che sovrintende l’intendimento del suo autore, ma piuttosto andando a liberare e a sguinzagliare la pletora di esigenze stilistiche che impregnano singolarmente i mattoni che compongono l’edificio di questo capolavoro pianistico.
Complessivamente buona la presa del suono fatta dal fido Gabriele Zanetti, anche se colpisce, in sede di palcoscenico sonoro, l’indubbia profondità nella quale si va a collocare, nella sua ricostruzione, lo Steinway D del 1953 utilizzato per la registrazione. Tale profondità, però, non inficia la nettezza del dettaglio, dell’altezza e dell’ampiezza del suono, in quanto sorretti da un’adeguata dinamica, la cui energia e velocità dei transienti corrobora la veridicità e correttezza della riproposizione spaziale. Buono anche l’equilibrio tonale, capace di offrire i piani del registro acuto e medio-grave in modo pulito, senza mostrare sbavature (il banco di prova è dato dalla fuga delle Händel-Variationen).
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – Evocations
Sara Costa (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00830
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5