In una sua lettera, Gustave Flaubert scrisse queste parole che sono impregnate di un’alta potenza evocativa: «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo». E il romanziere russo Turgenev, più o meno nello stesso periodo, con termini più prosaici, non fu da meno: «Che storia è mai questa? Ciò che è vecchio è morto ormai, e ciò che è giovane deve ancora nascere». Due modi diversi di esprimere lo stesso concetto, quello di rappresentare ciò che nella storia culturale e artistica è accaduto sovente: periodi più o meno lunghi che si pongono tra due poli, uno di fine e l’altro di nascita, che incarnano altrettanti punti fermi, ineludibili, un qualcosa che vive nell’attesa tra ciò che ha lasciato una traccia indelebile e ciò che è destinato a raccogliere idealmente il suo testimone. Un’epoca che ci appare debole, povera, ma che in realtà, se ben ne scandagliano non solo la superficie ma anche la profondità, permette di cogliere e far affiorare delle particelle espressive che, pur non rappresentando delle svolte nel decorso culturale e artistico di quel tempo, vantano un indubbio merito, quello di preannunciare ciò che è destinato ad esserlo sulla base di ciò che prima è stato.
Una recente produzione discografica dell’etichetta olandese Challenge Records ci presenta quella che può essere considerata una di queste particelle in oggetto, riguardante un autore oramai confinato nel dimenticatoio della storia musicale, il viennese Georg Christoph Wagenseil, nato nel 1715 e morto sempre nella capitale asburgica nel 1777. Si faccia attenzione a queste due date: quando Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel muoiono, ossia nel 1750, l’autore austriaco in questione aveva già trentacinque anni e quando scompare Haydn e Mozart avevano rispettivamente quarantacinque e ventun anni. Quindi, quando i due colossi barocchi (Cicerone, per dirla con Flaubert) muoiono, Wagenseil è già attivo da tempo e quando muore, il Marco Aurelio in questione, ossia Haydn e Mozart, sono già sulla breccia musicale da diversi anni. Questo ci fa capire come il compositore viennese sia stato una di quelle particelle di quella tolkieniana “Terra di mezzo” in cui l’arte si è trovata improvvisamente orfana, non dico allo sbando, ma carente di determinati punti fermi attraverso i quali dare una svolta, un’accelerazione improvvisa e definitiva rispetto al prima. Ma in quanto particella, la musica di Wagenseil merita di essere ascoltata e meditata, sebbene la sua caratura non appartenga all’empireo dell’arte dei suoni, in quanto il suo valore più che musicale appartiene alla sfera del sociale, del culturale tout court, con il merito di farci comprendere meglio l’humus, il milieu, la caratura di un periodo storico grazie al quale hanno fermentato e mantecato fermenti destinati a diventare poi epocali.
Bene ha fatto, quindi, il gambista, direttore d’orchestra e musicologo abruzzese Matteo Cicchitti, fondatore dell’Ensemble Elegentia, la violinista Paola Nervi e il violoncellista Antonio Coloccia, a dare voce, con questa registrazione, alla personalità di Wagenseil, proponendo, in prima incisione assoluta mondiale, le Sei Sonate per violino, violoncello e violone che il nostro autore compose verosimilmente intorno al 1750, uno spartiacque sintomatico, questo, per spaccare a metà il XVIII secolo, prendendo così a modello questi brani cameristici come tra un “prima” e un “dopo”. Un prima che richiama il tramonto del barocco e un dopo, che in fondo è già attuale all’epoca di Wagenseil, il quale entra di diritto nel cosiddetto stile galante, del quale il compositore viennese è da annoverarsi tra i principali artefici, almeno se si considera la fama e la diffusione delle sue opere che ebbe a quel tempo. Una diffusione che alimentò, come ci ricorda la sociologia della musica in ambito viennese, l’affermazione del fenomeno, tipico dei Paesi di lingua tedesca, della Hausmusik, la musica da eseguirsi in ambito domestico, dapprima nei salotti aristocratici e poi, con l’irruzione del Romanticismo e la conseguente ascesa della ricca classe borghese, destinata a sostituirsi nel tempo nella vita musicale della capitale asburgica.
Le Sei Sonate a trio qui presentate appartengono al genere del “divertimento”, tenendo presente che con tale termine, prima dell’avvento della Scuola di Vienna, si considerava quella musica strumentale in cui non rientravano opere orchestrali; quindi, anche le sonate e i quartetti per archi erano considerati dei “divertimenti”, in cui il contesto del dialogo, della comunicazione degli strumenti interessati era a dir poco ineludibile. E qui entriamo nel cuore della cultura e dell’espressione artistica galanti, in quanto per “dialogo”, “comunicazione” si deve intendere soprattutto un confronto, una schermaglia tra due o più soggetti, una sfida condotta attraverso diversi piani semantici capaci di coinvolgere non solo la musica, ma anche l’arte pittorica e la letteratura (non per nulla, è questa l’età d’oro del cosiddetto “romanzo epistolare”, in cui la sottigliezza del lessico diviene già opera in sé). Questa “comunicazione” si basa e si attua grazie a come i tre archi indipendenti riescono a enunciare le loro linee, senza dover ricorrere al supporto di uno strumento a tastiera per la realizzazione del basso continuo (e ciò fa anche comprendere come tali linee non pecchino certo in fatto di inventiva e fantasia). Un’inventiva, una fantasia capaci così di trasformare il violino, il violoncello e il violone in tre vere e proprie voci, paragonabili a quelle del soprano, del tenore e del basso, impegnate a imbastire dialoghi nei quali i primi due strumenti più acuti danno vita a duetti, mentre il violone ha il compito di sostenere, di indicare, di tracciare quegli accenni, quegli accorgimenti in modo da bilanciare sempre idealmente l’eloquio musicale.
Chi pensasse, come invece capita soprattutto con la musica francese del tempo, concentrata nel rendere fin troppo arabesco il tessuto espressivo, di trovarsi di fronte a delle composizioni di arduo e sterile ascolto, al punto da risultare stucchevole, prenderebbe un grosso granchio. Al contrario, il denominatore comune di queste Sei Sonate è dato da una notevolissima brillantezza, il che, semmai, le avvicina a un ésprit che appartiene alla musica vocale italiana coeva, in quanto la “conversazione musicale” che si attua tra i tre strumenti vanta una capacità melodica non indifferente.
Ma qui non si tratta soltanto di evidenziare le indubbie capacità musicali di Wagenseil, le quali ci fanno anche intuire il perché della diffusione e della fama delle sue opere all’epoca, ma anche e soprattutto capire come la sua capacità compositiva, fatta di brillantezza e di leggerezza allo stesso tempo, rappresenti un segno indubitabile del suo essere stato un “moralista” artistico della sua epoca. Questo, perché dietro tale apparente “frivolezza” lessicale si cela in realtà una capacità critica, una lente di ingrandimento che focalizza al meglio quei difetti (tanti) e quelle virtù (poche) che contraddistinguono il tempo in cui il compositore viennese visse. È la medesima capacità che vantano, nell’arte pittorica, artisti come Watteau, Reynolds, Gainsborough, le cui scene rappresentano non tanto un quadro della società, soprattutto aristocratica, immersa in quello stile galante di cui si è detto, quanto un velato j’accuse con il quale fissare la reale frivolezza della quale fu impregnata una ristretta classe sociale, facendole vivere una vita fuori dalla vita (quella immortalata splendidamente da Kubrick in quel film altrettanto “musicale” che è Barry Lindon).
Certo, Wagenseil non usa i colori, le situazioni sceniche più o meno particolari, ma lo fa con un altro, implacabile strumento, quello di una sottile ironia; ecco, la verve comunicativa che fissa queste Sonate è dato anche da una “civettuosità” che innerva ironicamente l’eloquio dei tre strumenti in questione, “voci” che apparentemente discorrono del più e del meno, magari davanti a una tazza di tè, ma che in realtà scolpiscono in modo indelebile un modus essendi che è molto più di un semplice divertimento musicale.
Semmai, lo strumento della forma del “divertimento” ha il compito di dissimulare, di annacquare, di mischiare anche le carte di fronte all’impatto emotivo che queste composizioni esprimono; un dissimulare architettato da Wagenseil con indubbia grazia, con una perfida e spietata delicatezza di intenti che costringe l’ascoltatore a non doversi accontentare di un primo ascolto, portandolo ad andare oltre, spingendolo a scavare nelle pieghe armoniche e melodiche, nel comprendere che i tre strumenti, le tre “voci”, dietro a un dialogo fatto magari di quisquiglie, in realtà delineano fattivamente un quadro che rimanda a qualcosa di più congruo, di più “reale”. Sembra quasi che il compositore viennese con una mano ringrazi quella stessa classe aristocratica che gli ha dato fama e con l’altra la punisca, con una sottigliezza che riporta alla mente la sublime ironia “sociale” di goldoniana memoria.
Quindi, se Wagenseil merita di essere ascoltato (per quanto riguarda gli aspetti squisitamente musicologici rimando alle ottime e puntuali note esplicative scritte da Giorgio Pagannone per il booklet) non è solo per ciò che la sua musica esprime, ma per quanto essa riesce a far pensare, a farci “capire”, un aspetto, questo, che non può e non deve farci considerare il musicista viennese un “minore” tout court. Insomma, tornando alle parole di Flaubert, il nostro non sarà di certo né un Cicerone, né tantomeno un Marco Aurelio, ma nemmeno un Carneade qualsiasi.
Certo, poi non bisogna dimenticare come la lettura fatta da Matteo Cicchitti, al violone e alla direzione, così come dal violino di Paola Nervi e dal violoncello di Antonio Coloccia, sia a dir poco idiomatica rispetto a quanto Wagenseil esige per essere non solo ascoltato, ma soprattutto compreso. Abbiamo detto brillantezza e sottigliezza, ossia la superficie e la profondità: la brillantezza in queste Sonate è data da un indispensabile senso ritmico che non è dato solo dal metronomo, ma soprattutto da un respiro interiore, una nervatura intima attraverso i quali è possibile decodificare la vivacità falsamente spensierata dei tempi veloci e la melanconica bellezza che si irradia da quelli lenti, poiché senza di essi il tessuto dell’enunciazione, l’equilibrio insito nell’espressività dati dai tre strumenti inevitabilmente si sgonfia; la sottigliezza fa parte dell’apparato psicologico, del gioco da “teatro operistico” che la musica di Wagenseil richiede, a cominciare dal violone che sovente incarna il ruolo di un “basso buffo”, il quale scandisce non solo il tempo ma anche la modalità psicologica attraverso la quale il violino e il violoncello devono condurre le parti di cui sono investiti. Il violone è il semaforo e gli altri due strumenti sono il traffico che dev’essere disciplinato e il tutto dev’essere svolto con la massima naturalezza, con una spontaneità timbrica che deve annullare le insidie di una artificiosità che andrebbe inevitabilmente ad appesantire l’intero edificio del costrutto musicale. Questo perché le presenti Sonate sono leggere non nel senso di una loro presunta spensieratezza, ma per come devono essere rese, delle pietre con le ali, parafrasando un pensiero nietzschiano. Anche qui, la lettura di Cicchitti, così come di Paola Nervi e di Antonio Coloccia, è una missione che ha pieno successo grazie a una fluidità del suono che appare ciò che è: un teatro liquido, una melodia che diviene palcoscenico (si ascolti l’Allegro iniziale della Seconda Sonata, in cui il violone, il basso buffo, apre la scena e introduce il duetto del soprano e del tenore, tenendo alla larga la tentazione di trasformare questo esercizio “operistico” in un melenso divertimento fine a se stesso). È il processo alchemico della brillantezza e della sottigliezza che si uniscono nell’athanor di un timbro in cui tutte le voci partecipano all’unisono attraverso la loro unicità. L’altra faccia della medaglia è data dai tempi lenti che vengono sempre scanditi dagli interpreti con sfumature stupendamente melanconiche, dando luogo a un’insospettabile profondità d’intenti, come se Wagenseil, anticipando di fatto il sublime salisburghese, il futuro Marco Aurelio, avesse voluto donare momenti di riflessione, di pacata osservazione dalla finestra di quel momento storico, incastonando l’epoca in cui viveva, facendo sì che l’eloquio divenisse l’ideale cornice dentro la quale fissare il tutto. Ecco, allora, che l’ascolto di queste Sonate perde magicamente, grazie all’interpretazione dell’Ensemble Elegentia, l’aura del banale “passatempo” per trasformarsi in scoperta. Emozionante illuminazione.
Altrettanto di ottima grana la presa del suono, effettuata da Maurizio Paciariello (il quale, oltre ad essere quel formidabile fortepianista che conosciamo, è anche un raffinato e competente ingegnere del suono); la dinamica, prima di tutto, è oltremodo vigorosa, velocissima, capace di esaltare lo splendido timbro degli strumenti, a cominciare dall’affascinante “rugosità” del violone. Ciò che colpisce, poi, è il risultato dato dal palcoscenico sonoro che non solo ricostruisce idealmente la fisicità degli strumenti, ma anche la spazialità in cui si trovano, fornendo un’immagine della profondità nella quale sono dislocati. Infine, sia l’equilibrio tonale, sia il dettaglio sono allo stesso livello ottimale: il primo restituisce puntualmente il gioco timbrico degli strumenti che non risultano mai “sovrapposti”, ma sempre perfettamente individuabili e ciò è fondamentale per apprezzare al meglio il dialogo, soprattutto tra il violino e il violoncello, mentre il secondo è fecondo di rimarchevole matericità (la quantità di nero intorno agli strumenti è davvero notevole), facendo in modo di materializzarli con sorprendente veridicità.
Andrea Bedetti
Georg Christoph Wagenseil – Six Sonatas for Violin, Cello and Violone
Matteo Cicchitti (violone e direzione) - Paola Nervi (violino) - Antonio Coloccia (violoncello)
CD Challenge Classics CC72896
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5