Burkard Schliessmann è uno degli attuali pianisti tedeschi più apprezzati e interessanti a livello internazionale e già vanta una nutrita discografia, focalizzata soprattutto su autori che appartengono alla scuola romantica europea. Anche la sua ultima registrazione, un cofanetto comprendente tre CD pubblicato dalla Divine Art, non si discosta da tale prerogativa, come d’altronde dimostra lo stesso titolo, At the Heart of the Piano, e che presenta la Ciaccona in re minore di Bach nella trascrizione di Busoni, gli Studi sinfonici op. 12 e la Fantasia in do maggiore op. 17 di Schumann, l’immancabile Sonata in si minore di Liszt, la Sonata in fa diesis minore op. 23, due Studi dall’op. 8 e dall’op. 12, dei Preludi dall’op. 11, op. 16 e op. 37 di Skrjabin, così come sempre di quest’ultimo le Due danze dell’op. 73 e i Cinque preludi dell’op. 74, per finire con la Sonata op. 1 di Berg.

La cover del cofanetto della Divine Art registrato dal pianista tedesco Burkard Schliessmann.

Considerando con più attenzione tale programma, sulla base della visione estetica di Schliessmann, ci si può rendere conto facilmente come le opere e gli autori presi in considerazione possono formare una mappa esplicativa del Romanticismo musicale, basata non tanto su una filosofia da proporre attraverso la sfera sonora, quanto un rigoroso studio formale in cui la chiave contenutistica del pensiero romantico possa sedimentarsi senza entrare in contrasto con quanto esposto dalla forma stessa. In questo senso risulta già sintomatica la celeberrima Ciaccona di Bach rivista ed enunciata da Ferruccio Busoni; la scelta che fa Schliessmann non è nell’esaltare la dimensione trascendentale con la quale viene presentato usualmente questo brano, ma coinvolgendo maggiormente l’aspetto immanente, ossia la percezione sensitiva dell’artista che la esegue. La Ciaccona, quindi, vista non nella visione bachiana mediata dal tecnicismo di Busoni, ma come il (tardo)romanticismo del compositore e del pianista empolese, distaccandosi dalla pura dimensione spirituale che inevitabilmente investe la musica bachiana, plasma la materia primigenia secondo le modalità e le urgenze del proprio tempo. Da qui, la tecnica stessa diviene una forma di trascendentalità con la quale attingere le prerogative di una visione, quella romantica o quantomeno di ciò che rimane di essa, che osserva, riflette e si offre all’orecchio, al cuore e al cervello di chi ascolta. Ma si faccia attenzione a un aspetto che contraddistingue il percorso del programma scelto dal pianista tedesco, ossia che ci sia un filo rosso che lega ogni opera interpretata a quella successiva, non tenendo conto delle discrepanze cronologiche del programma stesso. Quindi, il Busoni che media e “attualizza” Bach è molto vicino a quella trascendentalità tecnica evocata sia da Schumann, sia da Liszt, ossia da due depositari della “sacra” visione romantica. Ecco perché, in nome di questa “trascendentalità”, Schliessmann prosegue la sua esplorazione nell’ombelico romantico dapprima con gli Studi sinfonici e con la Fantasia schumanniani e poi con la Sonata lisztiana. E come affronta queste pagine?

Il pianista e compositore empolese Ferruccio Busoni.

Gli Studi sinfonici subiscono dilatazioni e restrizioni nel metronomo, ma questo non deve far gridare allo scandalo, in quanto l’artista tedesco colma i possibili sfasamenti temporali affrescando il tema e le variazioni di questa composizione con una debita passionalità, tale da dare vita a una sorta di “racconto” (lo Schumann “immaginifico” che fa sconfinare l’arte dei suoni nelle strutture narrative e letterarie) che si dipana con una sagacia coloristica data ad ognuno dei dodici Studi, un colore che Schliessmann esalta soprattutto esasperando il gioco della tonalità dato dai tasti cromatici e della tecnica da utilizzare sulla base delle stesse indicazioni fornite da Schumann, il che porta a dare vita a un affresco timbrico che per alcuni potrà anche risultare esagerato nel suo risultato finale (c’è effettismo, patetismo, slancio emotivo;  ma, perdiana, siamo o non siamo nel cuore del Romanticismo pianistico?), che però rientra pienamente nella visione che Schliessmann ha voluto impostare, il che dimostra come questo pianista non pecchi propriamente di mancanza di personalità, anzi. Quindi, monumentalità a iosa (Studio X -Variazione IX), ma anche pennellate sfumate, arrotondate, rese cristalline (Studio XI - Variazione X e Studio XII - Variazione XI), ossia nel cuore stesso dell’op. 13, per evidenziare al meglio l’antagonismo bipolare della personalità schumanniana, con Florestano ed Eusebio che salgono sul ring per darsele di santa ragione.

Monumentalità e delicatezza che si mantengono coerentemente tali anche nella Fantasia op. 17, la quale, come si sa è soprattutto (vedasi il primo tempo) un appassionato e accorato atto d’amore nei confronti di Clara Wieck e che Schliessmann esplora con potenti sonorità, piene, aperte, solenni, conferendo un’identità “architettonica” al suo pianismo, onde solidificare l’immagine del phantastisch, come da indicazioni schumanniane. Ma anche in questo caso vale la proiezione, il “gettarsi-in-avanti” con il quale l’artista tedesco permea tutto il programma in questione, ossia preparando l’ascoltatore all’irruzione della Sonata lisztiana (a livello cronologico, lo ricordo, la Fantasia risale al 1836, mentre la Sonata in si minore è del 1852 ed è dedicata proprio a Schumann).

Schliessmann, quindi, getta idealmente un ponte, un collegamento tra la passione che cerca di essere forma, data dalla Fantasia op. 13, con una forma, per l’appunto, che butta la sua tonaca alle ortiche per assurgere a quanto di più libero, svincolato dalle imposizioni date dalla classicità del genere; lo fa per ricordare ancora una volta come in appena sedici anni, quelli che separano le due pagine, due mondi che dopotutto si conciliano nelle loro intenzionalità creative, siano allo stesso tempo altrettanti esempi di due galassie destinate a espandersi e ad allontanarsi nello spazio-tempo. Anche qui il pianista tedesco non smentisce i caratteri del suo programma, poiché la lettura della Sonata lisztiana è votata a un ennesimo “guardare-in-avanti”, prefigurando, anticipando, facendo da antesignano rispetto a ciò che verrà dopo e che Schliessmann, e non possiamo certo dargli torto, identifica in Skrjabin. Ma andiamo per ordine. La visione che il pianista germanico fa affiorare della Sonata di Liszt non solo è votata a una debita monumentalità della forma (elemento ereditato da un passato, soprattutto schumanniano), ma si basa su un suono che risulta sempre più circoscritto in esso, ossia esaltando il suono singolo come dato autoreferenziale, come cellula del tutto autonoma che si confronta con le altre cellule che la precedono e con quelle che la seguono. Un suono, dunque, decisamente votato a una modernità che se da una parte verrà approfondito dal pianismo brahmsiano (quello che affascinerà Schönberg), dall’altra verrà affrontato proprio dalla visionarietà skrjabiniana, il cui pianismo, insieme con quello debussyano, esplora fino all’essenza l’elemento cellulare dato dalla concezione armonica che si trasforma acusticamente in una dimensione a se stante e che riesce allo stesso tempo a compenetrarsi, a livello matematico mi viene in mente la teoria degli insiemi, nelle altre dimensioni timbriche che la circondano e di cui fa necessariamente parte.

Aleksandr Skrjabin con la moglie Vera Isakovic, ripudiata subito dopo il viaggio di nozze a Parigi.

E qui arriviamo al terzo e ultimo disco del programma che fa parte di questa registrazione e che personalmente considero il più intrigante e stimolante. Schliessmann di Skrjabin ha voluto proporre, all’insegna di un viaggio all’interno del suono destinato a trasmutare, la Sonata n. 3 op. 23, lo Studio n. 1 op. 2 e lo Studio n. 12 op. 8, i Preludi n. 1, 3, 9, 10, 13, 14 op. 11, i Preludi n. 3 & 4 op. 16 e i Preludi n. 1 & 2 op. 27, i Preludi n. 2 & 3 op. 37 e i Preludi n. 2 & 4 op. 51, le Due danze op. 73 e, per finire, i Cinque preludi op. 74. Se, per dirla con Francesco Bacone, la Fantasia schumanniana è data dalla pars construens fornita da Clara Wieck, la Sonata skrjabiniana è modellata sulla pars destruens di cui fu artefice Vera Isakovic, la sciagurata consorte del compositore russo, il quale si rese conto fin dal viaggio nuziale in quel di Parigi nel 1897 di aver fatto un tragico errore nell’averla sposata. Così, se la Fantasia musicalmente è parte aggregante, la Sonata al contrario è votata a una dimensione disgregante.

Tale disgregazione è già un tentativo di scarnificare il suono, di renderlo conchiuso in sé attraverso un processo di legittimazione timbrica in cui il fraseggio tende già a frammentarsi, a “settorizzarsi”, oltre ad essere, sebbene nella sua prepotenza emotiva, sempre più diafano, rarefatto, quasi sospeso sull’abisso del nulla. Nella sua lettura, Schliessmann tende a recuperare invece una liceità formale che permette di manifestare ancora una sorta di “speranza”, in modo che il fraseggio sia più fluido, meno “accidentato”. Questo non significa che sia in atto nella sua interpretazione un ripensamento rispetto alla visione del “guardare-in-avanti”, ma rappresenta un riconsiderare in prospettiva ciò che verrà nella poetica musicale di Skrjabin. Così, il pianista tedesco prende a modello la Sonata n. 3 affinché tracci una linea di demarcazione tra ciò che è ancora Romanticismo e la sua fase di trapasso, che nel compositore russo non può essere sobriamente definita tardoromanticismo tout court. La disgregazione, in tal senso, si materializza, a livello dei piani lessicali, nel costrutto e nella sua proiezione, nell’ultimo tempo, quel “Presto con fuoco” che è la tenue esplosione di una continuità che si ricollega a quanto enunciato nel primo tempo della Sonata. Ed è qui che la “riconsiderazione” di Schliessmann trasforma il “Presto con fuoco” in una rampa di lancio attraverso la quale lanciare un missile la cui consistenza espressiva è rappresentata dalle altre opere del compositore russo presenti nel programma discografico in questione. E ciò accade fin dai due Studi inclusi, in cui la materia sonora manifesta già un mutamento in atto in previsione di ciò che è destinato a compiersi nel suo non avverarsi, ossia che Skrjabin sarebbe giunto a toccare l’arcipelago dell’atonalità percorrendo un sentiero differente da quello di Schönberg e degli altri appartenenti alla Seconda Scuola di Vienna. Ciò accade dall’Étude in do diesis minore che appartiene ai Tre pezzi dell’op. 2 (risalenti al 1886-89) e dall’ultimo dei dodici Études op. 8 che sono del 1894-95. Due Studi che per Schliessmann evidentemente appartengono a quel processo di pro-gettualità che getta le basi per iniziare quel determinato percorso alternativo alla modernità, una modernità, sia ben chiaro, che non rinnega però quanto avvenuto in precedenza.

E qui i Preludi presi in esame, quelli appartenenti all’op. 11, all’op. 16, all’op. 27, all’op. 37 e all’op. 51, risultano essere a dir poco idiomatici nella scelta dell’artista tedesco e rappresentano un miracolo di “oscillazione”, un pendolo che passa alternativamente tra ciò che è ancora passato (op. 11 n. 9 - op. 16 n. 3 - op. 27 n. 2 - op. 37 n. 3) e ciò che è già futuro (op. 11 n. 3 - op. 27 n. 1 - op. 51 n. 2 & n. 4). A fronte di una tale scelta che intende mostrare il Giano bifronte skrjabiniano, può e deve apparire del tutto scontato il fatto che il grande passo finale è rappresentato per il pianista tedesco dalle due ultime composizioni pianistiche del compositore russo, ossia le Deux Danses op. 73 e i Cinq Préludes op. 74, entrambe risalenti al 1914, vale a dire un anno prima della sua morte. Queste due pagine sono, come si sa, intimamente collegate e rappresentano, come evidenzia Schliessmann con la sua lettura, le propaggini ultime di quella tensione romantica concepita all’interno della sua tradizione estetica. Certo, soprattutto l’op. 74 rimanda necessariamente ai coevi Sei piccoli pezzi op. 19 di Schönberg, emblema di quel processo di dissoluzione armonica che porterà ineluttabilmente al concretarsi della serialità, ma sia l’op. 73, sia l’op. 74 non vantano le medesime finalità, in quanto Skrjabin, al di là degli intenti mistici a cui erano destinate queste sue due ultime opere pianistiche, sono delle estensioni, degli allungamenti di un passato che certo guarda avanti, ma non è ancora futuro, come invece già lo è per la risolutezza radicale l’op. 19 schönbergiana. Ecco perché l’interpretazione che fa il pianista germanico segue questa linea “prudenziale”, mai spinta negli eccessi formali, e questo vale soprattutto per i Cinq Préludes, visto che la loro enunciazione mira quantomeno a risultare “nostalgica”, vale a dire di un passato, nella sua tradizione, che avverte il momento del mutamento, del trapasso, di una fine che non può più essere rimandata (in tal senso, la dimensione timbrica che Schliessmann fornisce nel secondo Preludio op. 74 è squisitamente evocativa).

Alban Berg in una fotografia scattata nel periodo in cui compose la Sonata op. 1.

Nostalgia si è detto. Quindi, per concludere il suo programma dedicato alla trasmutazione romantica nel pianoforte, trasmutazione dal sapore a tratti alchemica, Schliessmann mette mano alla Sonata di Berg, la quale, tanto per rimarcare le finalità estetiche della registrazione in questione, non viene affrontata nella sua “radicalità”, ma come segno di un qualcosa che si è ormai perduto, un’orma d’antica pietra che vuole essere miliare, ossia fare da spartiacque tra la visione (tardo)romantica e quella postromantica. Seguendo questo solco, trovo che Schliessmann, a livello pianistico, non si discosta da quanto Karl Böhm fece a livello direttoriale affrontando il Wozzeck bergiano, non considerandolo quindi come una creatura espressionista, ponte sospeso verso la Lulu, ma come espressione ultima di un tardoromanticismo che fatica ad esalare l’ultimo respiro.

Uno dei nudi femminili di Egon Schiele, simbolo di morte e putrefazione.

Da qui, chi ha nelle orecchie la lettura fatta, tra gli altri, da Glenn Gould di questa Sonata, si prepari a un’esecuzione da parte del pianista tedesco nella quale le poche cellule motiviche che la animano non vengono mai esasperate, portate a un punto di tensione prossimo alla rottura, ma concepite come un ripudio alla frammentarietà, un guardare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro, anche perché l’op. 1 stesso è in fondo un atto di riconoscenza nei confronti di quella tradizione (la Sonata risale al biennio 1907-08, per poi essere rivista dall’autore nel 1920) che tende ormai a sfaldarsi (e in ciò seguiamo di parallelo il percorso coevo fatto dallo stesso Skrjabin in quel primo decennio a livello sonatistico). Schliessmann così usa la paletta di una passione che però ormai sa di consumato, di prossimo alla putrefazione (i nudi dipinti da Egon Schiele dicono forse qualcosa?), incastonando un atto supremo, un corollario che chiude idealmente il cerchio del suo viaggio verso il funerale del Romanticismo, restituendo un’insospettata dolcezza evocativa, un finissimo sudario con il quale avvolgere il cadavere, in modo da poterlo preservare dalla corrosione del tempo e della memoria. Così sia.

Il pianista tedesco Burkard Schliessmann, protagonista della registrazione Divine Art.

La presa del suono è stata effettuata in tre momenti diversi da altrettanti ingegneri (si va dal 1990 fino al 2021), senza che però si possano notare squilibri timbrici e dinamici nell’uso del pianoforte, rigorosamente sempre uno Steinway Piano D. Quindi, la dinamica risulta sempre essere rocciosa, ma allo stesso tempo sensibile e attenta nel restituire le debite sfumature della microdinamica; il palcoscenico sonoro ricostruisce adeguatamente lo strumento a una discreta profondità spaziale, restituendone una piacevole altezza nel suono, oltre a riempire lo spazio tra i diffusori. Anche l’equilibrio tonale e il dettaglio non vengono meno, con il primo sempre preciso nel rendere il registro grave e quello medio-acuto sempre distinti e mai sfuocati, e con il secondo che evidenzia una notevolissima matericità nella resa fisica del pianoforte.

Andrea Bedetti

Busoni-Schumann-Liszt-Scriabin-Berg – At the Heart of the Piano

Burkard Schliessmann (pianoforte)

3CD Divine Art dda 21373

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5