Vi sono compositori che vedono il loro nome unito in modo indissolubile soltanto a una loro composizione, grazie alla quale devono poi la fama più o meno imperitura, il che se da una parte devono ringraziarla, dall’altra possono anche comprendere che ciò sia una iattura, poiché il resto della loro produzione viene messa in ombra dalla presenza ingombrante di tale opera. Un caso esemplare, sotto questo punto di vista, è dato dal compositore inglese Gustav Holst, il cui nome viene immancabilmente affiancato da quel lavoro per il quale è passato poi alla storia, la suite sinfonica The Planets. Holst, a dire il vero, è stato anche l’artefice di un più che discreto catalogo, almeno a livello di quantità, ma nessun’altra sua composizione ha neppure sfiorato da lontano il successo che la Suite in questione seppe donargli. D’altronde, basta domandare a un sufficientemente preparato ascoltatore di musica classica il titolo di un’altra opera di Holst e nove volte su dieci (ad essere ottimisti) la sua risposta sarà un assordante silenzio.
Sia ben chiaro, il fatto che tale domanda non ottenga una pur minima risposta non deve andare a demerito del malcapitato ascoltatore, quanto allo stesso compositore inglese, il quale non può e non dev’essere annoverato tra i grandi del Novecento, se non tra i sudditi della “perfida Albione”, i quali stravedono per musicisti, come nel caso di Bax, Delius, Vaughan Williams, Elgar, tanto per fare un minimo di nomi, che sono e restano delle glorie del tutto nazionali, in quanto la loro produzione musicale è strettamente legata e collegata alle tradizioni culturali anglosassoni, oltre al fatto che la loro eloquenza creativa non è in grado, il più delle volte a ragione, di stimolare interessi, curiosità e ascolti attenti e ragionati. Personalmente, ho sempre trovato alquanto ampollosa, fastidiosamente opulente e tronfia la musica di questi autori, soprattutto per quanto riguarda il genere orchestrale e sinfonico, mentre maggiore attenzione, semmai, meriterebbe la loro produzione cameristica, la quale al contrario latita sia in sede concertistica, sia, con qualche debita eccezione, in quella discografica. D’altro canto, buona parte della musica britannica che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla prima metà del secolo successivo pecca di base di un’ostentazione retorica, di una stucchevolezza causate da una forma mentis e da un impianto culturale che risentono fortemente dell’animus imperialis di cui trasudava il pensiero artistico inglese (a tale proposito, provate a fare mente locale sul numero di marce militari, per non citare le opere in onore di questo o quel sovrano, che i compositori britannici del periodo riuscirono a sfornare: ebbene, non ne troverete in nessun’altra realtà musicale europea coeva).
Ora, anche il nostro autore in questione non mancò all’appuntamento con tale tradizione, visto che compose due Suites for Military Band (di cui la prima, scritta nel 1909, viene presa ancora oggi a modello), ma solo gli appassionati di musica da banda e gli specialisti di musica inglese possono apprezzarla, mentre la stragrande maggioranza di coloro che ascoltano Holst si fermano a The Planets e la cosa finisce (comprensibilmente) lì. E se scrivo di Holst e del suo capolavoro non è per via di un’ennesima registrazione che riguarda quest’opera nella versione originale orchestrale, ma per il fatto che è uscita recentemente, per l’etichetta Velut Luna, la sua trascrizione per due pianoforti effettuata dallo stesso Holst, che la pubblicò nel 1949, ossia quasi trent’anni dopo la versione orchestrale. A effettuare questa registrazione ci ha pensato l’Amadeus Piano Duo, formato dai pianisti veronesi Valentina Fornari e Alberto Nosè (i quali sono, tra l’altro, una coppia anche nella vita), avvalendosi della preziosa collaborazione e della presa del suono effettuata da Marco Lincetto, deus ex machina della casa discografica veneta.
L’interesse dato da questa registrazione deve partire da un presupposto, quasi sempre fondato, quello che se una trascrizione per pianoforte, magari effettuata dallo stesso autore, di un’opera riesce bene, spesso riesce a mettere in luce aspetti e connotazioni che non sono presenti, o che non possono essere debitamente evidenziati, nella sua versione originale. Il fatto è che un grande compositore non sempre è anche un ottimo trascrittore (Wagner è un musicista che non si discute, ma quando si trattò di fare delle trascrizioni delle sue opere, pensò bene di passare la palla a Liszt, il quale in ciò fu a dir poco imbattibile, senza tener conto che al pianoforte il futuro suocero fu semplicemente un cane, per non parlare di Mahler, il quale se da una parte fu un ottimo orchestratore, ascoltate la sua versione rivista e corretta delle sinfonie schumanniane e scoprirete un nuovo mondo, dall’altra, quando fu chiamato a trascrivere lasciò il tutto al fido Bruno Walter, musicista, quest’ultimo, davvero a tutto tondo), ma in questo caso Holst fece davvero un ottimo lavoro, capendo fin da subito che, data la complessità e la vastità d’intenti armonici e melodici presenti nella partitura del suo capolavoro, una trascrizione pianistica di The Planets doveva essere fatta su due pianoforti. A tale proposito, anni fa, un pianista americano, David Rubinstein, mi inviò la registrazione della sua versione trascritta per un solo pianoforte dell’opera in questione di Holst; la trovai tutto sommato onesta, modestamente efficace, ma del tutto inadeguata nel capitalizzare sulla tastiera di un solo pianoforte la reale portata compositiva del lavoro, il quale si fonda su due entità distinte, ma capaci di fondersi meravigliosamente: la sfera del ritmo e la sfera dell’enunciazione. Lasciando da parte la questione della passione di Holst per l’astrologia e il conseguente desiderio di tramutarla in musica, The Planets è soprattutto un’opera la cui complessità compositiva intende restituire un afflato cosmico che viene “liofilizzato” simbolicamente nei sette pianeti presi in esame (oltre a considerare il pianeta Terra, ovviamente Holst non poté affrontare Plutone, il quale fu scoperto solo nel febbraio 1930 dall’astronomo Clyde Tombaugh). In tutta l’opera questo respiro (quello che la filosofia vedāntica definisce con il termine di prāṇa, ossia “energia vitale”) è connaturato attraverso un altissimo senso ritmico e dal fluire (l’enunciazione) dei vari temi che contraddistinguono i pianeti. Quindi, non è del tutto corretta la vicenda secondo la quale Holst, dopo aver giocato a fare l’Alain Daniélou de’ noaltri nella prima parte della sua vita, decise di buttare definitamente alle ortiche i dettami del Rāmāyana e le immagini evocative del Bhagavadgītā(quel lasso di tempo che gli studiosi hanno definito con l’espressione di Sanskrit Period), in quanto anche in The Planets il richiamo cosmico d’induista memoria è ancora presente, sebbene annacquato dall’interesse nei confronti della scienza astrologica che Holst considerava tuttavia, alla stregua dell’antica sapienza caldea, ossia una forma di comunicazione teurgica.
Anche per questi motivi, The Planets resta un’opera unica nel suo genere, sebbene negli anni successivi Holst cercò, con opere simili e derivanti da una visione che si potrebbe definire “skrjabiniana”, di approfondire il legame tra musica, astri, cosmo e uomo, ricevendo però in cambio delusioni, indifferenza e fallimenti da parte della critica e del pubblico. The Planets, dunque, resta un unicum del quale il compositore inglese si è avvalso per raggiungere una fama imperitura. Ma è anche vero che un’opera di tale vastità e complessità interpretativa può risentirne in modo particolare se viene affrontata in modo “fracassone”, ossia se si intende, e registrazioni discografiche in tal senso non mancano, darne una rappresentazione “effettistica”, trasformandola di fatto in una sorta di colonna sonora da film di fantascienza (non per nulla compositori di sound tracks, come John Williams, ne hanno tratto spunti e idee per le loro musiche destinate al grande schermo). Al contrario, ascoltando con attenzione questa partitura ci si rende conto che un’interpretazione ideale risiede in una lettura non dico “intimistica”, quanto esplorativa dell’animo umano, vale a dire sondare il microcosmo che si cela in ogni uomo (tanto per restare in ambito cinematografico, ricordo un classico della fantascienza degli anni Sessanta, Viaggio allucinante, diretto da Richard Fleischer e tratto da un racconto di Isaac Asimov, che narra le vicende di una microscopica astronave che viaggia all’interno di un corpo umano). Ecco perché una trascrizione pianistica di quest’opera orchestrale può mettere in luce ciò che, al contrario, la versione sinfonica rischia di celare, se non letta in modo adeguato e sensibile. E che Holst abbia trascritto in modo efficace questa partitura per due pianoforti risulta proprio lampante grazie all’esecuzione fatta da Valentina Fornari e Alberto Nosè, che merita di essere analizzata con attenzione.
Il primo pianeta, Mars, The Bringer of War, che richiama alla mente in effetti la Sagra della primavera di stravinskijana memoria, spiega esemplarmente il perché di due pianoforti, in quanto uno dev’essere sempre consacrato alla dimensione ritmica, alla pulsione del respiro cosmico dal quale prende forma l’enunciazione tematica, con quest’ultima invece che è riservata all’altro pianoforte. Se nella versione orchestrale l’affiatamento tra le varie sezioni è fondamentale, nella versione per due pianoforti diviene indispensabile, un mirabile gioco di pesi e contrappesi in cui si dipana il sentiero percorso da buona parte della musica del Novecento storico, ossia il senso percussivo che diviene storia, traccia, narrazione, evento da svolgere sonoramente. Un regno dominato da ff e fff che però non devono mai, anche qui, trasformarsi in un festival a chi ce l’ha più duro, ma risultare sempre inseriti in un contesto misterico, evitando di dare vita a una frattura “timbrica interiore” con il pianeta che segue, Venus, The Bringer of Peace, in quanto la sua resa sonora deve mostrare l’altra faccia di un intero, con un suono maggiormente dilatato e sfumato, senza che cada in un sentimentalismo da “volemose bene” di infido grado. Questa “continuità discontinua” viene resa magnificamente dal duo veronese, grazie prima di tutto a una pulizia sonora, a un immancabile controllo della materia da plasmare ed evitando di cadere, allo stesso tempo, nella trappola di voler per forza “inserire-l’orchestra-nella-tastiera”. Suono simbolico, raggrumato, conchiuso in sé, del tutto autonomo, nascita-morte-rinascita (con la seconda parte di Venus può essere decodificata in tal senso).
Mercury, The Winged Messenger, rappresenta il pianeta più piccolo e quindi anche la sua “emanazione” sonora dev’essere di dimensioni contenute, ma altamente espressive. Velocità d’esecuzione, tratteggio rapido, tale da diventare per assioma uno schizzo fatto con il carboncino, ed è ciò che i due pianisti confezionano idealmente, un progressivo irradiarsi dell’elemento ritmico che porta di conseguenza a una mutazione continua del divenire enunciativo. Per dirla in termini astrologici, il brano che segue, Jupiter, The Bringer of Jolity, rappresenta la cuspide dell’intera opera, in quanto demarca, come le linee di separazione tra una casa e l’altra dello zodiaco, l’intera composizione, cosa che può essere fatta solo dal pianeta più grande, quello la cui massa incide più di qualsiasi altra all’interno del sistema solare. E anche se non è il brano più lungo, è però quello che vanta la maggiore varietà di temi, che culmina con l’affascinante “corale” posto al centro del pezzo, “cuspide della cuspide”, oltre al fascino che deriva dal suo andamento danzante presente dalla prima all’ultima nota (la storia o la leggenda che siano, narrano che nel corso della prima audizione privata, fatta il 29 settembre 1918 alla Queen’s Hall di Londra, con la London Symphony Orchestra diretta da Adrian Boult, ascoltando questo brano, le donne delle pulizie nei corridoi misero giù gli spazzoloni e si misero a ballare). Senso danzante, ma anche apparato ieratico, solenne, verticale che dev’essere reso con un andamento mutevole, con un timbro pieno, dunque, ma anche sfumato, un ipse dixit delicato e declamatorio allo stesso tempo (si ascolti il passaggio dal corale alla ripresa del tema iniziale), cosa che il duo Fornari&Nosè restituisce con estrema naturalezza, con la dovuta fluidità del “tutto scorre”, incarnato efficacemente dalla coda del brano.
L’ipnosi, la dimensione dell’espansione spazio-tempo, e allo stesso tempo lo scavo interiore, l’esplorazione di ciò che è dentro di noi, ecco che cosa esprime il pianeta che segue, Saturn, The Bringer of Old Age, un’antichità che vuole essere retaggio, ma anche viaggio ancestrale, con il duo veronese che dipana accordo dopo accordo una segmentazione timbrica che è suono singolo che si tuffa nella continuità del tutto, una linea tratteggiata, in cui il ritmo sale e scende, ondivago nel sondare i misteri del macro e del microcosmo. Dominio della materia, calibrazione perfetta della pressione e dell’uso della pedaliera che sembra dare vita a un ossimoro musicale, ossia uno Schönberg tonale, che si conclude in una spettrale ninna nanna. Ci vuole rarefazione, senso totale delle proporzioni da fornire all’arcata generale del brano per evitarne la sua disgregazione timbrica e, all’interno di essa, cesellare in ogni momento il suono-in-sé, restituendo ogni singolo mattone del muro sonoro. E nella lettura dei due interpreti vi è indubbiamente tutto ciò.
L’elemento magico, la trasmutazione delle cose, il creare per poi distruggere, come a dire la vacuità e vanità delle cose, che ammantano Uranus, the Macigian, è un dukasiano Apprenti sorcier riveduto e corretto, il quale dà vita così a una sorta di balletto demonico, frutto di sbalzi timbrici, di assi portanti che si alternano nella loro verticalità e orizzontalità. E qui, ancora una volta, Fornari&Nosè riescono a sciogliere la matassa ritmica con una padronanza assoluta dei mezzi, con i fff che danzano in un vortice sonoro che rimane però sempre miracolosamente distinto, un film di cui si ha sempre la percezione del fotogramma dopo fotogramma.
Infine Neptune, The Mystic, ossia del disvelarsi di un sentimento mistico e misterico che si cristallizza in otto minuti di durata, un tragitto ipnotico che sembra nella seconda parte quasi presagire, nel suo concretizzarsi pianistico, le future conquiste di un Morton Feldman, con una cristallinità timbrica che sembra quasi di ascoltare un Glockenspiel al posto della tastiera. Una scala di Giacobbe, come quella illustrata da William Blake, che sale fino a raggiungere sfere empiree, con i due pianoforti che sostituiscono in modo appropriato il ruolo affidato nella versione orchestrale al coro femminile, un delicato accomiatarsi, un allontanarsi da una massa galattica all’altra, il fluire del tempo che si dissolve sotto le dita del duo in un avvolgente perpetuum mobile che sembra non finire mai. Confesso di non conoscere la versione di The Planets nella versione per due pianoforti fatta da Len Vorster e Robert Chamberlain per la Naxos, acclamata da buona parte della critica anglosassone, ma da quanto ho potuto ascoltare, quella dell’Amadeus Piano Duo mi basta e avanza. E me la tengo stretta.
Un capitolo a parte riguarda la presa del suono effettuata da Marco Lincetto. Come lo stesso discografico e ingegnere del suono spiega nelle note di accompagnamento al disco, la cattura del suono dei pianoforti, due meravigliosi Fazioli F278 Gran Coda da concerto allestiti nella Fazioli Hall di Sacile, in provincia di Pordenone, è stata fatta con cura certosina con l’ausilio di un set microfonico a dir poco strepitoso, vale a dire una coppia di Schoeps MK2s, una coppia di Sennheiser MKH8020 e una coppia di Austrian OC818, preamplificati da tre Millennia Media HV-3B. Ma al di là del valore qualitativo della microfonatura, bisogna anche essere capaci di posizionare questi notevolissimi microfoni nel modo migliore, tenendo conto non solo dei pianoforti, ma anche di dove sono posizionati rispetto al tipo di riverbero e di rifrazione sonora dati dall’ambiente in cui si trovano. Dunque, un lavoro maniacale di calibrazione, in modo da poter restituire al massimo grado la naturalezza sonora che i due Fazioli sono in grado di esprimere. Ebbene, il risultato ottenuto è stato a dir poco eccezionale: se si ha a disposizione un impianto audio all’altezza, posto in un ambiente di ascolto debitamente trattato a livello acustico, ciò che si ascolta rasenta la perfezione. Tutti i parametri sono quindi al loro massimo grado, a cominciare dall’equilibrio tonale, che è quello che mi ha maggiormente impressionato e prendo come esempio un particolare: di solito, anche nelle cosiddette prese del suono audiofile, è quasi impossibile ascoltare nitidamente, con una sorprendente naturalezza, l’uso dei pedali, ossia di come il suono pianistico viene modificato dall’impiego dei medesimi e di come, di conseguenza, anche la fase di decadenza possa essere modificata. Ebbene, in questa registrazione tutto ciò è perfettamente udibile, in modo tale da comprendere e apprezzare ancor di più le scelte interpretative, la sensibilità dimostrata dalla coppia Fornari&Nosè nell’attuare la loro lettura esecutiva. A livello pianistico non mi era mai capitato di ascoltare la netta separazione dei registri gravi da quelli medio-acuti (e, in questo caso, su due pianoforti, per giunta, il che aumenta il tasso di difficoltà nel posizionamento dei microfoni stessi), al punto da trasformare la cattura del suono in un’immagine olistica. Ciò, ovviamente, ha prodotto un effetto a cascata, in quanto ne ha tratto vantaggio la ricostruzione dei due strumenti all’interno del palcoscenico sonoro, che non ha riguardato solo i pianoforti, che risultano essere scolpiti in una profondità nella quale non si perdono, ma anche lo spazio fisico nel quale erano posti; questo significa che Lincetto ha saputo ricreare anche la sala della Fazioli Hall, trasportandola di fatto nell’ambiente di ascolto di coloro che possono riprodurla con il loro sistema audio. La registrazione, inoltre, è in 88.2 kHz/24 bit e ciò dà modo alla dinamica di risultare a dir poco esplosiva, con una velocità dei transienti da lasciare allibiti, ma allo stesso tempo è anche rotonda, sfumata, delicata in modo incredibile. Da ultimo il dettaglio, fatto di una matericità unica, granitica, tale da restituire non solo l’immagine volumetrica dei pianoforti, la loro consistenza materica, ma anche il “respiro” stesso della materia di cui sono fatti, al punto di poter affermare che ciò che si sente non è solo il suono sprigionato dai pianoforti, ma i pianoforti stessi nella loro totalità fisica. Benvenuti nel tempio dell’Audiofilia. Capolavoro.
Andrea Bedetti
Gustav Holst – The Planets (Arranged for Two Pianos by the Composer)
Amadeus Piano Duo (Alberto Nosè & Valentina Fornari) (pianoforti)
CD Velut Luna CVLD 337
Giudizio artistico 4,5/5 Per acquistare il CD direttamente dal sito web della Velut Luna:
Giudizio tecnico 5/5