Probabilmente, non esiste un altro compositore nella storia della musica come Franz Schubert al quale possa essere accostato il gioco delle maschere di pirandelliana memoria. E più lo si conosce e si entra nei meccanismi della sua opera, più ci si rende conto di come il sommo artista viennese possa musicalmente incarnare personaggi come Vitangelo Moscarda, Enrico IV, Adriano Meis, garanti di molteplici realtà e verità che si assommano e si annullano vicendevolmente. E questo perché al di là di un’apparente semplicità, la musica schubertiana è intessuta di una complessità, di una multiformità che buona parte della letteratura critica del secondo Ottocento ha voluto negare, annichilire, depauperare, dando vita a un’immagine del compositore che è l’emblema stesso di uno zuccherificio in stile Biedermeier e di cui le nefaste e orripilanti conseguenze si sono poi ramificate nell’immaginario collettivo, al punto da dare vita, nel corso del secolo scorso, a deliranti risultati a livello di diffusione popolare (un esempio per tutti è dato dalla lacrimevole commediola cinematografica Angeli senza paradiso, diretta nel 1970 da Ettore Maria Fizzarotti, che a sua volta riprende un film austriaco del 1933 dallo stesso titolo di Willi Forst, con Al Bano (sic) nei panni di Schubert e con Romina Power in quelli della sedicente contessina Anna Roskova).

Questo perché, dopo la morte di Schubert, che segue di un anno quella di Beethoven, si cercò di imporre, sulla falsariga di quanto si era già fatto nei confronti di Mozart, un’interpretazione riduttiva e conciliante, capace di far apparire il musicista viennese quale campione dell’intimità e della banalità borghese dell’epoca, emissario supremo della tenerezza lirica e sentimentale, dando luogo, allo stesso tempo, a una sistematica rimozione del lato oscuro, distorto e profondo della sua personalità sostituendolo con un tipico cliché ottocentesco che ha portato all’annosa e perniciosa immagine oleografica di “musicista-sfortunato-povero-incompreso” da inserire nelle pagine ideali di un alternativo Cuore deamicisiano. In realtà, come hanno poi dimostrato studi e ricerche in ambito sociologico e psicoanalitico, senza dimenticare l’evoluzione del contributo musicologico, Schubert e la sua musica sono da annoverare e sistematizzare in scenari ben più complessi e articolati, a cominciare da un’inevitabile e affascinante interpretazione, come si è già detto all’inizio, in chiave pirandelliana.

Mi ha sempre affascinato la definizione che Thomas Mann diede di Schubert e della sua musica in un celebre passaggio del Doctor Faustus attraverso le parole del suo protagonista Adrian Leverkühn, «Cercava invece il genio bifronte [è forse quindi esagerato evocare il pirandelliano “gioco delle parti” di fronte a tale definizione, N.d.A.?], sempre toccato dal soffio della morte, di Schubert, preferibilmente dove questi conferisce la più alta espressione a una fatale solitudine, non ben definita ma inevitabile». E non è certo un caso, in tale ottica, il fatto che questo passaggio del capolavoro manniano sia stato ripreso da un sensibile e attento psichiatra come Edoardo Borgna nel suo saggio Come in uno specchio oscuramente, in cui la malattia, il disagio di un’instabilità mentale fanno da sottofondo a un modello di espressività, di creatività, di stra-ordinarietà che va ad alterare la stabilità dell’ordinario.

Ancor più di Mozart da un lato e di Beethoven dall’altro, Schubert è l’artista che, all’avvio del XIX secolo, è capace di incarnare idealmente quel senso di smarrimento che introduce l’uomo al concetto di modernità, facendo scaturire dalla sua dimensione esistenziale e dalla sua opera musicale quella proiezione che porta la proteiforme definizione di “non-appartenenza”, la quale rende sfuggevole, indistinto, sfuocato tutto ciò che tocca, come se fosse un re Mida del patologico. E come Mozart, ma su un piano diverso, è come se Schubert fosse stato affetto da una particolare forma di progeria che, invece di intaccare i tessuti e l’organismo portandoli a un veloce e inarrestabile deterioramento, avesse attecchito la sua dimensione interiore, la sua psiche, obbligandolo a guardare e a rappresentare la realtà circostante, l’oggetto al di fuori di sé, come un essere già prigioniero della caducità delle cose. Se così non fosse, come dovremmo considerare il fatto che il compositore viennese a soli diciotto anni fu artefice di quella pagina intrisa di macerazione e di putrefazione che è il quintetto Der Tod und das Mädchen?

Ma la “non-appartenenza” ha anche il potere di generare il virus dell’apparenza, di colui che non può essere ed esistere nella sua non-omologazione, ma che può soltanto apparire agli occhi e alle menti altrui per come dev’essere ricondotto a una più tranquillizzante omologazione (e ciò ci riporta, come già affermato, all’opera mistificatrice effettuata da buona parte della letteratura critica ottocentesca nei confronti di Schubert e di cui ne ha risentito ancora in parte quella novecentesca). Un processo di omologazione che scaturì inevitabilmente dal bisogno di “irreggimentare” l’immagine di un musicista votato alla solitudine, alla “devianza sessuale” (Schubert è stato fondamentalmente un omosessuale, visto che oltre a frequentare “giovani pavoni”, come venivano chiamati quei ragazzi di vita che si travestivano da donne e che si vendevano dopo il tramonto nei dintorni di Vienna, nel 1826 andò a vivere con il poeta gay Johann Mayrhofer, il quale gli fornì i testi per una cinquantina di Lieder, per poi diventare l’amante del celebre baritono e compositore Johann Michael Vogl), a una trivialità (è nota la sua predisposizione al bere e tendenzialmente all’alcolismo) che mal si conciliavano con l’idea e la rappresentazione di un artista che avrebbe dovuto incarnare un preciso momento storico e culturale, quello rappresentato per l’appunto dal Biedermeier, prima che questo movimento culturale e stilistico assumesse connotazioni decisamente dispregiative nel corso della seconda metà dell’Ottocento.

Indubbiamente, tale operazione fu facilitata anche dal fatto che la maggior parte della produzione schubertiana, caso più unico che raro nella storia della musica, non venne mai eseguita nel corso della breve vita del suo autore; a tale proposito, non dobbiamo mai dimenticare che la predisposizione all’Unvollständigkeit, all’“incompiutezza” tipica nella sua ricerca creativa è figlia di quella necessità di “proiettare”, di “immaginare” la stessa volontà creativa, data non solo dall’instabilità formale nel quale riversarla, ma anche dal fatto che Schubert fu costretto a sviluppare solo interiormente l’evoluzione del suo stile e della sua visione musicale data l’impossibilità di poterla ascoltare fisicamente (quanti autori non ebbero la fortuna di vedere eseguita nessuna sinfonia da loro composta come accadde per il compositore viennese?).

La cover del CD Da Vinci Classics registrato da Ingrid Carbone.

Questa “instabilità”, questa continua mutazione nella volontà compositiva, tale da portarci a considerare l’incompiutezza schubertiana come una rappresentazione di “altra” compiutezza, non dev’essere mai disgiunta anche quando si ascoltano quelle opere apparentemente “minimali” che appartengono al repertorio pianistico, come nel caso dei Moments musicaux (op. 94) e degli Impromptus (op. 90 e op. 142), i cui titoli furono dati dall’editore e non dal loro autore (ad essere precisi Maximilian Joseph Leidesdorf chiamò i primi, con un francese a dir poco approssimativo, “Momens musicals”). Brani, più precisamente l’op. 90 & l’op. 94, che sono stati recentemente registrati dalla pianista calabrese Ingrid Carbone per l’etichetta Da Vinci Classics in un CD dal titolo L’enchantement retrouvé e la cui lettura porta a fare alcune considerazioni, anche in ambito generale.

I Moments musicaux, con gli Impromptus, rientrano nelle grandi opere della maturità schubertiana, tenuto conto che furono concepiti nel corso della fase più avanzata della parabola creativa di Schubert, ossia fra il 1823 e il 1828. Ciò che importa sapere non è tanto se tali pagine debbano essere inscritte nella sfera di una possibile e presunta unitarietà d’intenti o se al contrario debbano essere considerati brani sciolti, il cui accostamento fu dovuto solo da motivi squisitamente editoriali; qualunque sia la verità, ciò che preme maggiormente è il fatto che Schubert fu in grado di dimostrare attraverso di essi come il pianoforte fosse ormai uno strumento capace di esprimere con poche, sintetiche tracce, una sensazione, uno stato d’animo o un pensiero fugace, sia di gioia sia di tristezza, ossia di evidenziare uno dei messaggi che stavano maggiormente a cuore all’estetica romantica, vale a dire la capacità, ma sarebbe meglio dire la “sintonia”, attraverso la quale l’artista doveva dare vita plasticamente alla visione fuggevole, fugace di cui era intriso in quel preciso momento (l’annoso “Fermati attimo, sei bello!” di faustiana memoria). E poco importava se questo fulminante atto creativo poteva e doveva rientrare nell’alveo della frammentarietà (e, nel caso di Schubert, nel concetto proiettante dell’Unvollständigkeit), forma tangibile di quell’essenzialità primigenia capace di collegare idealmente i canoni del pensiero romantico, a cominciare dalle riflessioni di un Friedrich Schlegel che, esponendo le ragioni dello Spirito in chiave artistica, parlava espressamente di un qualcosa «vibrante di brevi colpi», con le istanze surrealiste di un Breton e di un Aragon di un secolo dopo, le quali annullano indissolubilmente la presenza della realtà, dell’oggettività quale “bacino di carenaggio” nel quale si può raccogliere e formare l’atto creativo, a vantaggio esclusivo di un’interiorità annegata nel mare onirico dell’Io. Ecco perché, alla luce di ciò, non si commette di certo un atto illegittimo il considerare sia i Moments musicaux, sia gli Impromptus un momento creativo «vibrante di brevi colpi» che si prefigge il compito di fissare l’attimo, l’istante.

Certo, Schubert lo fa con la sua solita capacità impregnata di incanto/disincanto, di purezza/sconcezza, di gioia/sofferenza (il Giano bifronte!) che pone inevitabilmente problemi di lettura e di esecuzione non indifferenti da parte dell’interprete. E questo anche perché c’è un ulteriore aspetto del quale tenere conto; al di là del principio relativo alla loro momentaneità, l’op. 94, l’op. 90 & l’op. 142 esprimono un soggiogante fascino dato dal fatto che il loro esistere, il loro essere forma sonora resa con l’atto dell’esecuzione/ascolto rappresentano solo il segmento fisico del loro esistere. In fondo, i Moments musicaux e gli Impromptus sono delle linee che noi riusciamo a cogliere in quanto segmenti di tali linee solo quando emergono fisicamente e acusticamente all’improvviso, rendendosi manifesti nella loro oggettività scaturendo da un’immanente soggettività che prima ancora di essere suono esteriore (i segmenti) è già suono interiore (le linee). È come se i “brevi colpi” evocati dal pensiero schlegeliano si realizzassero in materia in Schubert tramite questi fulminei segmenti capaci di ribellarsi alle linee interiori di cui fanno parte, materia fatta di ribellione, di realizzazione quale atto apparentemente proibito, sfida in nome di una concisione che va a posizionarsi inauditamente accanto al profluvio temporale/spaziale dato dalle concomitanti Sonate pianistiche D.958, D.959 e D.960.

Della pianista cosentina Ingrid Carbone mi sono già occupato, in sede di recensioni su questa rivista, già in occasione dell’uscita del suo disco dedicato a Liszt, sempre per la Da Vinci Classics, e quando mi ha fatto sapere che era in procinto di registrare l’op. 90 & l’op. 94 di Schubert su un pianoforte Bechstein, ho pensato che fosse un azzardo, una sfida che avrebbe potuto avere, da un punto di vista timbrico e del fraseggio, un esito insoddisfacente dato che la meccanica di questo strumento non garantisce quella “fluidità” necessaria per affrontare e rendere al meglio queste pagine, come avviene invece con uno Steinway o un Fazioli. Ma conoscendo la perizia tecnica e artistica della pianista, ho ascoltato con curiosità e interesse la sua lettura, a cominciare dai quattro Impromptus op. 90, i quali, è bene ricordarlo, sono degli schizzi pianistici che non hanno alcun obiettivo in senso “descrittivo”, in grado di sostenere la loro fuggevole intelaiatura attraverso un progressivo sviluppo di poche idee musicali e con il sapiente uso delle risorse armoniche estrapolate, sviscerate dal pianoforte, poiché in questo caso il “poeta” non è l’artista ma il suo strumento che si erge ad artefice magnum di un rappreso affiorare sonoro, fogli d’album in cui le immagini sono date da fuggevoli pensieri, emozioni dissociate, visioni diafane.

La pianista calabrese Ingrid Carbone protagonista del CD.

Come accade nel primo Improvviso in do minore che Ingrid Carbone trasforma inizialmente in una sorta di dolente marcia funebre che si manifesta dal nulla sebbene sia già presente (il segmento che si ribella e si distacca dalla linea), in cui le note sono rese come dei passi che si alternano nel corso di un mesto corteo, con lo sguardo rivolto verso il basso. Il Bechstein dona la dovuta oscurità (la mano sinistra fruga tra le tenebre interiori) e il pulsare degli accordi, accuratamente détachés, lasciano poi, improvvisamente e dolcemente, sbocciare lo sviluppo che ha la capacità di rasserenare, con il corteo funebre che si dissolve sotto l’impulso timbrico che la pianista calabrese infonde, anche se le ombre (sempre la mano sinistra) non possono staccarsi dal tessuto espressivo, quasi fossero un indissolubile Doppelgänger. La forma tripartita, in ciò, è implacabile e il ritorno del tema iniziale è filosofia fatta con il martello, senza che però la fluidità, la liquidità del gesto vengano mai meno. Nel secondo Improvviso, in mi bemolle maggiore, la fluidità del tocco si coniuga, nell’interpretazione della pianista, con una raffinata agogica che non cede alla spettacolarità (una trappola, questa, in perenne agguato nella sezione centrale, quella detta “all’ongarese”), trasformandosi in un dipinto sonoro in cui la disciplina del ritmo lascia spazio a microscopiche dilatazioni e contrazioni di un respiro che si fa immagine nella sua cristallinità melanconica. Il terzo Improvviso, in sol bemolle maggiore, viene reso giustamente in modo tenue da Ingrid Carbone, con un fraseggio discreto, mai disgiunto dalla sottile e dolce minaccia del registro basso, pallida irradiazione di un sentire destabilizzante che rompe idealmente l’atmosfera sognante del brano, fremente in certi punti, accorata emanazione di un ésprit romantico che, cosa buona e giusta, non si stempera in una perniciosa smanceria, mentre l’ultimo Improvviso in la bemolle maggiore mostra una lettura in cui predomina una liquidità tattile, con la tastiera del pianoforte che trasmuta nel famoso tema principale in un ruscello luminescente, una cascata educata in cui sopraggiunge sempre, e non potrebbe essere altrimenti, un pensiero oscuro (lo “specchio oscuro” evocato da Edoardo Borgna nel suo saggio… ) annunciatore della fine incipiente, messaggero di consolanti tenebre nelle quali trovare la vera luce.

Con questa “liquidità” è come se l’artista cosentina abbia voluto ricordare come Schubert intendeva il concetto di pianismo; un pianismo esente dalle leggi del concertismo, agli antipodi sia dal modo di trattare il pianoforte come faceva Liszt, così come lontano, lontanissimo, da quel virtuosismo pacato e crepuscolare emanato da Chopin, in quanto la sua priorità stava nel far “cantare” lo strumento. Una “cantabilità” che raggiunge per l’appunto il suo vertice proprio con gli Impromptus e i Moments musicaux, la cui “comunicabilità” viene resa interiormente grazie al saperli cantare con le dita, perché solo il canto, reso con un’altra voce, può esprimere la pletora di emozioni e di sensazioni che si annidano in queste brevi pagine.

E il canto, necessariamente, in Ingrid Carbone continua nei Moments musicaux. Fin dal primo brano, il Moderato in do maggiore, il cui disegno melodico non viene reso con la dovuta e solita asciuttezza, ma con un fraseggio che tende a ingentilire, ad aggraziare la linea priva del sostegno armonico. L’Andantino in la bemolle maggiore viene poi reso come se fosse una riflessione sonora, con un timbro stratiforme che dà vita a un chiaroscuro dall’esistenza autonoma, svincolato dal gesto interpretativo, il cui sapore richiama una sfuggente desolazione interiore, cullata da una speranza remota destinata a rimanere tale sotto le dita di un racconto di cui sembra di conoscere la parola fine ancora prima che il tutto abbia inizio. In ciò, la pianista calabrese predilige delle sonorità rapprese, conchiuse, che portano a leggere questa pagina, facendo un paragone pittorico, non sulla falsariga di un quadro impressionista, ma di un dipinto votato al puntillismo. Non manca la dimensione di un’allegrezza artefatta, una felicità ironica date dall’Allegro moderato in fa minore, simile a una pantomima di una marionetta uscita dal teatro di Heinrich von Kleist. Il cantabile che Ingrid Carbone poi instilla nel Moderato in do diesis minore sembra addolcire la severa tessitura che rimanda inevitabilmente al Kantor (e questo soprattutto nella ripresa finale del tema) mentre al contrario la melodia centrale è resa in modo meno “folkloristico”, ma con nuances che fanno trasparire una bonaria severità. E se l’Allegro vivace in fa maggiore vede il Bechstein trasformarsi in un talamo infuocato, con le canaline di scolo che riversano inaspettate passionalità, il finale Allegretto in la bemolle maggiore (la stessa tonalità che chiude l’op. 90) è un passo d’addio che avrebbe fatto sorridere Giovanni Arpino, come nel suo omonimo romanzo, in cui Schubert sembra avviarsi ad essere il protagonista di quel corteo funebre tratteggiato nell’Impromptu iniziale dell’op. 90, in cui il suono espresso ce lo mostra ancora titubante se staccarsi dal corteo funebre smettendo i panni dello spettatore per assumere quelli del caro estinto. Qui c’è tutto: tenerezza, nostalgia, il desiderio di voltarsi indietro un’ultima volta, la massa di ricordi che si alternano vorticosamente. Un sublime drappo funereo che sembra riecheggiare le ultime parole che Pavese scribacchiò prima di addormentarsi per sempre: «Perdono tutti e che tutti mi perdonino».

La presa del suono è stata effettuata da Marcello Malatesta, ma il plauso deve andare soprattutto al lavoro di mastering effettuato da Corrado Ruzza, il quale ha saputo esaltare adeguatamente il timbro del Bechstein e il tocco di Ingrid Carbone. La dinamica è granitica, rocciosa, ma allo stesso tempo veloce e con gli armonici che decadono correttamente (e questo vale soprattutto per il registro grave); il palcoscenico sonoro vede lo strumento inserito spazialmente senza trovarsi troppo in profondità, con un equilibrio tonale rispettoso degli opposti registri e con un dettaglio che mette a fuoco, con una notevole dose di nero, la matericità del pianoforte.

Andrea Bedetti

 

Franz Schubert – L’enchantement retrouvé

Ingrid Carbone (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00253

 

Giudizio artistico 4,5/5

Giudizio tecnico 4/5