Esiste il Rossini operista, conosciuto da tutti, autore di opere buffe e melodrammi entrati nella storia dell’opera lirica come punti fermi di un percorso strabiliante, fatto di successi (tanti) e di fiaschi (pochi), con una produzione a dir poco prodigiosa, che consta quarantuno opere teatrali composte a ritmo forsennato e sovrumano nell’arco di appena ventitré anni, dal 1806 fino al 1829, anno che culmina con il Guillaume Tell, dopo il quale il genio pesarese si chiuse in un ostinato silenzio creativo; così come esiste il Rossini intimista, conosciuto da pochissimi, autore di una sterminata produzione pianistica e cameristica racchiusa in una raccolta di quattordici volumi, che portano il titolo di Péchés de Vieillesse, e che rappresenta il risultato di un cammino interiore, fatto di cadute e di risalite da una depressione cronica che lo afflisse nella sua tenuta di Passy, alle porte di Parigi, dove Rossini si rifugiò stabilmente a partire dal 1855, trascorrendovi gli ultimi tredici anni della sua vita.

E anche se nel corso degli ultimi decenni, grazie alle interpretazioni di Dino Ciani, Aldo Ciccolini, Bruno Canino e Antonio Ballista, almeno per ciò che riguarda la sfera pianistica, queste “debolezze senili” si sono fatte strada tra gli ascoltatori e gli appassionati, uscendo dal campo ristretto degli specialisti e dei musicologi, una progressiva operazione di sdoganamento culminata recentemente con l’integrale dell’opera, portata avanti dal pianista Alessandro Marangoni, con la collaborazione di altri artisti ed interpreti cameristici, ha permesso di vedere affiorare un autentico scrigno compositivo colmo di autentici capolavori. È ovvio, quindi, che lo scorso anno, che è coinciso con il centocinquantesimo anniversario della morte del Cigno di Pesaro, si sia voluto ricordare queste “debolezze senili” anche con un altro contributo discografico, ad opera dell’etichetta Concerto Classics, oltremodo prezioso non solo perché ha messo in evidenza una giovanissima interprete, la diciottenne milanese Ginevra Costantini Negri, ma anche perché la lussuosa confezione che racchiude il disco dedicato alla selezione dei Péchés de Vieillesse, grazie alle dense note di accompagnamento, scritte da Mario Marcarini e dallo stesso Alessandro Marangoni, permette all’ascoltatore e all’appassionato di avere un’idea precisa e un indispensabile filo conduttore capaci di dipanare la fitta matassa dei quattordici volumi di quest’opera.

Il titolo di questa registrazione non avrebbe potuto essere più adatto e circostanziato, Il mio piccolo teatro privato – Selezione dei Péchés de Vieillesse, che sembra riferirsi non solo al desiderio, alla volontà della giovanissima interprete milanese di offrire a chi ascolta la sua idea di quest’opera attraverso nove brani pianistici, tutti estremamente rappresentativi della portata generale delle “debolezze senili” rossiniane, ma anche al concetto stesso con il quale racchiudere e identificare idealmente il significato effettivo della loro creazione. Questo perché i Péchés de Vieillesse rappresentano davvero l’altra faccia del compositore pesarese, non solo quella più nascosta, meno conosciuta, ma anche quella più difficilmente rappresentabile rispetto all’idea di “teatro pubblico” data dall’incredibile corpus operistico che mise a soqquadro il teatro musicale europeo nei primi tre decenni dell’Ottocento. E se i quarantuno titoli che vanno da Demetrio e Polibio fino al Guillaume Tell hanno effettivamente dato l’idea dell’esplosività della musica rossiniana, i Péchés de Vieillesse, al contrario, ne rappresentano la sua “implosività”, facendo sì che le dimensioni reali di un palcoscenico teatrale, con i suoi personaggi e le sue trame, si trasformasse in un luogo più ristretto, più concettualizzato, liofilizzato nello spazio di un teatrino delle marionette, come quello evocato da Heinrich von Kleist nel suo omonimo memorabile saggio, o in una rappresentazione più essenziale, minimale nei gesti e nella recitazione esistenziale, come quella esemplarmente creata da August Strindberg con i suoi Kammerspiele.

C’è un senso di modernità, di attualità ad uso e consumo dell’uomo contemporaneo che verrà quasi cento anni dopo la loro composizione in queste opere, al punto da farci comprendere come la figura di Rossini non debba e non possa essere relegata esclusivamente nella dimensione operistica, del grande creatore di teatro musicale al fianco di Giuseppe Verdi; una modernità che si era resa conclamata già in un’altra mirabile opera dell’“altro” Rossini, ossia la Petite Messe Solennelle, che già anticipa la volontà di rendere il sublime e il mistero con forme e procedimenti compositivi che appartengono di diritto a un Novecento storico, attraverso linee essenziali, scarne, ma allo stesso tempo profonde, quasi inattingibili. E le decine di brevi brani (sono davvero pochi quelli che superano i dieci minuti di durata) che fanno parte delle “debolezze senili” ne rappresentano un’ideale continuazione, nei quali il genio pesarese volle riversare in un’estrema densità formale e temporale le sue ultime conquiste non solo in seno alla composizione (che già prefigurano quel gusto rappresentativo di una certa gestualità dell’atto creato, tipico non certo in Saint-Saëns o in Fauré, quanto in Debussy e nel giovane Ravel), ma anche per ribadire sotto lo spirito sonoro quanto aveva maturato attraverso l’esperienza distruttiva/costruttiva della depressione e dell’estremizzarsi nella ricerca di tipologie psicologiche da rappresentare attraverso i personaggi del suo teatro.

Perché al centro di questo piccolo teatro privato, non dimentichiamolo, il vero, unico personaggio è lo stesso Rossini, una marionetta che viene mossa e rappresentata da egli stesso su un palcoscenico che di volta in volta lo vede nei panni ironici, nostalgici, comici, drammatici raccontando in modo puramente idealizzato, allegorico la propria vita, le sue passioni (la cucina e il bon vivre), le sue paure (come quella per il treno, rappresentata in modo a dir poco “psicoanalitico” ne Un petit train de plaisir), la sua ammirazione per chi gli aveva permesso di acquisire la sovrana padronanza del comporre, come nel caso del tanto amato Bach, che viene ricordato a livello contrappuntistico nel sesto Rien, i suoi ricordi che aumentavano con il trascorrere degli anni, come il tributo a Firenze, l’ultima città italiana nella quale era vissuto prima di andare a vivere in Francia, instillato in Une pensée à Florence.

Quello di Rossini, insomma, è un prodigioso e meraviglioso “Zibaldone musicale”, che va ben oltre la traccia esistenziale, la testimonianza di un artista che cerca di materializzare il senso del tramonto usando le armi e gli strumenti che gli avevano permesso di dare vita a decine di opere teatrali, ossia la padronanza della materia sonora, la sagacia tecnica, l’ironia, la satira, il senso del comico per fustigare ed ammonire, il tragico come lente d’ingrandimento per studiare l’animo umano, sulla falsariga teatrale shakespeariana, per essere invece uno dei primissimi tentativi, da parte di un artista, nel dare voce a un’inquietudine sottile, devastante, inarrestabile, quella dell’uomo che comincia ad essere conscio della propria perdita e dei valori che lo sorreggono. Sono Rossini da una parte e Schubert dall’altra a rendersi conto che qualcosa sta ormai cambiando, qualcosa che verrà poi fissato e descritto nel teatro musicale di Strauss e nello spasmodico e infinito sinfonismo di Mahler.

Non so se la scelta dei nove brani dei Péchés de Vieillesse sia da ascrivere alla stessa giovanissima interprete; se così fosse, ci troveremmo di fronte a un’acutezza artistica non indifferente, visto che i pezzi presenti in questa registrazione sono altrettanti nodi cardine di questo Zibaldone musicale che culminano, almeno per ciò che riguarda il côté esistenziale rossiniano, in quella pagina così disperatamente lucida e auto irriverente che è Marche et réminiscences pour mon dernier voyage. Sta di fatto, ad ogni modo, che l’acerba maturità (l’ossimoro semantico è di rigore) di Ginevra Costantini Negri si trova pienamente a proprio agio in brani che abbisognano di un vissuto non solo artistico, ma anche umano per essere rappresentati al meglio. Sarà la beata incoscienza, l’irriverente temerarietà di chi è ancora pregno di giovinezza, ma la lettura fatta dalla pianista milanese è ammantata da un fitto richiamo di nuances psicologiche, di impaludamenti limacciosi di chi esprime con i suoni (o con le parole) i passaggi stratiformi della propria vita, restituendo appieno una gaieté che non ha solo il sapore di tournedos, ma anche di quella joie de vivre che si assapora quando ormai la si sta già perdendo. Un suono, insomma, che racchiude il presente, summa di un passato che non può tornare e di un futuro che non si potrà vivere. Rivelazione.

Anche la presa del suono, a cura di Michel Carlo Assalini, è a prova di audiofilo (una nota esplicativa tecnica presente nel libretto del disco spiega debitamente come è stata effettuata). Il risultato è una dinamica che, oltre ad essere naturale ed energica, così come rivelatrice nella microdinamica, è quasi esente dalle inevitabili pecche della compressione digitale. Il pianoforte, un meraviglioso e roccioso Bösendorfer Imperial, con il quale la giovanissima artista ha ingaggiato e vinto la sfida, viene restituito spazialmente al centro dei diffusori, scolpito con una notevole altezza e con una presenza del riverbero mai fastidiosa e capace di rendere l’idea dello spazio che lo circondava. Anche l’equilibrio tonale e il dettaglio (quest’ultimo a dir poco granitico e materico) sono di assoluto rilievo.

Andrea Bedetti

Gioachino Rossini – Il mio piccolo teatro privato – Selezione dai Péchés de Vieillesse

Ginevra Costantini Negri (pianoforte)

CD Concerto Classics 2108

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico 5/5