Si può scrivere una biografia su un uomo e un artista quale fu Arturo Benedetti Michelangeli, ossia uno dei più grandi (e controversi) pianisti del Novecento, dove per biografia significa applicare idealmente l’etimologia del termine stesso, ossia “racconto di una vita”? No, non credo che si possa scriverla poiché il pianista bresciano, del quale quest’anno è caduto il centenario della sua nascita, avvenuta il 5 gennaio 1920, non ebbe una sola vita, ma diverse, e non solo quella dell’uomo e quella dell’artista, ma soprattutto quelle incarnate dalle sue molteplici contraddizioni, quelle fornite dai tanti paradossi, così come quelle date dai suoi modi di essere, al punto da ricalcare la vita letteraria di Vitangelo Moscarda, il protagonista pirandelliano di Uno, nessuno e centomila, come uno specchio sistemato in una stanza piena di specchi, poiché in fondo ABM è stato proprio ciò, uno specchio riflettente e riflesso a seconda delle angolazioni in cui si veniva a trovare di volta in volta, sfuggente, inclassificabile, ingestibile in una possibile ricostruzione della sua personalità, delle sue azioni e dei suoi pensieri, in breve un autentico e meraviglioso mistero repellente a ogni forma di narrazione e di ricostruzione di ciò che è stato. Perché scrivere una biografia su Arturo Benedetti Michelangeli sarebbe possibile soltanto se non fosse Arturo Benedetti Michelangeli.
Certo, si può scrivere, ed è stato fatto (basti pensare al libro di Piero Rattalino), un saggio sulla sua figura di interprete, sul suo rapporto con la musica, sul suo approccio a un repertorio pianistico che a livello ufficiale, in sede concertistica e discografica, è stato assai limitato, ma che in privato è stato a dir poco sterminato, ma ciò rappresenta solo uno specchio dei tanti che lo compongono, capace di fornire solo una possibile spiegazione esclusivamente sul piano tecnico, nel senso etimologico greco del termine, ossia della sua arte musicale. Oppure c’è l’escamotage di scrivere un libro in cui vengono messi in campo i ricordi, le esperienze personali che si sono avuti con ABM, offrendo uno scorcio, il côté diretto di tali esperienze che permettono di scoprire alcuni suoi segmenti biografici, frammenti umani e comportamentali dell’artista bresciano mediati dall’artificio della rimembranza altrui, com’è stato nel caso del libro di Cord Garben o di quello di Armando Torno o ancora quello della moglie Giuliana. Ma nessuno, ripeto nessuno, ha mai potuto fissare, e difficilmente ciò potrà accadere, a tutto tondo un personaggio come Arturo Benedetti Michelangeli, riassumendolo in un’opera biografica la quale si ponga come obiettivo non solo il racconto, la narrazione della vita, ma soprattutto i meccanismi, le strutture, le possibili spiegazioni e non le semplici argomentazioni che hanno portato alla realizzazione di quell’unicità assoluta che è stata la vita dell’artista bresciano.
Da parte sua, lo scrittore, saggista e giornalista Roberto Cotroneo, grande appassionato di musica ed egli stesso pianista amateur, dopo aver delineato narrativamente la figura di ABM nel romanzo Presto con fuoco, che risale a venticinque anni fa, ha voluto approcciarsi a ABM in modo diverso, con il saggio Il demone della perfezione - Arturo Benedetti Michelangeli l’ultimo dei romantici, pubblicato da Neri Pozza Editore. Un libro che con le sue poco meno centocinquanta pagine non poteva e non doveva assurgere a una dimensione biografica, ma quale possibile summa parziale di alcuni spunti, di determinati episodi estrapolati dalla vita di Benedetti Michelangeli, oltre a precise testimonianze date da chi ebbe modo di conoscerlo e di frequentarlo, immergendo il tutto all’interno di un respiro più ampio, più articolato, non fissato esclusivamente sul grande pianista bresciano, ma prendendo a prestito la sua figura per calarla in un’epoca che non esiste più, un tempo nel quale ABM trovò rifugio pur provando disagio e irritazione, amore e odio, amarezza e conforto.
Per questo, oltre a non essere chiaramente una biografia di ABM, Il demone della perfezione è anche e soprattutto un richiamo nostalgico, di quel mondo di ieri nel quale l’artista si trovò a vivere e a operare e nel quale si riconobbe attingendo da esso quelle energie, quelle curiosità e principalmente quell’humus sociale e culturale all’interno del quale una figura come la sua poteva ancora essere accettata e idolatrata. Ciò perché il tempo che ABM visse fu, tanto per usare una similitudine che appartiene al lessico della registrazione discografica, un’epoca ancora analogica e non digitale come quella attuale, ossia un tempo in cui il concetto dell’imperfezione, della non perfetta aderenza tecnica delle cose trovava in un pianista come Arturo Benedetti Michelangeli una sua ragione di essere con la sua ricerca ossessiva di una perfezione che non veniva inseguita, agognata, concentrata soltanto attraverso il suono scaturito dai suoi pianoforti, ma come ineludibile transfert per cercare di creare un ponte, un possibile rapporto con il mondo che lo circondava. Ho usato il termine di transfert non a caso, tenuto conto che una figura come quella di ABM ha inevitabilmente suscitato anche l’interesse della scienza medica, la quale ha cercato di fornire possibili riscontri e spiegazioni sui meccanismi patologici della sua personalità (si legga, a tale proposito, quanto scritto dal terapeuta e psichiatra Giancarlo Dimaggio sulle pagine del Corriere della Sera, presentando proprio il libro di Cotroneo ed evidenziando il demone del suo perfezionismo in chiave psicoanalitica e in rapporto ai problemi comportamentali degli adolescenti e di quegli atleti che mirano a perfezionare in modo ossessivo le loro prestazioni agonistiche), una personalità, come ha ben rimarcato lo stesso Cotroneo, scissa, in balia, in perenne conflitto tra la sfera del narcisismo e quella dell’ascetismo. Se la prima è stata incarnata dal rapporto ambiguo con il pubblico, spesso considerato con fastidio da ABM, a volte perfino disprezzato, ma allo stesso tempo ricercato, desiderato, come se le manifestazioni di idolatria di cui il pianista fu al centro (in America, durante una tournée, si giunse persino al punto di pagarlo pur di toccarlo) fossero indispensabili per appagare quella forma di egocentrismo scaturita dal suo daimon, da quel demone di cui Arturo Benedetti Michelangeli fu un devoto servitore nel corso di tutta la sua vita, la seconda, soprattutto negli ultimi anni, fece necessariamente da contraltare, non tanto come elemento calmierante, quanto come strumento sublime per sondare l’inesprimibile, evocato da una parte dalla fede, dall’altra, per l’appunto, dall’arte dei suoni.
Proprio per via di questa ricerca ossessiva verso l’inesprimibile, che secondo il pensiero romantico ottocentesco poteva essere avvicinato e rappresentato idealmente solo attraverso il potere della musica, ABM, come si sa e come ricorda più volte Cotroneo, si oppose sempre a pianificare e a portare a termine integrali discografiche, a differenza di tanti suoi colleghi, rimanendo invece ancorato, e ciò ancor più nella seconda parte della sua vita, a pochissime opere di altrettanti pochissimi autori (e in ciò si crea un interessante parallelismo con Wilhelm Furtwängler, anch’egli fedele paladino solo di alcuni, selezionatissimi compositori, a cominciare dal venerato Beethoven, oltre al fatto di detestare le registrazioni discografiche), legato a un concetto di frammentarietà interpretativa, di scelta rigorosa, spietata per chi ascoltava, ma necessaria e liberatoria per ABM, che lo portò a far emergere dal suo immenso (e privato) repertorio pianistico non arcipelaghi, ma sperdute isole esecutive, fissate poi soltanto a volte dapprima nei solchi dei dischi a 78 giri, poi nei microsolchi dei 33 giri e, infine, nei bit dei compact disc.
Forse, proprio per questo motivo, per far comprendere meglio tale concetto di frammentarietà, di singolarità rispetto alla più rassicurante immagine della completezza, dell’integralità esecutiva, Roberto Cotroneo ha voluto imbastire il suo saggio in tanti, brevi capitoletti, ognuno dei quali non supera mai le due pagine, come se fossero un sentito e commovente omaggio ai pochi lasciti discografici di ABM, alle solitarie e immortali letture offerte dai Préludes di Debussy, dalle Mazurke di Chopin, dalle Ballate di Brahms, dal suo prediletto Schumann, dal Gaspard de la nuit e dal concerto pianistico di Ravel, tutte orme d’antica pietra scolpite nel tempo e nella storia, testimonianza ineludibile dell’“ultimo dei romantici”, del più inattuale tra gli inattuali, di colui che in anni di rivolta politica prima e di piombo poi ammetteva candidamente di essere un fedele monarchico, un ammiratore della classe aristocratica, un dannunziano con la predilezione per le auto sportive e per le belle donne (passioni, queste, che ABM condivise con un altro celeberrimo “perfezionista”, Herbert von Karajan).
Alla fine di questo libro, si resta con un sentore di amarezza e di nostalgia, poiché Cotroneo riesce a bilanciare sempre gli schizzi raffigurativi di ABM con quelli dell’epoca che visse, tramontata per sempre, sepolta nei ricordi di chi l’ha vissuta e di chi adesso la legge. Un amaro in bocca stemperato dal fascino di un tempo che può essere ascoltato nelle registrazioni discografiche di ABM e immaginato in tutte quelle pagine pianistiche che avrebbe potuto interpretare e che sono rimaste invece lettera morta.
Una fine di lettura che mi ha fatto tornare alla mente i versi finali di una poesia di Joseph von Eichendorff, Im Abendrot, che Richard Strauss, l’ultimo dei compositori romantici, utilizzò nei suoi meravigliosi Vier letzte Lieder: “O immensa e silente pace!/così profonda nel rosseggiante tramonto;/quanto ci ha spossati il nostro vagabondare./È questa forse la morte?”.
Una morte che colse Arturo Benedetti Michelangeli il 12 giugno 1995 con il crocifisso in mano e forse l’ultimo accordo perfetto, immortale e finalmente esprimibile, nel suo cuore.
Andrea Bedetti
Roberto Cotroneo – Il demone della perfezione. Arturo Benedetti Michelangeli l’ultimo dei romantici
Neri Pozza Editore, 2020, pagg. 148
Giudizio artistico 4/5