Spiegata in termini comprensibili anche ai profani, la cosiddetta scordatura rappresenta un’accordatura anomala di uno strumento a corda rispetto a quella normalmente usata e che viene impiegata per ottenere accordi particolari, oppure effetti sonori speciali o ancora modificazioni a livello timbrico, senza contare che tale accorgimento tecnico può servire anche per facilitare dei passaggi alquanto difficili o per consentire l’emissione di suoni molto acuti o, al contrario, molto gravi. A livello storico, il primo compositore ad aver utilizzato la tecnica della scordatura dovrebbe essere stato Biagio Marini, che la usò nella Sonata Seconda d’inventione per violino e basso continuo, inserita nella sua raccolta dell’Opera Ottava, pubblicata a Venezia nel 1626. Ma oltre al compositore bresciano, diversi altri autori barocchi la impiegarono, a cominciare da Heinrich Ignaz Franz Biber, sicuramente colui che la sfruttò maggiormente nelle sue opere violinistiche, proseguendo con Johann Sebastian Bach (basterà citare l’esempio della Suite n. 5 per violoncello, la cui partitura originale prevede la prima corda abbassata di un tono, dal la al sol, anche se tale opera può essere eseguita con un accordatura normale), Nicolaus Adam Strungk, lo stesso Antonio Vivaldi (il suo Concerto in Si bemolle a due cori con violino presenta la quarta corda dello strumento solista alzata di una terza, divenendo così un si bemolle), così come, in tempi successivi, Pietro Nardini, Antonio Lolli, Bartolomeo Campagnoli, Franz Joseph Haydn (nel terzo tempo della Sinfonia n. 67) Nicolò Paganini, Louis Spohr, Robert Schumann, Camille Saint-Saëns, Gustav Mahler (nel secondo tempo della Sinfonia n. 4), senza dimenticare come Wagner impiegò la scordatura sui contrabbassi nel preludio de Das Rheingold e in quello, celeberrimo, del Tristan und Isolde.
Un esempio interessante di come si può lavorare sulle scordature ce lo offre adesso una recente registrazione discografica, pubblicata dall’etichetta tedesca Oehms, con la giovane violinista moldava Valeria Zorina, accompagnata al pianoforte dal russo Evgenij Sinaiski, che ha presentato un programma, sotto il titolo di Soundmaps Extended Realities, con opere cameristiche di autori del passato che si alternano ad altre di compositori contemporanei, per mostrare come questa particolare pratica non sia stata abbandonata nel corso del tempo. Tra gli autori del passato non poteva mancare il già citato Biber, con la nona (detta Die Kreuztranung, ossia “Il trasporto della croce”) delle quindici Rosenkranzsonaten, le Sonate del rosario, ciclo tra i più misteriosi ed ermetici della storia della musica (paragonabile per profondità e possibili significati a Die Kunst der Fuge bachiano), frutto, secondo alcuni studiosi, delle conoscenze che il grande compositore austriaco aveva acquisito sul gruppo esoterico dei Rosa+Croce. Tutte le quindici Sonate, suddivise equamente in tre cicli, sono state composte utilizzando la scordatura, tranne il sedicesimo brano, una Passacaglia conclusiva, brano quasi a sé stante, scritta per un’accordatura normale.
Altro autore del passato preso in esame da Valeria Zorina è il violinista Eugène Ysaÿe, del quale ha registrato il Poème Élégiaque in re minore, op. 12, del quale, per ottenere un effetto contemporaneamente più caldo e scuro, il compositore belga operò una scordatura della corda più grave, alzandola di un tono e portandola così dal sol al fa. Altro esempio celebre di scordatura è dato dalla Danse macabre, op. 40 di Saint-Saëns, che conclude il programma qui registrato, in cui il musicista francese decise di rendere più lugubre e dissonantico il timbro accordando la corda del mi del violino in mi bemolle.
Del grande violinista ungherese Franz von Vecsey, allievo di Joseph Joachim a Berlino e morto a Roma appena quarantaduenne nel 1935, la violinista moldava ha eseguito Nuit du Nord, la cui cupa immagine viene esaltata dalla scordatura della quarta corda portata al fa diesis.
Ma il lato più interessante è dato, a mio avviso, dai contributi degli autori contemporanei, quelli viventi, che Valeria Zorina ha voluto includere nel suo disco, vale a dire il cubano naturalizzato danese Louis Franz Aguirre, nato nel 1968, e il piemontese Giacomo Platini, nato un anno prima. Del primo la violinista moldava ha eseguito Four Nocturnes with Masks, brano del 2017, e del secondo i Four Souvenirs for violin and piano del 2028 (entrambe le composizioni sono una prima registrazione assoluta e dedicate espressamente alla stessa Valeria Zorina). La prima composizione rappresenta un omaggio da parte di Aguirre verso quattro musicisti che ha ammirato nel corso dei suoi studi giovanili, György Kurtág, al quale è dedicata la “maschera” Winter, Manuel de Falla (Dies Irae), Olivier Messiaen (Adoration) e Morton Feldman (Dust of Snow); qui la scordatura deve permettere a questi brevi pezzi non di essere musicalmente enunciati, bensì solo sussurrati, trasmettendo l’immagine sbiadita di un ricordo, di un nume tutelare il cui nome alberga ancora in un recesso della memoria, visione fuggitiva che, di autore in autore, viene o meno rallentata nella sua declamazione timbrica.
Ancor più tenui, diafani, quasi impalpabili sono i quattro brevissimi pezzi che compongono il ciclo dei Souvenirs di Platini (complessivamente superano di poco i cinque minuti di durata), la cui eterea densità non deve necessariamente rimandare alla lezione weberniana, quanto a un concetto la cui implosività entropica deve disvelarsi in colui che li ascolta (l’impalpabilità timbrica che li contraddistingue viene resa tecnicamente dalla scordatura fatta di un semitono superiore delle due corde più acute, con la prima che è portata al fa e la seconda al si bemolle maggiore), dando vita a delle fugaci macchie sonore intrise in un arpeggio, in un pizzicato, in un brevissimo accenno melodico, in un tremolo).
Le composizioni di Aguirre e di Platini sono degli autentici campi minati, irti di difficoltà tecniche che si riflettono inevitabilmente sul loro spessore espressivo, senza il quale perdono completamente il valore estetico, ma sia Valeria Zorina, sia Evgenij Sinaiski le superano brillantemente in modo indenne, coinvolgendo l’ascoltatore in un simbolico viaggio interiore, aprendogli i diari intimi, le sensazioni elaborate dai due compositori. E lo stesso vale anche per le altre tracce del disco, il quale, sia chiaro, è stato programmato come un saggio di bravura da parte della giovane violinista moldava. Difatti, la medesima intensità, la stessa lucidità interpretativa possono essere colti nella pagina di Ysaÿe, la quale vive dell’appassionato dialogo tra violino e pianoforte, e di Saint-Saëns, il cui eloquio melodico viene esaltato senza cadere in un suono retorico, ma sempre vivo e pulsante. La stessa considerazione vale per Nuit du Nord, la cui opprimenza timbrica si trasforma in un dipinto metafisico e il cui grigiore viene reso con molteplici sfumature sonore, con il violino di Valeria Zorina che le enuncia una ad una. L’attenzione e la scrupolosità che la giovane artista moldava ha messo in questa registrazione si denota anche dal fatto che i brani presentati sono stati interpretati con tre differenti strumenti, ognuno dei quali maggiormente indicato, dopo ogni debita scordatura, al brano preposto, con un’ulteriore nota di merito che va al pianista di San Pietroburgo, in grado di passare con grande nonchalance dall’eloquio ottocentesco alle rarefatte sonorità contemporanee.
Di Giacomo Platini è l’altro disco preso qui in esame e riguarda il poema sinfonico elettronico che ha voluto scrivere per commemorare l’aviatore pioneristico parigino di origine peruviane Geo Chávez, ricordato ancora oggi per la sua impresa più famosa, quando il 23 settembre 1910, a bordo di un monoplano Blériot XI, dotato di un motore a pistoni di soli 50 CV, fu il primo pilota nella storia dell’aviazione a superare le Alpi. Chávez decollò dal comune elvetico di Briga, sorvolò dapprima il valico del Sempione e poi le gole di Gondo per scendere, infine, a Domodossola. Ma la sua impresa finì tragicamente, in quanto durante la fase di atterraggio, quando il monoplano si trovava ancora a un’altezza di circa venti metri dal suolo, il Blériot precipitò improvvisamente di punta a causa del repentino cedimento della struttura alare, probabilmente per via del ghiaccio che si era formato, causando la morte del pilota, che avvenne quattro giorni dopo in ospedale.
Il poema sinfonico del compositore piemontese, il quale lo ha scritto su commissione dell’Associazione Musei d’Ossola inerente al progetto Interreg Italia-Svizzera dal titolo “Chávez di tanti uno solo - Centenario Trasvolata Alpi”, è in realtà soprattutto un’opera dedicata al concetto del viaggio, come scoperta e come superamento di sé, la cui incarnazione ideale è data per l’appunto dal tragico ed eroico esempio dell’aviatore francese. Tale viaggio viene identificato fisicamente in quest’opera da Giacomo Platini attraverso l’apporto acusmatico, ossia facendo ricorso a un suono che si sente senza individuarne la causa originaria. Presumo che la scelta da parte del compositore vercellese derivi dagli studi fatti da Pierre Schaeffer relativamente al concetto di musica concreta, il quale ha utilizzato il termine acusmatico per poter analizzare il suono senza i vincoli semantici o linguistici legati alla fonte, facendo sì che il suono stesso sia, fin dall’origine, un oggetto a sé stante.
Questo brano (il cui CD può essere richiesto allo stesso Platini attraverso il suo sito web: https://www.giacomoplatini.com) è suddiviso in quattro parti: Origine nativa – Cielo – Sturm– Trascendenza e mette l’ascoltatore nelle condizioni, grazie all’impatto timbrico che scaturisce dai diffusori (personalmente, consiglio soprattutto l’ascolto attraverso un buon paio di cuffie), di entrare nel suono, che viene metabolizzato dall’oggetto a sé stante della composizione. Ora, le quattro parti in cui è suddivisa, lo svolgimento, il concetto della sfida oggettiva che si tramuta in una del tutto soggettiva, mi hanno fatto tornare in mente l’Eine Alpensinfonie di straussiana memoria, dell’ascesa al monte da parte di un escursionista, che improvvisamente si trova nel bel mezzo di una tempesta e, parallelamente, proprio per il carico soggettivo che la composizione di Platini offre all’ascoltatore, anche Le mont analogue di René Daumal, uno dei romanzi introspettivi più straordinari del secolo scorso. Come avviene nel capolavoro dello scrittore francese, in cui il lettore affronta un’ascesa puramente immaginaria di una montagna che non esiste, se non quella che alberga in lui, anche il viaggio/sfida che Platini propone, prendendo a prestito quella affrontata dall’eroico e sfortunato aviatore parigino, vuole essere prima di tutto una sfida che l’ascoltatore, mediante l’uso di una prospettiva acusmatica, sperimenta su di sé. I rumori, i soffi, i suoni onomatopeici, la percezione di uno spazio fisico che esalta e opprime allo stesso tempo (mi chiedo quanto sia presente in questa composizione l’influsso dato dalla concezione del suono/rumore di un compositore veneto, Luigi Russolo, artefice della musica futurista e dei cosiddetti “intonarumori”) propongono un rito epidermico, un penetrare la materia per poterla, almeno per un momento, come avvenne a Geo Chávez quando si rese conto di aver superato la barriera delle Alpi, dominare e plasmare (e in ciò, l’ultimo segmento, Trascendenza, è squisitamente sintomatico nel suo tratteggiare il passaggio dalla materia alla pura energia, al prāṇa evocato dalla filosofia induista).
La presa sonora della registrazione della Oehms è stata fatta da Fernando Arias, il quale è riuscito a restituire più che degnamente il suono dei due strumenti. La dinamica e la microdinamica sono di ottima fattura e denotano sia energia, sia velocità. La ricostruzione del palcoscenico sonoro è corretta, con il violino leggermente avanzato rispetto al pianoforte e con i due artisti posti a una discreta profondità nello spazio fisico tridimensionale. L’equilibrio tonale, fondamentale, tenuto conto che questo è un disco dedicato alla scordatura, rispetta adeguatamente i registri, i quali risultano sempre piacevolmente scontornati. Infine, il dettaglio è contrassegnato da una buona matericità dei due strumenti.
Per ciò che riguarda il brano di Giacomo Platini non si può parlare, ovviamente, di una presa del suono, ma ad ogni modo la riproduzione di questo suono acusmatico è reso efficacemente dalle elettroniche utilizzate, coinvolgendo anche a livello di ascolto, anche se torno a consigliarne uno effettuato con le cuffie, in modo da poter entrare con una maggiore fisicità nel fenomeno del suono/rumore provocato.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Soundmaps Extended Realities
Valeria Zorina (violino) – Evgeny Sinaiski (pianoforte)
CD Oehms OC 492
Giudizio artistico 4,5/5 Giacomo Platini – Geo Giacomo Platini (elettroniche) CD autoprodotto dal compositore Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5
Giudizio tecnico 4/5