Di fronte al poderoso corpus per solo pianoforte, si resta stupiti dal fatto che Johannes Brahms concepì nel corso della propria vita solo due concerti per questo strumento e a chi fa notare che anche Chopin ne scrisse  solo due, come Mendelssohn, che Schumann ne scrisse soltanto uno e che Schubert, altro compositore devoto al pianoforte addirittura nessuno, bisogna ricordargli che la concezione pianistica in Brahms è tale che tutto l’universo musicale del sommo autore di Amburgo gira totalmente intorno a questo strumento, anche se non in modo assoluto come in Chopin (il quale per altro non era avvezzo alla scrittura concertistica, vedasi l’elementare e didascalica linea orchestrale del primo concerto e di parte del secondo). Brahms è il pianoforte, è l’incarnazione stessa del pianoforte perché tutto il suo modo di progettare musica si basa sulla dimensione della tastiera, così come avverrà solo in altri due musicisti dopo di lui, Debussy da una parte e Skrjabin dall’altra, in quanto tutto deve iniziare dal pianoforte anche quando non contempla il pianoforte stesso.

Ma il restare stupiti, quindi, di fronte ai due soli concerti brahmsiani a fronte di una visione estetica consacrata al pianoforte significa anche non considerare nella loro essenza la mole gigantesca di densità che il compositore riversò in essi, trasformandoli di fatto in altrettanti buchi neri capaci di trattenere e assorbire tutto ciò che entra nella loro sfera di azione. E questo perché il concerto in re minore e quello in si bemolle maggiore sono e resteranno per sempre il prima e il dopo della letteratura concertistica, linea di demarcazione, colonne d’Ercole oltre le quali si entra in territori con i quali dovranno fare i conti musicisti come Maurice Ravel, Béla Bartók, Dmitrij Šostakovič, Sergej Prokof’ev (quasi tutti gravitanti nella sfera dell’Est europeo), gli unici in tutto il Novecento storico a mettere al centro della loro produzione concertistica il pianoforte quale strumento di irradiazione compositiva (se si eccettua, forse, il caso di Francis Poulenc, il quale scrisse un concerto per pianoforte, uno per due pianoforti, oltre a quell’opera fuori dal tempo che è il Concert champêtre concepito per clavicembalo e orchestra).

La densità brahmsiana, dunque, che assomma a sé tutti gli affluenti concettuali defluiti nel corso dell’Ottocento (e questo inevitabilmente è più evidente nel Secondo concerto), che annoda, compara, memento a guisa dei posteri (il fugato del terzo tempo del Primo concerto) e tra questi ci sarà un personaggio come Arnold Schönberg, testimone ideale e assoluto della musica brahmsiana nel Novecento. Ecco perché questi due concerti in un certo senso oltre a indicare nuovi sentieri che verranno percorsi più tardi (Schönberg, per l’appunto) rappresentano anche idealmente una “biblioteca dei suoni” dell’Ottocento perché  Brahms dall’alto del suo adorato classicismo ha saputo indubbiamente “archiviare” attraverso la sua musica ciò che era stato detto dalla musica altrui, Bach e Beethoven, e poi Schumann (dopo aver superato lo scoglio edipico, dando alla luce quel capolavoro che è l’op. 23, le Variazioni su un tema di Schumann per pianoforte a quattro mani). Brahms il custode, Brahms il testimone, Brahms il progressivo (sempre Schönberg), Brahms l’assorbitore.

Questo fondamentale aspetto della densità della scrittura e degli intenti espressivi brahmsiani mi è tornato in mente ascoltando la registrazione discografica dei due concerti pianistici effettuata dal giovane pianista beneventano Vincenzo Maltempo (del quale ho già parlato recentemente a proposito della sua registrazione dei 12 Études d’exécution transcendante di Sergej Ljapunov), accompagnato dalla Mitteleuropa Orchestra diretta da Marco Guidarini. Maltempo ha indubbiamente privilegiato nella sua lettura la volontà di far affiorare questo principio della densità, della capacità di evidenziare una linea esecutiva in cui l’essenzialità del messaggio brahmsiano non solo viene preservato e garantito, ma portato a compimento con un pianismo che non è certo quello di Gilels con Jochum, ossia votato su ombrose arcate rocciose, edificate attraverso una glaciale timbrica granitica, scolpita di netto, né quella, tout court, “mediterranea”, assolata, “camusiana”, tornita da arabeschi che tendono a ingentilire, a smussare il costrutto di cui si resero protagonisti, sempre discograficamente, Arrau con Giulini. E non si può nemmeno dire che la lettura di Maltempo si ponga a metà strada tra questi due opposti; semmai, la “terza via” è da cercarsi e fissarsi altrove, ossia in una ricerca fatta in nome di un approccio che è naturalmente legato alla densità di cui si è detto, quello dell’oggettività, del rendere semplicemente (ed è questa l’asperità somma) l’enunciazione brahmsiana quale frutto di un dipanarsi, di uno svolgersi, di un se dérouler in cui ogni punto, ogni sporgenza, ogni flusso vengono portati alla luce e mostrati per ciò che sono.

Sia ben chiaro, oggettività non significa per questo minimalismo o, peggio, economia di mezzi e strumenti, ma soltanto la capacità di decodificare, di dare giustizia a un tipo di lettura che è scevra dei gigantismi falsamente tardoromantici, così come delle esecuzioni pseudopsicanalitiche (vedasi capitolo riguardante il Primo concerto concepito come strumento per esorcizzare il trauma del tentato suicidio da parte di Schumann), ma oggettività come punto di confluenza (la “biblioteca dei suoni” di cui si è detto) e di futura proiezione (sarà un caso ma l’irruzione del tema popolare esposto dall’orchestra nell’Allegro appassionato del Secondo concerto, che conchiude il severo costrutto, assomiglia tanto ai futuri intermezzi popolari e sguaiati dei quali Mahler infarcirà le sue sinfonie), crocevia di quel fatidico “prima e dopo”. Da parte loro Marco Guidarini e la Mitteleuropa Orchestra cercano di assecondare al meglio il pianista beneventano nel confezionare un approdo, un accompagnamento la cui asciuttezza è figlia di quell’oggettività di cui si è detto, senza cedere il passo ad arcate sinfoniche di vasto respiro che sarebbero state ardue da gestire rispetto alle scelte interpretative di Vincenzo Maltempo.

Di buona fattura, infine, la presa del suono con il pianoforte posto correttamente in avanti rispetto alla massa orchestrale senza che si avverta una netta frattura spaziale tra di essi; la dinamica è sufficientemente energica per sostenere l’impatto timbrico dello strumento solista e dell’orchestra. Degni di nota anche il dettaglio e l’equilibrio tonale senza che il pianoforte e l’orchestra tendano a coprirsi reciprocamente nei passaggi più concitati e timbricamente imponenti.

Andrea Bedetti

 

Johannes Brahms – Piano Concertos Nos. 1 & 2

Vincenzo Maltempo (pianoforte) – Mitteleuropa Orchestra – Marco Guidarini

2CD Piano Classics PCL10145

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico 4/5