Flauto, arpa e musica francese. Enumerando in senso geometrico questi tre angoli si viene a creare un perfetto triangolo equilatero, tale è la sintonia incastrante che formano. E facendo un debito parallelo con le altre scuole europee, a partire dagli ultimissimi decenni dell’Ottocento, non si riscontra in nessun’altra irradiazione compositiva, a livello delle varie nazionalità, un risultato altrettanto affascinante e convincente. Non c’è nulla da fare, ciò che i compositori francesi fecero, in ambito cameristico, con il flauto e con l’arpa è un unicum che merita di essere conosciuto e apprezzato maggiormente, anche per via di certe affiliazioni non certo dirette, ma in veste di illuminanti rimandi che si possono agganciare nei confronti della poesia, della potente narrazione letteraria e dell’arte pittorica che si pongono in tutto il corso del Novecento.
Il problema, però, è dato dal fatto che, al di là di quanto crearono i soliti numi tutelari, ossia Saint-Saëns (Fantaisie per flauto e arpa, op. 124), Fauré (Impromptu per arpa, op. 86 e Une châtelaine en sa tour per arpa, op. 110), Debussy (Sonata n. 2 per flauto, viola e arpa, le Chansons de Bilitis per due arpe, due flauti, celesta e voce recitante e le Danses per arpa cromatica), Ravel (Introduction et allegro per arpa, flauto, clarinetto e quartetto per archi, Vocalise-Étude en forme de Habanera per flauto e arpa), il resto della produzione d’impronta francese per arpa viene considerato dalla stragrande maggioranza degli ascoltatori territorio di emeriti carneadi. Il che rappresenta un grosso errore, come ben dimostra un recentissimo disco, dal titolo Echos du temps. Voyage à travers la musique française du 20e siècle pour flûte et arpe e pubblicato dalla Da Vinci Classics, che vede il duo cameristico formato dalla flautista Désirée Del Santo e dall’arpista Alice Belardini Pini eseguire composizioni per tale organico di autori quali Jean-Michel Damase, Jules Mouquet e Jean Cras, nomi che non vengono solitamente masticati e digeriti con dimestichezza, se non da parte degli aficionados.
Per la precisione di Damase vengono presentate la Sonata per flauto e arpa e la Pavane a cinq temps, di Mouquet il Divertissement Grec, op. 23 e di Cras la Suite en duo. Come fa giustamente notare Giulia Ferdeghini nel testo di presentazione al disco, è basilare comprendere come la musica francese della seconda metà dell’Ottocento, grazie all’acquisizione delle innovazioni tecniche elaborate da Theobald Böhm, riuscì ad esaltare uno strumento come il flauto mediante il fondamentale contributo fornito da didatti e musicisti quali Paul Taffanel e Henri Altès, che si succedettero alla cattedra di flauto del Conservatorio di Parigi. Soprattutto Taffanel, attraverso il suo metodo e il suo stile esecutivo, contribuì in modo determinante al miglioramento delle capacità timbriche ed interpretative del flauto, formando una nuova generazione di flautisti-solisti, anche grazie al prezioso apporto dato da altri due esimi didatti come Philippe Gaubert e Marcel Moyse. Grazie ad essi, la scuola flautistica francese fece decisivi passi in avanti, affinando il trattamento dell’emissione e conferendo allo strumento nuova sonorità, potenza ed espressività.
È altrettanto indubbio, però, che al di là dei contributi forniti dai maggiori compositori francesi già citati, il genere cameristico formato da flauto e arpa fu in grado di svilupparsi nei primi decenni del Novecento in terra d’Arianna, in quanto il timbro e le peculiarità tecniche dello strumento a fiato con quelli dello strumento a corde pizzicate seppero fondersi con le caratteristiche di una scuola compositiva capace di esaltarle pienamente assieme, come dimostrano, appunto, i brani dei musicisti che sono stati eseguiti dalle due interpreti in questa registrazione.
Un caso emblematico è quello che riguarda il bordolese Jean-Michel Damase (1928 - 2013) che nacque in una famiglia di affermati musicisti, visto che il padre Albert fu compositore e insegnante di armonia e la madre, Micheline Khan, raffinata arpista (oltre a vantare amicizie nel campo di artisti e scrittori, tra i quali la grande scrittrice Colette), la quale trasmise al figlio l’amore verso questo strumento. Dapprima, Damase ebbe la fortuna di studiare con il leggendario Alfred Cortot, per poi passare nella classe di pianoforte di Armand Ferté al Conservatorio di Parigi, oltre a studiare composizione, tra gli altri, con Marcel Dupré. Nel 1947 si aggiudicò il canonico Grand Prix de Rome per la composizione con la cantata Et la belle se réveilla. Immune da tentazioni avanguardistiche legate ai nuovi linguaggi musicali, le sue composizioni, soprattutto quelle appartenenti al repertorio cameristico, sono all’insegna dell’impressionismo e di un raffinato neoclassicismo. E che il flauto e l’arpa fossero i suoi strumenti preferiti, viene testimoniato dal fatto che circa un terzo della sua produzione da camera ne vede l’uso abbinato.
La Sonata n.1, che risale al 1964, rappresenta una delle composizioni più celebri e acclamate della letteratura cameristica del Novecento francese. Al di là di un’apparente semplicità e classicità della scrittura, si cela infatti una difficoltà tecnica capace di mettere in evidenza le potenzialità espressive dei due strumenti, soprattutto dell’arpa, strumento che Damase conosceva assai bene grazie alla madre, per la quale Fauré aveva appositamente creato quella pagina virtuosistica che è Une châtelaine en sa tour. Tale capacità di sfruttare appieno le possibilità timbriche dell’arpa si riflette anche nell’esaltare il costrutto espressivo del flauto, la sua propensione ad un suono agile e cangiante nei registri, il che permette a tutta la composizione, articolata in quattro tempi, di evidenziare una felice melodiosità (siamo ormai nel 1964, non dimentichiamolo) e una felice paletta timbrica.
La Pavane a cinq temps è invece una brevissima pagina del 1996; qui, il neoclassicismo del compositore bordolese si evidenzia nella preziosità stilistica della scrittura, in cui la dimensione della danza rinascimentale viene stilizzata nel suo compimento nel tempo contemporaneo, in cui si dipanano da una parte gli arpeggi dello strumento a corde e dall’altra una suadente melodia cesellata dallo strumento a fiato.
A livello compositivo, il parigino Jules Mouquet, nato nel 1867 e morto nel 1946, non si discosta molto da quello di Damase, nel senso che anch’egli si tenne lontano dalle varie pruderies dei nuovi linguaggi musicali. Figlio di un modesto boucher, per nostra fortuna lasciò da parte i coltelli e le bistecche di manzo paterne per appassionarsi alla musica, entrando a diciannove anni nella classe di flauto di Henri Altès, oltre a studiare composizione con Théodore Dubois al Conservatorio parigino. Oltre a diventare un apprezzato compositore, riuscì a diventare docente di una delle classi più ambite e ammirate, quella di armonia, sempre nello stesso conservatorio della capitale francese. Impregnato come una spugna di neoclassicismo gallico, all’insegna di un acceso antiwagnerismo, anche Mouquet riuscì ad aggiudicarsi il tanto sospirato Prix de Rome con la cantata Mélusine, il che gli garantì gloria e tranquillità economica per potersi dedicare poi con tranquillità all’insegnamento e alla composizione. Accanito appassionato di studi greci, il musicista parigino riversò la sua ammirazione per la mitologia ellenica nella sua musica, come dimostra l’opera più famosa, La Flûte de Pan, di cui esiste la versione per flauto e orchestra e quella per flauto e pianoforte, oltre che in pagine come Danse Greque, Pan et les Oiseaux e appunto questo Divertissement Grec, composto nel 1908 e che si dipana in tre tempi, ognuno dei quali prende il nome degli altrettanti modi armonici greci, ossia Lydienne, Dorienne e Phrygienne. Questi “modi-tempi” divengono nella pagina di Mouquet proiezioni stilistiche che si articolano in processi tecnicamente assai ardui sia per il flauto, sia per l’arpa, attraverso una scansione ritmica che disciplina ed esalta il costrutto del fraseggio, sempre sinuoso e coinvolgente, anche quando si fa concitato, come accade nel movimento centrale.
In un certo senso, le vicende esistenziali del bretone Jean Cras, nato e morto a Brest (1879-1932), si equivalgono con quelle di un altro conterraneo, Tristan Corbière. Se il primo fu musicista e il secondo grande, grandissimo poeta della stagione simbolista (leggere Les amours jaunes è un obbligo per chi ami l’arte dei versi), entrambi furono appassionati uomini di mare, sperimentato e vissuto come vera e propria categoria filosofica. Cras fu amico del “parnassiano” Henri Duparc, ergo sodale della visione musicale di César Franck, al punto che lo stile compositivo del bretone risente chiaramente del sommo compositore e organista belga. Quindi, assoluto rigore formale del linguaggio tonale sul quale si ergono tessiture articolate, squisitamente raffinate. Ne è chiara testimonianza la sua Suite en duo, distribuita in quattro tempi, a mio modo di vedere il brano più convincente e coinvolgente di tutto il programma di questo disco. Questo perché la capacità compositiva di Cras riesce a far dialogare in modo illuminante i due strumenti, permettendo all’arpa di proiettare un discorso che definire di semplice accompagnamento è a dir poco avvilente. Inoltre, l’afflato virtuosistico non diviene mera espressione tecnica fine a se stessa, ma si apre a continue aperture d’inventiva melodica, attraverso la quale lo strumento a fiato e quello a corde esaltano il fitto, fittissimo fraseggio.
Altrettanto convincenti sono state Désirée Del Santo e Alice Belardini Pini nella loro lettura di queste pagine cameristiche; prima di tutto il plauso va alla dimensione generale che è stata da loro generata in chiave di esprit musicale, ossia nell’aver saputo restituire quella tipica atmosfera sonora che solo la musica cameristica francese riesce a esprimere. Raffinatezza nei fraseggi, percezione di un suono lussureggiante evocato anche nei ppp, ricerca di una linea melodica mai esasperata (zucchero sì, melassa no), ma sempre in funzione del fraseggio, ottimamente delineato ed espresso con grande naturalezza. Il denominatore comune che contrassegna le pagine di questo programma discografico è all’insegna di un’apparente semplicità dietro la quale, però, le difficoltà tecniche abbondano per entrambi gli strumenti; eppure, le due interpreti riescono sempre a proiettare una capacità diluente, annacquante con la quale smussare le asperità, donare curvature espressive agli inevitabili angoli che il linguaggio musicale propone.
Un altro elemento costitutivo che viene continuamente dimostrato riguarda l’indispensabile dose di affiatamento, senza il quale la delicata costruzione di queste pagine tende inevitabilmente a crollare. Ebbene, il cemento a presa rapida dell’affiatamento che Désirée Del Santo e Alice Belardini Pini riversano sulla complessiva intelaiatura progettuale è tale, che non solo la costruzione non crolla, ma è pronta a sfidare le avversità climatiche date da possibili critiche che qui non possono sussistere o presentarsi. Ciò dimostra anche la chiarezza, una lucidità d’intenti frutto di sensibilità e intelligenza nel saper dosare pesi e contrappesi timbrici, nel saper esplorare la materia sonora senza mai abbandonare il filo esplicativo della matassa compositiva. La loro è stata una scelta programmatica stimolante e intelligente nell’offrire materiale sonoro pochissimo conosciuto, ma che meritava di essere fatto affiorare, per poter apprezzare un genere poco battuto, almeno nel nostro Paese, con un risultato finale che deve giustamente lusingarle.
Assai buona anche la presa del suono effettuata da Riccardo Parrucci, effettuata nel Teatro comunale di Fauglia, in provincia di Pisa. La dinamica è dotata di quell’energia, di quella velocità e di una buona presenza di naturalezza grazie alle quali il timbro elegante dei due strumenti viene adeguatamente esaltato. Anche il parametro del palcoscenico sonoro è convincente: il flauto e l’arpa risultano ricostruiti al centro dei diffusori, a una discreta e piacevole profondità, senza che per questo l’ampiezza e l’altezza del suono ne risultino penalizzati, anche per ciò che riguarda la loro messa a fuoco. Per apprezzare al meglio le tessiture dei due strumenti era necessario ottenere un equilibrio tonale più che valido e anche qui il riscontro è positivo, in quanto il registro del flauto e quello dell’arpa non si sovrappongono mai l’uno sull’altro, ma restano spazialmente distinti e ben riconoscibili, anche quando propongono sottili sfumature timbriche, perfettamente percepibili in fase di ascolto. Il dettaglio, infine, è assai materico, capace di rendere un’immagine piacevolmente scontornata dei due strumenti, che vantano generose dosi di nero, il che conferisce un ascolto che si potrebbe definire “tattile”.
Andrea Bedetti
AA.VV. - Echos du temps. Voyage à travers la musique française du 20e siècle pour flûte et arpe
Désirée Del Santo (flauto) - Alice Belardini Pini (arpa)
CD Da Vinci Classics C00838
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5