Il matematico, filosofo e musicologo francese Iégor Reznikoff, attraverso geniali studi pubblicati a partire dalla metà degli anni Ottanta, ha dato origine a un’affascinante disciplina, denominata archeoacustica, la quale ci ha fatto scoprire come l’uomo preistorico vantasse nozioni della scienza acustica a dir poco sbalorditive. Nel suo saggio Sur la dimension sonore des grottes à peintures du Paléolithique, apparso nel 1987, lo studioso francese, osservando e studiando le grotte di Le Portel, Fontanet e Niaux, nella regione dell’Ariège, ha dimostrato che le pitture e i graffiti parietali presenti in esse coincidevano con i punti di maggiore risonanza, facendo sì che un suono amplificato, con il conseguente eco rimbombato, era in grado di “illuminare” esattamente il luogo in cui si trovava una determinata immagine e il fatto che tale correlazione tra segno e suono si potesse produrre nel buio più assoluto, dimostra in modo irrevocabile quanto l’udito, nell’uomo di oltre duecentomila anni fa, fosse una vera e propria chiave di accesso al mondo della trascendenza. Gli studi condotti da Reznikoff ci consentono quindi di comprendere la presenza di diversi tipi di riverberazione acustica che si producono ancor oggi all’interno di queste grotte a seconda dell’emissione della voce umana e di come il punto scelto per emettere i suoni, corrispondenti proprio alla presenza data dai segni delle pitture, non fosse affidata al caso. I lunghi cunicoli, l’ampiezza delle volte e la presenza di stalattiti e stalagmiti generavano diversi e precisi flussi vibratori, capaci di esercitare sugli uomini un potere evocativo senza paragoni. Il suono come vita, il suono come uomo, il suono come trascendenza, il suono per capire cosa c’era oltre.

La cover del CD Tactus, con le Opere per flauto e percussioni di Sylvano Bussotti.

Non so se Sylvano Bussotti, che ci ha lasciati nel settembre dello scorso anno, sul finire della sua ultima estate, fosse a conoscenza di questi studi, ma sono certo che li avrebbe considerati un’ulteriore conferma di quanto enunciato dal suo tragitto artistico e musicale, dal suo battersi per farci comprendere come il suono abbia rappresentato, dal momento in cui l’uomo ha impiegato l’udito per cercare di decodificare la realtà che lo circonda, lo specchio privilegiato, lo strumento/ragione per dare una ragione alla sua esistenza e per creare ponti, collegamenti, strutture con ciò che era al di fuori di lui. Perché la visione estetica del compositore fiorentino rappresenta la concretizzazione di quanto afferma l’archeoacustica: uno o più suoni che si propagano nello spazio creano un impianto magico in cui sacralità, mistero, arte si fissano fluttuando, dando vita a un “momento” irripetibile ma sempre ripetibile.

E sono altrettanto sicuro che anche Roberto Fabbriciani e Jonathan Faralli, protagonisti dell’ultima registrazione discografica dedicata a composizioni di Sylvano Bussotti, più precisamente le Opere per flauto e percussioni, pubblicata dall’etichetta Tactus, possano essere affascinati dalle analisi e dalle speculazioni di Iégor Reznikoff, dalla potenza evocativa di un suono che è e resta ancestrale, poiché il geniale e compianto artista fiorentino (l’etichetta di compositore risulta, nel caso di Bussotti, non solo limitativa, ma quasi offensiva) ha dedicato la sua produzione e la sua vita a dimostrare che la magia del suono è un qualcosa capace di atomizzare le barriere del tempo, che il suono che è ora è quello che è stato ed è quello che sarà, un suono capace di perpetuarsi anche nel mantice del silenzio e dal quale affiora quando il mistero dell’arte è in grado di evocarlo. Fissare il suono che sorge per dare una possibile risposta al prima e al dopo.

Il filosofo, matematico e archeomusicologo francese Iégor Reznikoff.

Quest’immagine viene ulteriormente potenziata dal fatto che i suoni evocati e provocati da Bussotti in questo disco, che è stato registrato e confezionato quando era ancora in vita, siano espressi da strumenti come i flauti di Fabbriciani e le percussioni di Faralli, ossia da due famiglie che appartengono di diritto al mistero dell’ancestralità: il soffio e il percuotere ritmico, le origini della vita, poiché il soffio crea e il ritmo perpetua. Dobbiamo forse dimenticarci che Sylvano Bussotti, in cuor suo, si è sempre identificato in una sorta di dio Pan, colui che, come narra Ovidio in un passaggio delle Metamorfosi, grazie al vento in un canneto, inseguendo l’amadriade Siringa, ha dato origine al flauto? E dobbiamo forse dimenticare che il primo strumento musicale utilizzato dall’uomo, più di quattrocentomila anni fa, è appartenuto alla famiglia dei litofoni, vale a dire delle pietre battute tra loro? Questo è l’alfa, mentre l’omega, con la loro evocazione, ci è stato dato appunto da Roberto Fabbriciani e da Jonathan Faralli, calatisi nei panni di interpreti-sciamani e il cui disco che racchiude nove composizioni bussottiane rappresenta la caverna dalla quale irradiare il Suono primigenio, così tremendamente attuale. I nove brani ospitati in questa registrazione sono Sypario per flauto e percussioni, Autoritratto-esemplare di Roberto Fabbriciani per flauto e percussioni, Tutti. Delle notti Sylvane per sole percussioni, Cardellino, Cinciallegra, Ciuffolotto e Cormorano  per flauto solo, Autotono per flauto e percussioni, Tutti. Alcuni per flauto, percussioni e nastro magnetico, Tutti. Scrigno per sole percussioni, Rara dolce per solo flauto dolce e Serpe per flauto e percussioni, un Suono che è stato estrapolato da altre opere di Bussotti e racchiuso, quindi, in altri Suoni che si irradiano, per l’appunto dai vari tipi di flauto utilizzati da Fabbriciani e dalla pletora di percussioni di Faralli, oltre all’immancabile presenza della voce che richiama echi della Voce primordiale. Opere, dunque, che appartengono a vari momenti della creatività del poliartista fiorentino, come a dire multiesempi di varie epoche della temporalità interiore di Bussotti, stati d’animo che sono stati rincorsi e inchiodati sulla partitura o, come spesso avveniva, su pittogrammi in quanto l’immagine non doveva mai essere disgiunta, come nelle caverne di Le Portel, Fontanet e Niaux, dal suono evocato. Immagine tracciata, ma paradossalmente mai vista prima dell’irruzione del fuoco, così come i pittogrammi che non devono essere solo letti nei segni, ma vissuti nell’attimo stesso della loro interpretazione, con le linee e i colori che devono suscitare emozioni, le stesse che l’uomo primitivo provava nel guardare tracce, segmenti evocanti animali, uomini, alberi, ossia la vita che avrebbe trovato fuori da quelle grotte.

Il compositore, regista, costumista, scenografo Sylvano Bussotti, scomparso nel settembre 2021.

E, a proposito di immagini, esecuzioni come quelle di Fabbriciani & Faralli, non dovrebbero mai essere solo ascoltate, ma anche viste, poiché l’emanazione del suono in Bussotti non si limita alla sua evocazione acustica, ma anche di come viene resa con i movimenti, con il corpo, con i gesti, con le azioni, con quell’insieme di strumenti che richiamano il Gesamtkunstwerk di wagneriana memoria, un tutto fatto da diverse applicazioni, il cui insieme dà vita all’attimo irripetibile, in quanto tutta la musica di Sylvano Bussotti, anche quella apparentemente strumentale, è sempre teatro, un teatro che si apre nel disco in questione proprio con Sypario, ossia con il meccanismo che apre e chiude il procedere teatrale, ossessione di ciò che è inizio e allo stesso tempo fine, trasformando lo spazio e il tempo che intercorrono tra l’uno e l’altra in un mirabile contenitore, dove i suoni degli strumenti e di una voce (chi si è accorto che tale voce declama un frammento di Pensiero stupendo di Patty Pravo, con il testo modificato e portato rigorosamente al maschile, tanto per rimarcare un fantasmagorico gioco delle maschere?) concorrono a riempirlo.

Altri esempi. Tutti. Delle notti Sylvane, in cui Faralli dipinge con un peyote metafisico, dopo essersi calato nei panni di un Don Juan castanediano, i gesti sonori di un Pan che si aggira furtivo, pura rappresentazione in movimento di un Après-midi d’un faune riveduto e corretto, i cui passi zoccolati sono dati spettralmente ritmati e in cui lo stesso percussionista è portato/costretto ad assumere tale ruolo, altrimenti dove va a finire l’interiorità teatrale del gesto sonoro, in cui il timbro generato sposta volumi all’interno dello spazio/caverna? E poi il gioco erotico, immancabile nel Pan-Bussotti, dato da Cardellino, Cinciallegra, Ciuffolotto e Cormorano, con il membro-flauto che evoca altri membri sotto forma di uccelli, poiché la sessualità è sempre leggerezza, canto, movimento ritmico variato/variabile, gioia, esaltazione, più Dario Bellezza e meno Sandro Penna, Pan che è felice anche solo masturbandosi senza avere Siringa tra le mani, un Narciso che si specchia nel suo sperma.

E se proprio dobbiamo calarci nelle braghe di un Dioniso, ecco allora che inevitabile assurge la dimensione dell’improvvisazione, dell’interprete che viene lasciato in balia di se stesso, perché Bussotti è deus ex machina solo con se stesso, al punto di coinvolgere nel concetto di com-posizione, le posizioni fattive, gestuali, espressive dell’interprete sempre attraverso il connotato magico dato dal pittogramma, come accade in Autotono, partitura adattata alle varie situazioni, alle varie formazioni, ai vari stati umorali di chi la esegue, come in questo caso con la voce, il flauto e le percussioni che imbastiscono un living theatre grazie a una continua idea applicata del suono/palcoscenico (parallelamente ad esso, la stessa funzione di un Alle, di un Tutti insieme appassionatamente, viene fornito genialmente dal nastro magnetico proprio in Tutti. Alcuni).

Roberto Fabbriciani e Jonathan Faralli, protagonisti della registrazione discografica Tactus.

Colpisce, infine, Rara dolce (volteggia sempre nell’aria la figura iconica/iconoclasta del “Super Pan” Romano Amidei), il cui processo musicale-erotico prende avvio in Bussotti nel lontano 1962, e che qui viene concettualizzato materialmente dal flauto dolce di Fabbriciani, santificazione di una fellatio sonora in cui il cavo orale non ingoia, ma irradia, e dove, come non mai, l’atto timbrico/erotico dev’essere visto, scrutato, contemplato, poiché il suono è solo un aspetto dei tanti che ammantano questo brano.

A redigere le note di accompagnamento di questa ineludibile registrazione discografica è Luigi Esposito, allievo e biografo di Sylvano Bussotti, uno dei principali esponenti dell’arte del pittogramma, il quale è coinvolto come autore nell’ultima registrazione effettuata dalla pianista francese Hélène Pereira, specialista nell’ambito della musica contemporanea. Il suo disco, pubblicato dall’etichetta austriaca Col Legno, s’intitola Axis Mundi e presenta, oltre al brano Hacker Sonate di Esposito, pezzi per pianoforte preparato e/o con elettroacustica di altri sette compositori attuali, per la precisione Sidereus Orbis di Philippe Festou, Sillage di Mayu Hirano, Duet for One Pianist(Eight Sketches for Midi Piano and Computer) di Jean-Claude Risset, Triptych of an Echo di Iván Solano, Higashi Yama di François Rossé, Mysterious Adventure di John Cage e Seuils di Isotta Trastevere, che a livello temporale vanno dal 1945 per il brano di Cage fino al 2020 per quelli di Hirano, Solano ed Esposito.

La cover del CD della Col Legno, con musiche per pianoforte preparato di autori contemporanei.

Si deve partire proprio dal titolo di questa silloge sonora per comprendere lo spirito e il significato di codeste opere pianistiche, la cui rarefazione timbrica, arricchita e sovrapposta dall’intervento del computer, impone una verticalità allegorica dietro la quale si celano molteplici piani d’intenti, tutti però accomunati da una percezione spazio/tempo che tende a sfalsare l’apparente immagine del suono generato. Così, il denominatore comune è dato da una materia sonora che rappresenta un debito punto di partenza, una domanda che necessariamente non deve avere risposta, ma si limita nella sua pura enunciazione materica. Questo perché anche qui vale il discorso fatto per il disco di Bussotti, ossia di come la gestualità dell’interprete va a interagire con il mondo sonoro che scaturisce dal pianoforte, il quale diviene strumento di ricerca, di esplorazione, di tentativo fisico e metafisico di essere “altro”. Un’avventura misteriosa, quindi, prendendo a prestito il titolo del pezzo di Cage, il quale fa da padre putativo, di impronta connotata da un preciso DNA creativo, una creazione alla perenne ricerca di un punto di equilibrio formale attraverso il quale attingere immagini, visioni, sensazioni, emozioni che vengono evocate anche dal corpo stesso di Hélène Pereira, dal suo interagire con la cassa armonica, allegoria di un peregrinare intorno e dentro il suono.

Questa ricerca, però, non appare mai esasperata al limite dell’incomunicabilità, in quanto quasi sempre gli autori presi in oggetto propongono appigli dialettici, votati a sequenze dissonantiche, frammenti di comunicazione che devono essere colmati in fase di ascolto, poiché l’ascoltatore stesso si fa parte integrante di ciò che viene offerto in sede di partitura. Ergo, l’interprete, come sovente accade nei meandri della musica contemporanea, si erge a medium, veggente di materia sonora che diviene formalmente ectoplasmatica, evocata e resa sospesa. E la verticalità di tutto il costrutto qui presentato sta proprio nel rapporto tra un’immanenza che si cela in chi esegue e in chi ascolta e una trascendenza che appare a squarci, fatta di una materia disincarnata, la quale viene inseguita, frugata dall’atto interpretativo stesso, facendo sì che colui che ascolta possa insinuarsi, trovare il proprio posto in questa verticalità da cogliere nell’attimo in cui si irradia. Un rapporto sciamanico, dunque, con una teurgia esecutiva che dev’essere instillata nell’ascolto attraverso una progressiva penetrazione del suono evocato. Questo significa che l’ascolto dev’essere reiterato, poiché spesso (come nel caso di Duet for One Pianist e di Triptych of an Echo) la materia sonora e fisica risulta ipnotizzante, portando alla concretizzazione di un sottilissimo mantra che sorge spontaneo in chi sa ascoltare. O si è accolti o si è respinti.

La mancanza di note di accompagnamento che possano quantomeno fornire una traccia d’ascolto non fa altro che separare ciò che è da ciò che non lo è, perché l’ascolto d’approccio non può che essere mediato da un’istintività che non ha bisogno di una gnosi introduttiva, facendo sì che tale mancanza, alla fine, non sia più una mancanza. Tutti gli autori qui presenti, in fondo, affermano la stessa cosa: ascoltare significa saper aderire, vuol dire essere materia che aderisce a materia; solo così si può aspirare ad essere, tramite un ascolto aderente, altro da ciò che si era prima.

La pianista francese Hélène Pereira.

Ecco perché l’interpretazione di Hélène Pereira si pone nella sfera di una rappresentazione sciamanica, poiché l’esecutore per non essere tale deve far sì che il suono generato possa prevaricare le leggi del semplice segno per assurgere a dimensioni che vanno oltre il suono stesso e, come nel caso di Sylvano Bussotti, la cui opera, nel momento stesso in cui viene rappresentata, diviene atto copulativo, sessuale, una comunicazione tantrica in cui l’altezza del suono, la sua formulazione timbrica devono risvegliare la coscienza del kundalini. Alla luce di ciò può apparire esagerato se la pianista francese assume in tal senso un ruolo da vestale orfica, di una “guardiana della soglia”? Non credo. Abbandonatevi a quanto vi offro, sembra dire, con le dita, con il ritmo del corpo che si solleva e si abbassa sulla cassa armonica e sulla tastiera. Alla fine, chi avrà saputo ascoltare, si renderà conto che ha preso parte a un rito iniziatico, con il desiderio di esserci ancora.

Per quanto riguarda le due prese del suono, quella di Emanuele Braca per la produzione discografica della Tactus, è di buona fattura e permette di cogliere uditivamente la concezione teatrale che impregna le opere qui presentate; questo significa che il palcoscenico sonoro, parametro fondamentale in tal senso, riesce a ricostruire più che adeguatamente la spazialità della rappresentazione musicale, con i vari strumenti e le voci sempre riprodotti in maniera coesa e verosimile all’interno della profondità e dell’ampiezza posta tra i diffusori. La dinamica è oltremodo energica e veloce nei transienti, tale da permettere la riproduzione di ogni minima sfumatura timbrica; infine, sia l’equilibrio tonale, sia il dettaglio sono di ottima fattura: il primo non perde mai i contorni dei vari registri, a cominciare da quello acuto, risultante nitido e mai fastidioso, mentre il secondo è in grado di mettere debitamente a fuoco strumenti e voce, con una ragguardevole matericità che coinvolge maggiormente nell’ascolto.

Anche la presa del suono relativa alla registrazione della Col Legno, curata da Virginie Lefebvre, è valida, con un pianoforte maggiormente ravvicinato nella ricostruzione del palcoscenico sonoro, ma che non appare innaturale, soprattutto partendo dal fatto che è preparato, restituendo di conseguenza in modo congruo le modifiche timbriche apportate, anche per via della presenza di suoni generati digitalmente. Questo grazie a una dinamica assai energica e veloce, così come per via di un equilibrio tonale che non appare mai sgranato o slabbrato, ma preciso e scontornato. Anche il dettaglio è positivamente rilevante, in quanto genera un’immagine fisica dello strumento con un ottimo livello di matericità.

Andrea Bedetti

Sylvano Bussotti – Opere per flauto e percussioni

Roberto Fabbriciani (flauti) – Jonathan Faralli (percussioni)

CD Tactus TC 931902

Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5

AA.VV. – Axis Mundi

Hélène Pereira (pianoforte e computer)

CD Col Legno CL3 15010

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5