Se il musicista Brahms è complesso, per la profondità, la peculiarità e le inevitabili implicazioni che il suo modo di comporre ha comportato nelle generazioni future, l’uomo Brahms, in fatto di complessità, non è stato da meno. Un uomo difficile, come ci raccontano la storia e le testimonianze di coloro che ebbero modo di conoscerlo, di frequentarlo e di essergli amico; un uomo scorbutico, quasi impossibile, una sorta di carta carbone di beethoveniana memoria, anch’egli assetato di amore, soprattutto femminile, ma sempre fondamentalmente un uomo solo, che per trovare conforto e sfogo si intrattenne con prostitute e cortigiane, sognando amori impossibili (Clara Wieck?) o irrealizzabili (Julie, la terzogenita di Robert Schumann e Clara Wieck, andata poi in sposa al conte Vittorio Amadeo Radicati di Marmorito), eppure indubbiamente misogino, sprezzante nei confronti di quelle donne delle quali non accettava (come negli uomini, d’altronde) la stupidità. In tal senso è noto l’episodio in cui il compositore di Amburgo, esasperato dalle insistenze di Mathilde Wesendonck (colei che anelò a un’unione di sentimenti e di poesia con Wagner, in barba al marito di lei che sovvenzionava l’autore del Parsifal), la quale sperava di diventare sua la musa, al punto di inviargli un suo poema, La cerimonia della cremazione (sic), provocò l’inevitabile reazione infuriata di Brahms, che appena incontrò un suo conoscente, Theodor Billroth, uno dei più celebri chirurghi del tempo, gli chiese senza mezzi termini se esistessero mezzi clinici per debellare le sedicenti velleità poetiche di deficienti che credevano di essere dei vati.

Quindi, Brahms visse da solitario un erotismo fisico e sentimentale, sublimato da incontri mercenari e da una condotta di vita non certo proba. Certo, la complessità dell’uomo Brahms si misura proprio attraverso l’atteggiamento sibaritico che ebbe nei confronti della vita, fatto di prostitute, di serate trascorse nelle trattorie con gli amici all’insegna del buon cibo e di fiumi di vino, ma controbilanciato anche da un senso di rimorso del quale fu spesso vittima, frutto di quel retaggio religioso vissuto da bambino e trasmessogli dalla madre Johanna, che lo faceva piombare in uno stato melanconico, in cui l’afflato religioso (il compositore amburghese fu fondamentalmente un agnostico in età adulta) veniva sostituito da una patina di amarezza e di mestizia, tale da renderlo ancor più scontroso e burbero.

È inevitabile che queste polarità opposte, il godimento dei sensi e la dimensione del rammarico e della tristezza, abbia trovato sfogo, idealmente, anche nella sua musica, come d’altronde accadde per un altro solitario per eccellenza, appunto Beethoven, e per un incompreso ipersensibile, per via della sua omosessualità vissuta segretamente con vergogna, quale fu Čajkovskij. Polarità che Brahms immise soprattutto attraverso gli influssi della musica tzigana che adorava e con i suoi valzer. Musica tzigana e valzer che sono stati presi in considerazione dal duo pianistico formato da Marco Schiavo e da Sergio Marchegiani, i quali hanno registrato per la Decca le Danze ungheresi WoO 1 e i Valzer op. 39, opere scritte dal compositore tedesco per pianoforte a quattro mani (in questo genere rientrano anche le Dieci Variazioni in mi bemolle maggiore per pianoforte op. 23 e i Diciotto Liebeslieder-Walzer op. 52a).

Per comprendere la malia, il fascino e il coinvolgimento emotivo che Brahms riusciva a evocare attraverso la musica tzigana basta ascoltare l’ultimo tempo, il Rondò alla Zingaresca, di quel capolavoro cameristico che è il Quartetto per pianoforte e archi in sol minore op. 25, in cui sensualità e malinconia, erotismo e nostalgia si amalgamano magicamente. Con i ritmi tzigani Brahms espresse in modo esemplare la sua concezione del sentimento, un sentimento nei confronti della vita e dell’amore manifestato sempre con immenso rimpianto e con lo sguardo perennemente rivolto al passato, come se il presente e il futuro non dovessero coincidere con le istanze di una felicità da vivere quotidianamente. Da qui si può comprendere le scelte fatte dal musicista, il quale si legò a Clara Wieck vivendo con lei una dimensione puramente platonica, all’ombra dello Schumann di Düsseldorf e di quello di Endenich, oppure confidando di poter sposare la terzogenita Julie, ben sapendo che non ci sarebbe mai stata una risposta positiva in tal senso. L’amore per Brahms fu un binario morto sul quale fece incessantemente deragliare il suo sconforto e la sua malinconia.

Johannes Brahms con alcune ammiratrici.

Ecco, allora, che la raccolta delle ventuno Danze ungheresi, dove l’aggettivo dev’essere inteso in realtà come “tzigane”, scritte in un lasso di tempo che va dal 1852 fino al 1879, rappresenta un ineludibile tassello con il quale Brahms costruisce l’edificio della sua intimità ferita e incompresa, di cui l’icona programmatica è data proprio dalla prima danza, in sol minore, Allegro molto, in cui la spensieratezza, la leggiadria vengono stemperate dal tema iniziale e principale che ammorba la felicità in un mare di grigia malinconia, un Leitmotiv che si ripresenta e si ripercuote nella seconda danza, in re minore, Allegro non assai, per lacerarsi del tutto nel rimpianto supremo con la quarta danza, in fa minore, Poco sostenuto-Vivace-Molto sostenuto. E anche in quelle danze dove la gioia e la solarità sembrano avere la meglio, come nella celeberrima quinta, in fa diesis minore, Allegro-Vivace, o la sesta, in re bemolle maggiore, Vivace-Sostenuto, vi è sempre un momento in cui l’ombra palpita fremente e languidamente, mentre l’undicesima, in la minore, Poco andante, curiosamente sembra addirittura prefigurare le atmosfere rarefatte di un Erik Satie, o ancora la sottile drammaticità che percorre la quattordicesima, in re minore, Un poco andante, e la nostalgia che ammanta la sedicesima, in fa minore, Con moto, una nostalgia che naufraga nel dolore rassegnato della diciassettesima, in fa diesis minore, Andantino, per poi tornare su una dimensione colma di rimpianto pacato nella ventesima, in mi minore, Poco allegretto, seppur venato brevemente da una ironica verve centrale.

La sensualità brahmsiana ebbe modo di manifestarsi anche attraverso il genere dei valzer, una danza che a partire dalla metà dell’Ottocento fece breccia in buona parte d’Europa, soprattutto nei territori dell’impero austro-ungarico e della capitale Vienna, dove si trasformò in un irrinunciabile codice e linguaggio a livello sociale. Per capire la portata rivoluzionaria di questo ballo basterà ricordare che per la prima volta nel mondo occidentale il valzer permise un continuo contatto fisico tra uomo e donna; così il valzer divenne una sorta di anticamera sociale del rapporto intimo o erotico, dando vita a un coinvolgimento tale in ambito sociale da portare alla nascita di autentici fenomeni musicali incarnati dalla famiglia Strauss, attraverso le figure di Johann padre e figlio, Josef ed Eduard, i quali con i loro celeberrimi valzer fecero danzare generazioni di austriaci e viennesi.

E non può, quindi, stupire la passione che Brahms nutrì per il valzer e, più in generale, per i movimenti di danza, in quanto la base ritmica che sovrintende il ballo si accordava benissimo alla creatività melodica del compositore, la quale, non dimentichiamo, era sovente impregnata da temi “popolari”, i quali comunicavano all’ascoltatore l’essenza, l’anima del popolo cui appartenevano. Questa peculiarità si evidenzia proprio nei sedici Valzer op. 39, scritti tra il 1856 e il 1865, i quali più che alle tipiche movenze del valzer viennese si rifanno al cosiddetto Ländler (una danza popolare tedesca assai simile al valzer). Si tratta, in verità, di pezzi assai semplici: oltre ad avere la classica forma tripartita ABA, non presentano un’introduzione e non hanno la coda. Eppure, questa semplicità, questo minimalismo formale non debbono trarre in inganno, in quanto il denominatore che li accomuna è quello di una melodia, che sia brillante o malinconica, perfettamente incastonata nell’involucro armonico, tali da renderli perfetti esempi di una classicità senza tempo. Ecco perché Brahms volle dedicare l’op. 39 al celebre critico e teorico musicale Eduard Hanslick, severo e imperturbabile guardiano della forma classica, il quale, come ricorda giustamente Massimo Rolando Zegna nelle inappuntabili note di accompagnamento, apprezzò questi Valzer, affermando tra l’altro: «Brahms il severo, il taciturno, il vero fratello minore di Schumann, scrivere dei Valzer! E oltre a ciò, così nordico, protestante, e così poco mondano».

Johann Strauss figlio con Johannes Brahms.

Ma solo i suoi Valzer, e anche quelli di Johann Strauss figlio, compositore che ammirava e stimava sopra tutti, fecero sì che il “severo e taciturno” Brahms si sciogliesse, magari sorridendo compiaciuto al pensiero di vedere una coppia avvinta nelle spirali di questo ballo, allegoria di un amore ideale, quello che il sommo musicista di Amburgo non ebbe mai modo di vivere compiutamente.

La lettura fatta dal duo Marco Schiavo & Sergio Marchegiani cela in sé un grandissimo dono, quello di non mettere soltanto in risalto la maestria del Brahms musicista ma, cosa ben più difficile, di evidenziare la complessità, di cui si è detto, del Brahms uomo, con le sue contraddizioni, i suoi dolori, le sue poche gioie. Insomma, dalla loro interpretazione sorge l’immagine di un artista a tutto tondo, reso palpabile da scelte esecutive che non restituiscono solo idealmente queste due opere in sé, ma anche ciò che si trova appunto dietro la musica. Il duo in questione riesce, in breve, a mettere in risalto (si pensi solo all’uso accorto, quasi “teatrale”, dell’agogica nella celebre Danza ungherese n. 5) quanto Brahms tenesse a queste opere, come potessero rappresentare esemplarmente il suo genoma di musicista e di uomo. Un’esecuzione che non si ascolta, ma che si beve con le orecchie, come se fosse un flûte di champagne reso suono. La brillantezza del timbro, la chiarezza dell’eloquio, l’esaltazione del ritmo, così terso e seducente da renderlo quasi impalpabile sotto l’incalzare delle melodie, rendono questo CD la registrazione di riferimento in assoluto per il WoO 1 e l’op. 39. Irrinunciabile.

Registrato nella Sala grande di Palazzo Chigi ad Ariccia, con Andrea Lambertucci alla presa del suono e Corrado Ruzza alla produzione, questo disco anche da un punto di vista tecnico non tradisce l’ascoltatore. L’ottima acustica dell’ambiente restituisce a livello di palcoscenico sonoro il pianoforte in modo leggermente avanzato, senza però che il dettaglio, squisitamente materico, e l’equilibrio tonale, con i registri sempre perfettamente riconoscibili e mai sovrapposti nei fff e nei ppp, ne vengano a soffrire. Anche la dinamica è oltremodo efficace, povera di enfasi e ricca di naturalezza timbrica, grazie alla velocità espressa nei transienti, il che permette di apprezzarne gli armonici che presentano sempre un corretto decadimento.

Andrea Bedetti

 

Johannes Brahms – Dances

Marco Schiavo-Sergio Marchegiani (pianoforte)

CD Decca 481 7812

 

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 5/5