Disco del mese di Gennaio 2024
Il punto di partenza dell’analisi del progetto discografico di cui andrò a scrivere è dato da una foto inserita nelle note di accompagnamento al disco, pubblicato dalla Da Vinci Classics, che vede l’interprete, il pianista triestino Luca Delle Donne, seduto su una panchina mentre sfoglia la storica edizione italiana curata per la collana BUR della Rizzoli da Ervino Pocar dei Fragmente di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg, universalmente conosciuto con lo pseudonimo che si diede lo stesso autore, ossia il poeta, teologo e naturalista tedesco Novalis. Metto in risalto questo particolare poiché, seguendo l’iter intellettuale di Delle Donne, so perfettamente che la sua ricerca interpretativa a livello musicale coinvolge sempre connotati interdisciplinari che confluiscono poi nell’atto esecutivo stesso. In questo caso, il richiamo di Novalis e ai suoi Frammenti rappresenta il Weg che conduce fino alla materia musicale che il pianista triestino pone in essere in questa sua nuova avventura discografica dedicata a quattro pagine di Robert Schumann, più precisamente il Thème sur le nom Abegg varié pour le pianoforte op. 1 (rispettando il titolo originale in francese dato come si conveniva all’epoca dallo stesso musicista), le Kinderszenen op. 15, l’Arabeske op. 18 e le Waldszenen op. 82.
Ciò si va ad unire con quanto scritto in tema di presentazione da Chiara Bertoglio nelle sue note di accompagnamento al disco, nelle quali elenca quegli elementi che furono affrontati ed esaltati dalla Weltanschauung romantica, ossia l’aforisma, la natura, l’individualismo, la narratività di matrice medievale, l’infanzia, il sogno, la notte e l’amore. Da questo elenco, però, vengono a mancare altri due aspetti a dir poco fondamentali, carismatici e ineludibili, presenti soprattutto o, per meglio dire, quasi esclusivamente nel Romanticismo germanico, vale a dire la morte e la follia. Elementi, questi ultimi, che se apparentemente non appartengono o non rientrano nei fini speculativi e musicali delle opere prese in oggetto da Delle Donne, non per questo non fanno parte dell’universo schumanniano ma, semmai, ne sono la cifra assoluta del suo percorso esistenziale, conoscitivo e artistico.
Prima di affrontare la lettura fatta dal pianista triestino, vorrei puntare la mia attenzione e quella di chi andrà a leggermi proprio su questi due ultimi aspetti della poetica e dell’estetica romantica tedesca e, in particolar modo, sul concetto di Wahnsinn, ossia di pazzia, follia, per il semplice fatto che si tratta di elementi che riguardano direttamente e inesorabilmente una personalità artistica e problematica come quella schumanniana. Disquisire della visione creativa ed estetica del musicista di Zwickau comporta, per i temi, le finalità, gli ambiti nei quali si muove la sua ricerca come compositore e critico, il chiamare spesso in causa uno dei padri putativi del Romanticismo tedesco, ossia Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Ciò è giustissimo, ma quasi mai, almeno nel nostro Paese, ci si ricorda di un altro personaggio, il musicista prima e critico musicale poi Johann Friedrich Rochlitz, il quale fu coevo sia di Novalis, sia dello stesso Schumann, essendo nato a Lipsia nel 1769 e morto nel 1842. Quindi, queste date ci fanno capire che Rochlitz visse sia la stagione del protoromanticismo, in cui rientra il cosiddetto “idealismo magico” d’impronta novalisiana, sia quella della prima generazione romantica, nella quale operò per l’appunto Schumann.
L’opera e la figura di Rochlitz sono state finora per così dire sfiorate, che io sappia, dalla cultura musicologica nostrana in due sole occasioni, la prima per merito dell’immancabile contributo da parte di Quirino Principe attraverso un articolo apparso anni fa su Classic Voice, la seconda grazie a una musicologa pugliese, Angela Fiore, che nel 2005 ha pubblicato un brevissimo, ma altrettanto denso, saggio intitolato emblematicamente Musica e follia agli albori del Romanticismo tedesco sulla Rivista Italiana di Musicologia (per la precisione, nel Vol. XL, nn. 1-2, pagg. 227-248). Al di là del fatto che Rochlitz fu un prolifico recensore e critico per l’Allgemeine musikalische Zeitung, rivista per la quale scrisse anche Schumann fino al 1831, la sua fama è dovuta anche per aver scritto un racconto, sulla scia di quelli ben più famosi vergati da E.T.A. Hoffmann, intitolato Der Besuch im Irrenhause, ossia Visita al manicomio, redatto nel 1804 e rivisto nel corso del tempo fino alla stesura definitiva risalente al 1820. Già il titolo, per non parlare della trama, fa comprendere che ci troviamo di fronte a una straordinaria versione letteraria di quanto poi Schumann fu costretto a vivere e sperimentare nei due anni trascorsi nel manicomio di Endenich, tra il 1854 e il 1856, quando esalò l’ultimo respiro. Anche nel racconto di Rochlitz, difatti, si narra di un musicista, Karl, il quale vive confinato in un sanatorio mentale trascorrendo le sue giornate nel suo mondo interiore, popolato di sogni immaginari e fantastici, e comunicando con l’esterno solo tramite la musica, elaborando su un vecchio pianoforte temi e motivi apparentemente senza alcuna logica formale, come appunto accadrà decenni dopo, nella tragica realtà di Endenich, a Robert Schumann.
L’aspetto interessante di questo racconto è che Rochlitz, imbevuto, impregnato dagli ideali del Romanticismo tedesco, non vede in Karl un caso patologico, ma solo la dimostrazione di come i territori dell’alterazione psichica rappresentino un formidabile viatico per entrare in contatto con la vera, genuina, sacra dimensione creativa, quella che permette l’accesso all’empireo delle sfere supreme, dove risiede l’arte suprema, assoluta, incarnata dalla musica. La vera essenza del Romanticismo tedesco non è quella di rassicurare, di fornire un’immagine positiva (filistea, avrebbe puntualizzato Schumann), ma di sconvolgere. Ecco perché, a tale proposito, la mia personale definizione del Romanticismo germanico è: “processo radicale di sdoganamento esistenziale e culturale dell’elemento disturbante in sé”. Il Romanticismo rovescia il piano dei valori acquisiti nel corso del tempo, ri-valutando ciò che il plurisecolare impianto storico aveva fino a quel momento rinnegato e stigmatizzato.
Ora, da Rochlitz torniamo a Novalis e a quanto afferma, in un punto ben preciso, il suo protoromanticismo, vale a dire il suo “idealismo magico”, il cui compito, mediante l’aiuto della poesia trascendentale, la quale è il risultato della commistione tra poesia e filosofia, è quello di riscoprire come tutto sia Märchen, ossia “fiaba” (ricordiamoci di ciò, quando riprenderemo il discorso sulla registrazione di Delle Donne dedicata a Schumann). Inoltre, il processo di riallineamento dell’uomo con la natura (anche qui dovremo fare attenzione, quando si parlerà delle Waldszenen), in nome di una nuova collaborazione “magica”, non può più essere fatto come nei tempi arcaici, in cui a dettare legge era la filosofia naturale, ma attraverso, come afferma Novalis, grazie a quanto può elaborare interiormente l’Io trascendentale, liberando, ossia “sdoganando”, il non-io che esso ostacola inconsciamente. Al di là della tentazione di lasciarsi andare a pruderie di ambito prepsicoanalitico, Novalis pone giustamente l’attenzione sull’atto liberatorio, svincolante, che l’atto creativo impone, un atto che assume valore totalizzante non solo nella sua compiutezza formale e significante, ma anche nella sua suprema incompiutezza. Ecco, allora, l’importanza dell’aforisma o, per meglio dire, del frammento, da intendersi come seme dell’unitarietà, del completarsi come atto conclusivo che dà vita alla creazione artistica.
Schumann lesse Novalis, ovviamente, anche se il suo referente letterario e poetico assoluto fu Jean Paul, per il quale nutrì un’autentica venerazione. Ma è indubbio che la lezione novalisiana della frammentazione come atto compiuto del sentimento artistico può essere rintracciata in parte della sua produzione pianistica, appunto nelle Kinderszenen (il vagheggiare al ritorno della sfera Märchen), nelle Waldszenen (l’auspicio di nuovo patto tra uomo e natura) nelle Variazioni Abegg (in cui l’elemento del frammento è da intendersi come un sottoinsieme che va a formare unitariamente un insieme) e perfino nell’Arabeske, i cui tre episodi che lo strutturano sono espressione di quella volontà prenietzschiana tesa a disgregare la compattezza perniciosa dell’Io per permettere l’affioramento del disgregante in sé.
A mio modo di vedere, ecco perché Luca Delle Donne ha voluto inserire quella sua immagine che lo ritrae con la versione italiana dei Fragmente di Novalis. Come a dire che la sua lettura di queste pagine schumanniane sovraintendono una ricerca ermeneutica più vasta, più totalizzante; ci vuol dire che la sua ricerca musicale rappresenta solo l’atto finale di un’“altra” ricerca preliminare nella quale confluiscono diverse e differenti istanze, tutte collegate tra loro, frammenti sublimi che riescono ad essere contemporaneamente autonomi e suscettibili al mistero della loro unione. Catapultarsi nei meandri del Romanticismo germanico tout court significa affrontare un viaggio periglioso, poiché il post Romanticismo tedesco rappresenta lo scoperchiamento di un dilaniante vaso di Pandora (e chi ha appreso la lezione di un George Lachmann Mosse sa perfettamente a che cosa mi riferisco), senza dimenticare che l’estrema ratio compiuta del suo manifestarsi sbocca ineluttabilmente nell’Espressionismo, nel quale l’impatto del disgregante in sé assume la sua connotazione finale, almeno a livello di implicazioni storiche, come ben dimostra il meraviglioso apporto dato dal fenomeno cinematografico di quel movimento, capace di prefigurare, come nessun’altra espressione artistica attiva durante la Repubblica di Weimar, ciò che da lì a breve sarebbe successo (basta leggere due capisaldi “sacri” della critica cinematografica come Lo schermo demoniaco di Lotte H. Eisner e Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco di Siegfried Kracauer, per rendersi conto di ciò).
Lasciamo ora Luca Delle Donne alle prese con il testo di Novalis e affrontiamolo seduto davanti al pianoforte, alla conclusione del suo “viaggio al termine di Schumann”. La sensazione generale, direi l’impronta di denominazione comune che lega le pagine del programma, è proprio quella di liberarsi dalla sola concezione musicale per attingere, invece, da fattori extramusicali (per questo motivo, ho voluto anteporre all’analisi della registrazione delle considerazioni possibilmente utili di ambito letterario e filosofico nel tentativo di focalizzare meglio la tipologia di lettura effettuata da Luca Delle Donne) da mutare in soluzioni musicali.
Una prima, immediata conferma di tale apporto si può averla all’ascolto delle Variazioni Abegg; il pianista triestino non vuole impreziosire il loro dipanarsi attraverso l’apporto del meccanismo virtuosistico (Moscheles e Weber sono sempre comprensibilmente e storicamente in agguato), d’altronde, basta ascoltare la resa del Finale, in cui le semicrome che portano alla conclusione vengono trasmutate in un principio d’“incantamento”, in un progetto di sospensione emotiva, di stupore e di meraviglia (penso, ancora una volta, all’affioramento del “non-io” su cui si fonde, come si è visto, il potenziale programmatico dell’idealismo magico che va a incorporarsi nel sistema romantico germanico).
C’è poi un altro elemento fondante che Delle Donne appone nella sua interpretazione, che si evidenzia nelle due Szenen, vale a dire la primarietà del frammento che ha la meglio, però senza mai snaturarlo, sull’identificazione e realizzazione del connotato architettonico delle composizioni, della loro arcata complessiva. Per il nostro pianista, le Szenen diventano dei Gemälde, ossia dei “quadri” sovrapponenti gli uni sugli altri, quindi che non si manifestano ordinatamente uno dietro l’altro, ma che si presentano secondo necessità inconsce (mi viene in mente una sorta di proposizione di Quadri di un’esposizione dell’io represso). D’accordo, ma come fa a rendere ciò musicalmente? Ebbene, nelle Kinderszenen annullando la dimensione puramente “innocente” (e che una pletora di letture e registrazioni pregresse ha reso alquanto stucchevole e prevedibile, accostando il tutto “unicamente” al concetto dell’infanzia in sè), quindi con un suono assai rappreso, in un certo senso, paradossalmente e apparentemente, “oggettivo” (ottenuto con un uso parsimonioso della pedaliera), il che porta a un risultato che si accosta alle linee essenziali offerte dalla pittura di Joan Miró, la cui dimensione di un’innocenza non è data ricorrendo all’immagine di un bambino che disegna, ma di un adulto che sogna di disegnare. Ciò significa far affiorare, ancora una volta, elementi primigeni dal calderone di ciò che è, come ci ricorda la lingua tedesca, Ur-, ossia di un adulto che si ri-scopre bambino, come può esserlo la figura del poeta vagheggiata da Novalis. Si ascolti come Delle Donne rende, fin dalle prime note, Von fremden Ländern und Menschen: il senso di trasognato è fatto in nome di un’asciutta Sachlichkeit che intende chiarire fin da subito che di infantile c’è solo l’animo di un poeta che sogna e disegna immagini travestito, per l’appunto, con l’innocenza di un bambino. E il tanto vituperato, travisato, sdolcinato, frainteso Träumerei viene ricondotto giustamente negli ambiti del torrente di una riflessione, di un’immagine che insegna tramite un’agogica calibrata, ponderata, rotonda e non illanguidita, per dare adito al sogno di un poeta/bambino.
C’è un ulteriore elemento che si evince nella lettura da parte di Luca Delle Donne presente nelle Waldszenen, quello che riguarda un altro fattore-cardine della poetica romantica, il senso di attonimento, di rapimento estatico dell’uomo di fronte al mistero della natura, reso attraverso un incedere delicato, quasi timoroso del timbro evocato. Un equilibrio fragilissimo che si interrompe bruscamente quando l’uomo vuole invadere e sopraffare l’elemento naturale (come nel caso di Jäger auf der Lauer, controbilanciato immediatamente dopo dalla delicatissima irruzione del blaue Blume novalisiano che raffigura l’Einsame Blume). Inoltre, ancora una volta, la predominanza del frammento, in quanto il pianista triestino cesella una continua scomposizione dei nove Bilde che formano le scene boschive, ricordandoci attraverso continui e accentuati mutamenti agogici come queste Szenen non formino in sé un “quadro” unitario, ma la realizzazione di una perenne instabilità, linfa vitale del poetare romantico (tedesco). Ergo, nulla di rassicurante, di camomilloso, ma scissione patologica di un linguaggio, quello musicale, quale unica forma di una possibile semantica attraverso la quale comunicare (il Karl di Der Besuch im Irrenhause di Rochlitz, il cui Blume accorato è fornito simbolicamente dal pianoforte che si trova nel manicomio nel quale è recluso). A tale proposito, il senso di “straniamento” che Delle Donne riesce a esprimere in un brano focale quale Vogel als Prophet assume quasi una valenza “protocubista”, per via di come il suono viene cesellato come continuo frazionamento, al punto di divenire un assemblamento di cellule autonome che si cesellano a stento, simbolo di un’ulteriore frammentazione all’interno del frammento stesso.
Anche l’Arabeske, sotto le dita del pianista triestino, non sfugge a questa analisi “frammentativa”, poiché viene instillata attraverso un senso di apprensione, di soffusa Angst, cui nemmeno i momenti di stasi contemplativa, di pacata dolcezza, riescono a dissimulare. Domina l’inquietudine, la mancanza di serenità, di un cammino intrapreso da parte di un Wanderer che cela in sé la ricerca di una benedicente follia artistica, con la coda finale che assume quasi i contorni di una conquistata “illuminazione” poetica, come a dire che la via della Dichtung è perigliosa, irta di ostacoli e disseminata dal sangue sputato da chi vuole essere toccato dalla volontà del fare poesia.
E che quella di Delle Donne sia una lettura illuminante viene acclarato da quanto scritto, poiché ci vuole molto coraggio e altrettanta lucidità interpretativa per offrire una visione metamusicale alla musica stessa, soprattutto nei confronti di pagine pianistiche, come quelle da lui eseguite in questa registrazione, che vantano decine e decine di incisioni. Da qui, “Disco del mese di gennaio” di MusicVoice.
Molto buona anche la presa del suono effettuata da Luca Zanon, che ha saputo restituire adeguatamente il suono del Fazioli F278 usato da Luca Delle Donne. Ciò è avvenuto grazie a una dinamica rocciosa, ma disciplinata, ricca di energia e di velocità, senza rinunciare a una piacevolissima trasparenza, esente da colori artificiosi. Ne consegue un palcoscenico sonoro nel quale la ricostruzione dello strumento è assai ravvicinata rispetto l’ascoltatore, ma senza risultare innaturale e scorretta, permettendo così di avere un suono capace di andare oltre i diffusori in fatto di ampiezza e altezza. Stesso discorso vale per l’equilibrio tonale, molto pulito ed efficace nella riproposizione del registro medio-grave, assai sollecitato dal pianismo schumanniano, e di quello acuto. Infine, il dettaglio è granitico, contrassegnato da molto nero che rende oltremodo materica la fisicità del pianoforte.
Andrea Bedetti
Robert Schumann – Piano Works
Luca Delle Donne (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00780