Si è soliti credere che ascoltando un brano musicale, questo debba forzatamente rimandare a qualcosa d’altro, un’immagine, un pensiero, uno stato d’animo, una proiezione che scaturisce dal nostro Io. Come se la musica fosse il mezzo, lo strumento che getta un ponte tra noi e qualcosa che va oltre essa stessa. La musica che può essere quindi il tramite attraverso il quale giungere ad altro. Di ciò ne furono consapevoli sia i musicisti che i pensatori del Romanticismo, sia quelli del Barocco. Ma se proprio vogliamo dirla tutta, al di là del fatto che ogni espressione artistica può vantare tale prerogativa, anche la musica che precede il XVIII secolo, quella propriamente più astratta e che rientra nell’alveo del Rinascimento, può assurgere a tale compito, ma non con l’indeterminatezza data da immagini, sensazioni, emozioni del tutto personali, individuali, soggettive, ma rimandando a un ordine, a una sistematicità precostituiti, a un qualcosa che più che all’animo appartiene a una dimensione geometrica, matematica, più vicina, insomma, a quanto enunciato da Pitagora e dai suoi seguaci: musica come ordine cosmico, come enunciazione sonora di una costruzione mirabile, capace di proiettare le leggi macrocosmiche nell’intimo microcosmico dato dall’essere umano, il quale ne è simbolo e artefice.

La cover del doppio CD della Digressione Music con musiche per clavicembalo di autori del Meridione.

Da ciò la musica del remoto passato, quella che solitamente facciamo confluire nella cosiddetta musica antica, rappresenta un mirabile esempio di come un sottordine applicato possa così rimandare necessariamente a un ordine causale, originario o a sua volta derivato che sia, un esempio di microcosmo che ci indirizza verso un macrocosmo, con l’arte dei suoni che diviene allegoricamente strumento per collegarci ad altro, a un’idea matematica, a un ordine architettonico, a una speculazione teologica. Per averne una conferma spicciola, immediata, è sufficiente ascoltare una recentissima incisione della casa discografica italiana Digressione Music, che ha pubblicato un doppio CD, contenuti in un elegante cofanetto, i quali presentano brani clavicembalistici di autori dell’Italia meridionale, diversi dei quali pugliesi, e che vanno da Gesualdo da Venosa fino a Niccolò Piccinni, passando attraverso Rocco Rodio, Giovanni Maria Trabaci, Giovanni Salvatore, Bernardo Storace e Antonio Valente, focalizzando questo viaggio clavicembalistico tra la seconda metà del XVI secolo fino al tramonto del XVIII secolo. Alcuni di loro sono sufficientemente noti anche a chi non si occupa specificatamente di musica, come nel caso di Gesualdo da Venosa, la cui notorietà esula anche dal contesto puramente artistico per confluire in quello storico e criminale, e di Piccinni, uno degli artefici dell’opera buffa, le cui opere liriche trionfarono nella Parigi che precedette la Rivoluzione e che diedero adito alla celeberrima querelle con i fautori del teatro gluckiano. Altri, invece, rientrano nella sfera di un esoterismo musicale, come nel caso di Rocco Rodio e di Antonio Valente, dei quali sappiamo poco o punto, ma la cui maestria compositiva è giunta fino a noi grazie ad alcune loro opere, che ne certificano la grandezza e l’originalità.

Il titolo di questo cofanetto è Da Gesualdo a Piccinni - Musicisti del Sud Italia dal 1500 al 1700 e a interpretare le sedici pagine clavicembalistiche che compongono questo viaggio plurisecolare è la tastierista pugliese Margherita Porfido, docente di pianoforte al Conservatorio Piccinni di Bari. A rendere l’ascolto ancor più “interdisciplinare” ci sono poi le illuminanti note di accompagnamento elaborate da Alessandro Zignani, il quale prende per mano l’ascoltatore/lettore e lo conduce attraverso un sentiero nel quale la musica clavicembalistica diviene un faro con cui illuminare zone apparentemente in ombra, celate, ricomponendo una frattura, quella causata dalla mancanza di affascinanti e convincenti collegamenti, in modo che l’arte dei suoni possa rimandare, come si è accennato all’inizio, ad altri lidi, ad altre discipline, ad altri settori del sapere e della conoscenza, onde restituire quel senso di ordine precostituito su cui l’uomo antico fondò le basi del suo “microcosmo” per potersi interfacciare con quelle del “macrocosmo”.

Gesualdo da Venosa.

Da Gesualdo da Venosa, dunque, prende avvio questo sentiero corroso dal mistero dell’astrazione musicale, che tutto dice e nulla rivela, con le note della Canzon francese del Principe, la cui nobiltà d’intenti viene divinamente macchiata da pennellate dissonantiche che non fanno che acuire la profondità dell’ordito polifonico. Si passa poi all’enigmatico barese Rocco Rodio, del quale Margherita Porfido presenta il Salve Regina e la Fantasia sopra LA MI RE FA MI RE, la cui quadratura logica viene stemperata da preziosità melodiche che fanno, come giustamente annota Zignani, da un gioco di maschere, quelle che animavano i diletti di corte; un gioco che risulta essere inevitabilmente anche un celarsi, un nascondersi, un camuffarsi negli arpeggi che sono in fondo dei ponti gettati sul nulla esistenziale. È poi la volta del lucano Giovanni Maria Trabaci con la sua Canzona franzesa settima cromatica, e qui siamo ormai entrati prepotentemente nel Seicento napoletano, nel suo compito di spiegare i misteri della creazione attraverso le forme opulente della sua architettura e della sua pittura, così come le disincarnate, quasi simboliste, tessiture armoniche clavicembalistiche che rimandano al contrario a un concetto di suprema essenzialità. Con il beneventano Giovanni Salvatore poi si entra in una sfera che appartiene più al reame pittorico che a quello sonoro tout court; non per nulla Alessandro Zignani parla di elementi prospettici che si manifestano proditoriamente nella Canzone Francese Terza, del primo tuono finto, grazie ai quali la musica assume un ruolo realmente tridimensionale, reso da una trasparenza sonora che viene distillata nota dopo nota, quasi fosse un puntillismo centellinato, perfino quando l’ordito si fa più serrato, dando vita a fantasmagorici arabeschi attraverso i quali osservare l’oggetto che è oltre l’uomo del tempo.

Giovanni Maria Trabaci.

Ma l’uomo del Seicento intende vivere e vedere la propria vita anche attraverso le allegorie del ballo che intende danzare, nel tentativo di collimarsi con il giusto ritmo vitale che lo sostiene, ed ecco allora intervenire Bernardo Storace con i suoi tre pezzi dedicati alla danza, Balletto, Partita sopra il cinque passi e Ballo della battaglia, con la musica del clavicembalo che si trasforma in una schermaglia, in una partita a scacchi giocata sulle sessantaquattro caselle di un’immaginaria sala che assume i contorni di un momentaneo e apparente trionfo della cortigianeria (come non pensare a Baldassarre Castiglione e al suo celeberrimo Libro del Cortigiano, antesignano di quel giovin signore cantato due secoli dopo dal Parini?). Il primo disco si conclude con quattro brani del (forse) napoletano Antonio Valente, Fantasia in Mode I, Lo ballo dell’Intorcia, La Romanesca e Tenore del Passo e mezzo, i quali risultano essere una sorta di manifestazione “sperimentale”, in quanto vogliono disegnare un’opulenza formale basandosi su una povertà di materiale armonico che ha quasi del prodigioso, segno incontestabile di un Barocco che vuole apparire ricco nella sua liofilizzazione di temi portanti, disgregati storicamente dalle luttuose guerre europee, con l’esaltazione di un’arte forse inarrivabile per coloro che verranno dopo e frantumata dalle granate dirompenti delle bombarde e dai proiettili delle spingarde.

Bernardo Storace.

Il trauma d’ascolto che Margherita Porfido ci offre si materializza alle nostre orecchie con l’irruzione del barese Piccinni, protagonista del secondo disco, che trasforma l’oro ormai marcito del Barocco nello scuotimento dato dal vento che precede e sfiora la Rivoluzione e non solo quella musicale imbastita nei “teatri alla moda” di marcelliana memoria. E lo fa con tre Sonate (in fa maggiore, in mi maggiore e in la maggiore) e con la Toccata in fa maggiore (pubblicate a Parigi nel 1785), con le quali la crisi bussa trionfalmente alla porta della Storia europea, perché nessun strumento come il clavicembalo ha saputo incarnare un disagio artistico che diviene infine una polvere da sparo, la quale una volta accesa la miccia, fa deflagrare il passato per crocifiggerlo al muro di una compassata cristallinità sonora, in un restringimento spaziale intossicato dalla cipria e dalle parrucche mal fissate sulle teste degli aristocratici. E Piccinni, con queste pagine, dimostra non solo di esserne il perfetto, ideale testimone temporale, ma anche capace, per raffigurare tutto ciò, di sganciarsi da una “teatralità” data dalla sua visione operistica. La spettacolarità lascia così spazio a un rassegnato intimismo, a una disincantata plasticità armonica in cui il susseguirsi delle idee tematiche sono bocce che non riescono a colpire i birilli e rimandano alle sculture di ghiaccio che François Vatel utilizzava per arricchire i suoi favolosi banchetti, statue destinate ad essere solo acqua tra gli avanzi di cibo. Tutto è graziosamente idilliaco, perfino quasi grottesco, come le scimmiette che allietavano le dame spagnole di corte, quelle immortalate dai perfidi pennelli di Goya, obbligate a ripetere le stesse moine e le medesime smorfie per suscitare ilarità e invidia. E il clavicembalo si cristallizza, diviene oramai remoto, un sublime retaggio sonoro che diviene fotografia di un’epoca (si ascolti l’Andante Spiritoso della Sonata in mi maggiore). Ed è il Menuetto della stessa Sonata a chiudere idealmente, almeno per noi, la porta di un’epoca incapace di vaccinarsi contro quel disagio esploso poi in una crisi, certificata dalle bande di sanculotti che imperverseranno, solo qualche anno dopo, nelle vie e nelle piazze di Parigi e che Piccinni, da autentico veggente, riassume esemplarmente nella sua trascinante Toccata in fa maggiore.

Niccolò Piccinni.

La bellezza di questo sentiero musicale viene reso efficacemente dalla lettura “immaginifica” fatta da Margherita Porfido, protagonista di un’interpretazione a tratti entusiasmante (i brani di Antonio Valente su tutti); qui non si tratta di rendere il suono, ma di fissare l’immagine del suono, ossia di restituire, attraverso la tecnica esecutiva, l’idea di un’epoca incarnata da quel suono. E l’interprete barese in ciò riesce benissimo, grazie a un respiro esecutivo che, al di là di una plasticità ideale del tocco, si concentra giustamente nell’espressività ritmica incarnata da questi brani, a cominciare dalle Sonate di Piccinni (la cui pubblicazione contemporanea, con la collaborazione di Alessandro Zignani, è stata curata proprio dalla stessa Margherita Porfido). Questa capacità di restituire la dovuta ritmicità di questi pezzi ne dispiega la loro profondità, facendo sì che anche un ascoltatore distratto o non preparato possa restare avvinghiato dal loro disvelarsi.

La clavicembalista e pianista pugliese Margherita Porfido.

Tommy Cavalieri si è occupato della presa del suono riuscendo a ricostruire assai bene il suono dello splendido clavicembalo Johnson del 1987, copia di un Ruckers del 1640 a un manuale; la dinamica risulta corposa, energica, ottimamente veloce nei transienti, così come la ricostruzione fisica dello strumento nel palcoscenico sonoro, anche se leggermente avanzata, senza però apparire innaturale. Sullo stesso livello l’equilibrio tonale e il dettaglio: il primo riesce sempre a scontornare il registro medio-grave da quello medio-acuto e il secondo è ricco di matericità, permettendo un ascolto coinvolgente e mai faticoso.

Andrea Bedetti

AA.VV. – Da Gesualdo a Piccinni - Musicisti del Sud Italia dal 1500 al 1700

Margherita Porfido (clavicembalo)

2CD Digressione Music TG001

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5