C’è un fattore da tenere assolutamente presente quando ci si trova di fronte a un compositore che, nell’ambito della sonata pianistica, decide di avviare una sua progressiva produzione, il che può valere per un numero più che ragguardevole, come nel caso di Beethoven e Schubert, tanto per citare due classici esempi, sia per chi preferisce restringere tale produzione a un numero decisamente più limitato, come accade in Schumann e Brahms. L’aspetto fondamentale è che tale produzione, sia con una sostanziosa portata numerica, sia con una maggiormente condensata, possa vantare quella densità in fatto di profondità e di ricchezza propositive, affinché si possa apertamente parlare, se vogliamo utilizzare un termine caro agli strutturalisti, di una vera e propria “diegesi sonatistica”, vale a dire che subentra, a livello di filo conduttore, una linea di racconto, nel suo svolgimento essenziale, capace di unire armoniosamente e costruttivamente una potenza di unità espressiva e interpretativa.
Che siano le trentadue sonate beethoveniane, così come le ventuno schubertiane e, al loro opposto, le due schumanniane e le tre brahmsiane, vi è in tutte l’esemplare esemplificazione etimologica che forma il lemma diegesi, dal greco διήγησις, il quale a sua volta è dato dal prefisso διά, che significa “attraverso”, e dal verbo ἡγέομαι, ossia “condurre”, “guidare”. In questo modo, la densità significativa della sonata pianistica, alla quale si può aggiungere per le medesime modalità “esplorative” in fatto di profondità e di ricchezza espositive, il genere del quartetto per archi, è un “condurre attraverso”, che in questo caso equivale a un “penetrare con i suoni”.
In fin dei conti, ogni grande compositore che si è avventurato nella sonata pianistica e/o nel quartetto per archi, è stato di conseguenza un grande penetratore; quindi, capace di prendere per mano idealmente l’ascoltatore per mezzo del mediumfornito dal suono, permettendogli (e questo è un incommensurabile dono!) di attraversare con lui mondi, sfere, categorie, intimità, disvelamenti (chiamatelo come diavolo volete o nel quale vi riconoscete) che non appartengono al mondo-in-sé. Ora, se nel panorama della musica contemporanea attuale vi è un compositore in grado di assurgere sia all’operato di penetratoree, allo stesso tempo, di esplicatore “metasonoro”, ossia capace di spiegare i suoi suoni e anche quelli altrui, questo è il milanese Carlo Alessandro Landini, del quale se la casa discografica Da Vinci Classics ha appena pubblicato la sua Sonata n. 8 per pianoforte in una registrazione fatta da Massimiliano Damerini tre mesi prima della sua prematura e dolorosa scomparsa, la casa editrice Zecchini ha invece dato recentemente alle stampe il suo saggio Musica di Dio, musica del diavolo. Appunti di Musica Sacra.
Cominciamo dalla sonata pianistica, che risale al 2021. Al di là del numero, anche se mi risulta che non ci sia ancora la numero quattro, ciò che conta nel percorso che Landini ha avviato nel lontano 1981, quando mise mano alla Sonata n. 1, è che ci troviamo di fronte, nell’attuale panorama della musica colta occidentale, ad un vero e proprio unicum, a quella già citata diegesi che viene data da chi riesce a concepire un condurre-attraverso. Tra i diversi punti che affastellano questa produzione sonatistica del compositore e filosofo milanese, ve ne è uno che merita particolare attenzione, quello che riguarda il concetto di monumentalità, la quale non è rappresentabile solo attraverso la nozione di duratae a quella data dalla forma, che vanno così a formare l’asse delle ascisse sulla quale scorre il tempo e l’asse delle ordinate sulla quale si aggruma lo spazio, ma soprattutto la volontà di riappropriarsi da parte dell’artista di un valore che la gretta e consumistica società di oggi, basata su un sistema che esalta unicamente la fruibilità data dal soddisfare l’istante in sé, la quale impone il tutto e il subito in nome di una velocità di acquisizione e della conseguente subitanea metabolizzazione del dato/oggetto proposto, quello che riguarda la capacità di estendersi sia in un senso orizzontale, sia in quello verticale.
L’essere monumentale, nelle Sonate pianistiche di Landini, non è riconducibile, come hanno fatto tanti idioti che guardano solo ciò che è presente in superficie, alla lunghezza delle sue creazioni (tanto per fare un annoso, trito e ritrito esempio, la Sonata n. 5 che può durare, nella sua esecuzione, tra le tre e le sette ore, tale da essere inclusa, per il beneficio dei gonzi e dei cerebrolesi, nel “Guinness dei primati”), ma nella sfera, assai più aulica e profonda, della riscoperta di ciò che è grandioso nelle sue intenzioni intrinseche, che non necessariamente hanno a che fare con la grandiosità, nel senso del suo durare, temporale. Ebbene sì, Landini è un compositore monumentale, in quanto la sua musica, come ricorda il titolo del saggio che ha scritto per spiegare le finalità della sua Sonata n. 5, va oltre i limitanti e insufficienti termini della misura e della dismisura, per andare, al contrario, a superare gli angusti confini dell’ordinario, in modo da entrare in quelli dello straordinario. E lo straordinario, oggi, è ricercare, udite, udite, lo spirituale, il quale, come appunto ricorda lo stesso Landini nel suo ultimissimo saggio Musica di Dio, musica del diavolo, sul quale tornerò tra poco, non è appannaggio esclusivo della dimensione sociale religiosa (come credono i già citati gonzi e cerebrolesi), ma appartiene a chiunque abbia a cuore quel territorio, dove non ci sono frontiere, inni nazionali o bandiere di genere, che porta il nome di sacro.
E la Sonata n. 8 non fa altro che confermare come Landini, con la sua musica, sia tra i depositari artistici della ricerca sacrale che non conosce confini e filtri di sorta. Il DNA di questa composizione è rappresentato dal dolore, il quale, fraternamente e spietatamente, accompagna da tempo la vita e l’opera del compositore e filosofo milanese: dolore vissuto sulla propria pelle, dolore per la perdita di persone care e che si perpetua con l’atto della rimembranza, dolore come forma suprema di ricerca, in nome del quale, come già diedero modo di dimostrare gli antichi Greci, il conoscere è prima di tutto fonte di sofferenza. Ora, per accedere al vasto e articolato edificio del sacro, bisogna necessariamente suonare alla sua porta e il pulsante che aziona il campanello, per annunciare la propria volontà di accedere a tale edificio, porta sotto un’etichetta sulla quale è scritta semplicemente una parola: Dolore. Ma per accedere alla dimensione del sacro, oltrepassando la porta del dolore, non abbiamo dovuto attendere che arrivasse il carrozzone del cristianesimo per farcelo capire, in quanto già civiltà e culture precedenti lo avevano indicato a sufficienza, che appartenessero o meno al bacino del Mediterraneo.
Mi piace pensare, quindi, il tutto suffragato da confronti e discorsi fatti con lo stesso Landini, che il nostro autore, al di là della sua (problematica) fede cattolica, veda nel mondo dei suoni sia una possibile via d’accesso al sacro, nel quale il dolore alberga sovranamente, sia una forma di conforto, di afflato intriso di simpatia (nel rigoroso significato etimologico greco del termine). Quindi, ascoltare una sua pagina musicale, e questo vale soprattutto per il corpusdelle Sonate pianistiche, significa immergersi nel mare infinito e periglioso della catarsi, poiché bisogna essere pronti ad affrontare il dolore artistico altrui per imparare a convivere con il proprio dolore esistenziale, il quale, nonostante che il sempre attuale sistema propugni e diffonda una forma continua di narcolessia nei confronti dello sterminato gregge di pecore che intende governare e controllare, non viene mai a mancare nella vita di colui che intende restare sveglio.
Da ciò, si può ben comprendere come la musica di Landini sia altamente consigliabile a coloro che vogliono restare svegli e la Sonata n. 8, a codesto proposito, presenta dosi più che abbondanti di caffeina, tali da coinvolgere chi non rifugge l’altrui e proprio dolore. Che poi vi sia anche un approccio tragicamente allegorico in quest’opera, è dato, questo, non da sottovalutare. Mi riferisco al fatto che Massimiliano Damerini, il guardiano della soglia della musica pianistica di Landini, ossia colui che ha saputo rendere come nessun altro la sua dimensione sacrale ed espressiva a livello interpretativo, abbia concluso la sua parabola terrena appena tre mesi dopo la sua ultima apparizione pubblica, proprio eseguendo a Piacenza la Sonata n. 8 qui proposta nella registrazione della Da Vinci Classics, non deve naturalmente far dedurre ai soliti gonzi e cerebrolesi di cui sopra che tale pagina sia emblema di iattura e di maledizione, ma semmai deve farci rammemorare, come avevano già ben presente gli antichi, che il filo che ci tiene eretti, vale a dire in vita, può essere tagliato dalla Μοῖρα, per la precisione dalla figura mitologica di Atropo, da un momento all’altro. E anche ciò rientra perfettamente all’interno del vasto recinto del sacro e del dolore.
Comunicando con lo stesso Landini, dopo aver ascoltato la sua Sonata n. 8, sono venuto a sapere che l’asse cartesiana delle ordinate, ossia quella che contempla la forma, si basa sul concetto del cosiddetto gnomone, uno dei cardini della geometria sacra, ossia la materia che si occupa della sezione aurea, che nel caso specifico il compositore e filosofo milanese ha concepito come un rettangolo aureo conchiuso entro un rettangolo più grande (Euclide ne parla nel suo trattato dedicato agli Elementi), vale a dire la grandezza ricorsiva del frattale che replica sé stesso. Inoltre, in questa Sonata si trova un andamento schumanniano di tipo spirale-duplice, che si propaga verso l’accelerazione e verso la decelerazione. Il risultato, usando la precisa definizione fornita dallo stesso Landini, è quello di una piramide decentrata, ossia col vertice maggiore spostato leggermente di posto verso la sezione aurea (0.618), in modo che all’ascolto si dovrebbe riscontrare questo incremento di energia fino a un punto apicale posto leggermente oltre la metà, passato il quale la macchina sonora perde progressivamente in potenza.
L’incipit viene dato da un tempo relativamente lungo, l’Andante con moto, in cui si manifesta il contrasto tra contrazione e rilascio, con un procedimento ad onde costruito su schemi intervallari ricorrenti, il che porta a esprimere lunghi tratti in cui le sfumature dinamiche sono comprese tra pe mf e con un elaborato contrappunto capace di dare vita a differenti strati di suono. L’impressione che se ne ricava, in questo continuo alternarsi tra contrazione e rilascio, è l’affiorare di un sovrapporsi incessante tra passatoe presente, ossia tra ricordo/dolore e la conseguente reazione/conforto, con l’asse delle ascisse, l’elemento temporale, che va ad innervare progressivamente la struttura della forma. Se il passato, carico di dolori, è la sostanza, il presente, lenito dal conforto, l’energia, sembra trasmettere la materia sonora di questo tempo musicale.
Il tempo successivo, il brevissimo Calmo, sembra voler operare una frattura nell’alternarsi del contrasto precedente, con l’immagine di un Ulisse, che con i suoi compagni, intende sfidare nuovamente, dopo quanto rispettivamente cantato e teologizzato da Omero e da Dante, le sue colonne d’Ercole; questo perché tale frattura è in fondo un tentativo di distacco, la volontà di strappare la crosta per vedere se esce ancora sangue dalla ferita. La mutevolezza della metrica e le particolari soluzioni intervallari (ho come la sensazione che ci siano fuggevoli presenze raveliane all’inizio del brano) fanno sì che questo distacco sia all’insegna di una continua incertezza, di un non volere che cerca di essere volere, ossia la rappresentazione di ciò che è fondamentalmente uomo.
Da ultimo, il terzo segmento, il più lungo, formato da un Adagio-Gaillarde-Ricercare I-Ripresa I-Ricercare II-Ripresa II-Morendo, doloroso, che richiama il genere della fantasia, intende disseminare nel corso della partitura granelli di una speranza che non so se interpretare in chiave umana o divina, forse una commistione di entrambi. È come se in questo mare magnum della sofferenza ci fosse il tentativo di fornire un corso, una guida alla resistenza, la quale inevitabilmente è fatta di alti e di bassi, i quali sono per l’appunto delineati dai tempi che si succedono l’uno dopo l’altro. Ad un approccio raffigurabile come momento di stasi, di distaccata contemplazione, l’Adagio, segue una rivitalizzante Gaillarde, la quale però di rinascimentale-barocco ha solo il nome, in quanto il suo è uno scopo di richiamo, di Erwachen, per dirla in tedesco. E lo stesso vale per i due Ricercare e, parallelamente, per le due Riprese, in cui la “ricerca” è quella di scavare nella materia sonora per portare alla realizzazione di uno o più sviluppi, trazioni dinamiche che mettono ancora in evidenza la volontà di un’energia esistenziale, di un riproporre il tentativo di arginare l’impatto della rimembranza, del già-vissuto-come-dolore.
Quella finale, il Morendo, doloroso, rappresenta una pagina dal significato problematico; la conclusione della Sonata n. 8, infatti, non è l’immagine di una porta aperta, simboleggiante l’assenza di chiusure od occlusioni, quanto la rappresentazione di un uscio socchiuso o, forse, di un imbuto nel quale vanno a ficcarsi indistintamente la vita e la morte, con il loro codazzo di inevitabili reazioni esistenziali e psicologiche, fatto di lutto, sofferenza, speranza, accettazione, ribellione. E, soprattutto, se sommiamo tutto ciò, ancora l’irruzione del sacro che tiene per mano il tragico, ossia il suo doppio indistinto. Il sacro non è territorio di conquista al quale tutti possono aspirare, in quanto perla che si rifiuta di concedersi ai porci, poiché prima bisogna accedere nelle nobili sabbie mobili del tragico, e qui ho la netta sensazione che la spinta fideistica di Landini venga arricchita da un’influenza data dalla classicità greca (non mi provoca l’orticaria il fatto di immaginare Paolo di Tarso e Celso che si siedono insieme a tavola per degustare un menu composto da piatti a base di felicità e di infelicità, il cui condimento sonoro è fornito dalle rispettive consonanze e dissonanze). Di fronte a questo “finale di partita” non posso che immaginare uno scenario futuro, quello in cui Landini continuerà a percorrere il suo sentiero di penetratore sonatistico, poiché la materia della sua musica è il risultato, tra i molteplici, della sua disamina ontologica, perennemente in bilico tra uno sguardo rivolto al Golgota ed uno al Partenone, coinvolto, ma sarebbe meglio scrivere sacrificato, in una sfida spirituale ed esistenziale che non conosce mezzi termini, poiché obbliga chi l’accetta a mettersi completamente a nudo. E questo, se permettete, è appannaggio solo dei più coraggiosi.
L’ascolto di quest’ultima Sonata pianistica impone, da parte di chi decida di effettuarla, un’ulteriore prova di coraggio, poiché come sempre, quando ci si offre a una composizione del musicista e filosofo milanese, ci si deve comportare nello stesso modo adottato dalle astronavi quando rientrano sul nostro pianeta, ossia penetrando all’interno dell’atmosfera terrestre attraverso una traiettoria del tutto aderente alla linea di curvatura dell’esosfera, quindi evitando un impatto diretto e frontale, pena l’incendio e la conseguente esplosione del velivolo. Anche qui, dunque, l’avvicinamento sonoro dev’essere fatto attraverso un principio di aderenza: solo così può attuarsi quel processo catartico del quale si è detto. Ascolto e riascolto, dunque, attuando un progressivo procedimento di acquisizione/decodificazione della massa sonora che, se a un primo impatto, può risultare respingente, nel momento stesso in cui si entra con la giusta curvatura nella sua esosfera armonico-melodica, tutta la materia di cui è composta prende ad avvolgere progressivamente l’ascoltatore, imprimendo sulla sua fronte il marchio a fuoco di una condivisiva catarsi.
Che dire, poi, della lettura fatta da Massimiliano Damerini? Senza lasciarsi vincere dalla commozione e dall’idea che questa è stata la sua ultima apparizione pubblica, il suo “passo d’addio” concertistico, ancora una volta ci troviamo di fronte a un’interpretazione capace di risolvere idealmente le volontà del compositore; questo significa che la musica di Landini, e non solo quella pianistica, impone una resa esecutiva in cui possa trasparire una duplice espressività, quella che fa riferimento all’elemento trascendente e quella che punta verso l’immanente. Il timbro, quindi, deve evocare una bellezza interiore, capace di addolcire, smussare, nella sua proiezione, le inevitabili asperità dissonantiche del suono in sé, generando di conseguenza una sorta di levitazione in cui il dispiegarsi del tessuto armonico/melodico possa essere ricomposto idealmente come uno specchio andato in mille pezzi. E Damerini, con pazienza, sagacia tecnica, capacità di gestione della tastiera, ricompone giustappunto il tutto, nota dopo nota, intervallo dopo intervallo, segmento dopo segmento, permettendo, alla fine, di mostrare il quadro finale. Dominare per donare, potrebbe essere questo il motto da scolpire sullo stipite di questa sua ultima interpretazione, il che ci fa capire per quale motivo il pianista genovese fosse venerato e ammirato dal pubblico e dalla critica tedeschi (i quali, per inciso, di musica pianistica qualcosina comprendono… ).
Una buona dose di coraggio, dopo quella messa sul piatto dal compositore, dall’interprete e anche dall’ascoltatore, l’ha mostrata anche Marco Alpi, ossia colui che si è occupato della presa del suono live della registrazione. Affermo ciò in quanto la microfonatura non è stata curata evidentemente con lo scopo di effettuarne un possibile utilizzo successivo in sede discografica. Questo non significa che il risultato sia negativo, ma è indiscutibile il fatto che il suono che viene fuori dai diffusori mette in mostra una dinamica che, in fatto di pulizia, energia e velocità, non mette in condizione di ottenere, a livello di palcoscenico sonoro, una ricostruzione certosina e con la dovuta messa a fuoco. Infatti, il pianoforte si trova a un’eccessiva profondità, senza vantare quelle vitamine sonore e tridimensionali atte ad avere una fedeltà della riproposizione adeguata dell’evento concertistico. Questa impressione viene avvalorata dal fatto che viene a mancare al suono un’accettabile ampiezza e la conseguente altezza, restituendo un senso di “tubo catodico”. Anche l’equilibrio tonale e il dettaglio manifestano leggere pecche, poiché il primo, per via dei parametri presi già in considerazione, non offre una consona pulizia tra il registro medio-grave e quello acuto, con punti in cui il primo va a debordare sul secondo, mentre il dettaglio, inevitabilmente, soffre di una mancanza di dosi consistenti di nero, necessarie per rendere la debita fisicità dello strumento.
Dal suono alla parola. Lasciate le vesti di compositore, Landini si presenta adesso sotto quelle del saggista, con questa sua nuova opera, Musica di Dio, musica del diavolo. Appunti di Musica Sacra, pubblicata pochi mesi fa da Zecchini Editore. La prima cosa che colpisce, visto che anche per ciò che riguarda i suoi contributi nel mondo dell’editoria, il filosofo milanese coltiva il concetto della monumentalità (soventemente i suoi testi superano le svariate centinaia di pagine), è che ci troviamo di fronte a un libro che supera appena le centocinquanta pagine totali. La sottigliezza quantitativa, però, non è applicabile anche al contesto qualitativo dell’opera, la quale permette di fare luce su un aspetto sempre sottovalutato o, quantomeno, spesso elegantemente scansato da addetti ai lavori, teologi, credenti, agnostici e atei, ossia che cosa si debba prima di tutto intendere per “musica di Dio”, una musica che viene confusa o che confluisce erratamente in quel magma indistinto e poliedrico che viene denominato “musica sacra”.
Landini, che quando si deve spaccare in quattro un capello non è secondo a nessuno, con questo libro ci prende tutti per un orecchio e ci costringe a rimetterci seduti sui vecchi banchi di scuola, per impartirci una bella lezione a base di storia della musica, di teologia, di patristica, di poesia, di letteratura, di sociologia, di neurologia, di psicologia, di arte, di filosofia (spero di aver elencato tutti i campi del sapere da lui evocati), con il preciso scopo di farci comprendere come la musica sacra, in senso rigorosamente corretto e logico non abbia nulla a che fare con la cosiddetta musica da chiesa o, detto in termini più forbiti, musica liturgica, in quanto musicalmente, eticamente e progettualmente sono due aspetti creativi del tutto diversi. E per farlo capire meglio, soprattutto a coloro che non masticano tali campi o, peggio, navigano ingenuamente a vista spinti dal vento dei luoghi comuni, ha pensato bene di chiamare in causa anche il concetto del male applicato al mondo dei suoni, affinché si potesse comprendere meglio, e credo che questo sia l’ambito che gli sta particolarmente a cuore, come la vera musica sacra, quella baciata dalla presenza del divino, possa essere riconosciuta da quella che viene invece subdolamente manovrata dalle forze del maligno. Per questo motivo, ha voluto suddividere lo smilzo (almeno per lui) saggio in due parti, la prima intitolata Appunti di musica sacra. La musica sacra. Problemi e prospettive alla luce della dottrina ecclesiale, e la seconda Musica di Dio, musica del diavolo. Verità e bellezza. Musica, passioni, imperativi morali.
Così, nelle sessantaquattro pagine che formano la prima parte, il compositore e filosofo milanese appunta il suo dito principalmente su due questioni. La prima è relativa al fatto che non si può parlare di musica sacra in ambito ecclesiastico, in quanto la Chiesa, con le sue direttive, i suoi documenti, con la sua liturgia, ha sempre messo in guardia i fedeli dalla tentazione di lasciarsi coinvolgere emotivamente ed esteticamente dal concetto della sola “bellezza” espressa dalla musica che risuona nelle volte di chiese, cattedrali e basiliche, ma invitandoli (diciamo pure pressandoli) a concentrare la loro attenzione esclusivamente sul testo liturgico presente nei vari brani musicali, in cui la voce o le voci chiamate in causa hanno un solo scopo: risvegliare la fede di chi ascolta attraverso il canto. Da qui, scaturisce la seconda questione, ossia di come la Chiesa, sempre in ambito liturgico, abbia affrontato, anche con imbarazzo e senza entrare debitamente nello specifico, il problema relativo all’apporto strumentale, ossia quello che riguarda l’accompagnamento alle voci stesse, poiché può rappresentare elemento fuorviante rispetto alla meta puramente fideistica che la stessa musica liturgica persegue.
Da parte mia, considero molto più interessante e stimolante la seconda parte, quella che porta il titolo di Musica di Dio, musica del diavolo. Verità a bellezza. Musica, passioni, imperativi morali, la quale permette al lettore di entrare in contatto con quanto viene espresso, nella storia della musica colta occidentale, dal dualismo formato dalle composizioni “divinamente ispirate” e da quelle che rientrano invece nel cosiddetto alveo della “musica del diavolo”. A tale proposito, trovo straordinariamente potente l’immagine della copertina, che mostra un particolare del dipinto di un autore fiammingo, Juan de Flandes, vissuto tra la metà del XV secolo e i primissimi decenni di quello successivo, dal titolo La tentation du Christ, in cui si mostra quanto descritto nel Vangelo di Matteo (Matteo 4:3,4), ossia quando Satana tenta Cristo nel deserto con queste parole: 3 Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane». 4 Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Ecco, la potenza di questa immagine (che bello quando una casa editrice inserisce nel risvolto di copertina il titolo dell’immagine del quadro che voluto proporre, cosa che invece non ha fatto la Zecchini, costringendomi a chiedere numi allo stesso Landini, in quanto non ero riuscito a risalire al suo autore… ) risiede proprio nel fatto che il comporre musica può essere un atto di tentazione, di sfida, le quali sono a loro volta la propagazione sonora di un’entità (l’Idea per dirla con Platone, un’ispirazione sovrannaturale positiva o negativa per dirla con il cristianesimo) che portano inevitabilmente, almeno per chi è credente, a una ineludibile dicotomia: da una parte una musica votata al bene e dall’altra quella legata ed emissaria del male.
Ma, anche qui, Landini afferma un aspetto che è assai importante e che condivido, per la mia notoria assenza fideistica, almeno in parte, vale a dire che nel calderone della cosiddetta musica sacra non devono fare ingresso solo quelle composizioni che rientrano nella già citata musica liturgica, ma anche quelle che sono baciate da un’incantevole e immacolata Bellezza artistica. Come considerare, altrimenti, tanto per citare alcuni esempi fatti dal musicista e filosofo milanese, il Parsifal wagneriano o la Sinfonia Corale beethoveniana? E poi, ancora, la Quarta sinfonia del cattolicissimo e mitissimo Bruckner, il Poema dell’estasi dell’esaltato (esotericamente) Skrjabin, il fantomatico prezzemolo musicale, ossia l’Adagio di Barber, il quale lo abbiamo, per l’appunto, presente in tutte le salse, tenuto conto che il compositore statunitense lo strizzò come un limone, offrendolo in svariate soluzioni strumentali e vocali, l’adorato (per Landini) Messiaen e il suo Quatuor pour la fin du temps. Ma, naturalmente, di fronte a questa suddivisione manichea, c’è anche il risvolto della medaglia, ossia la creazione di opere musicali, molte delle quali autentici capolavori sonori, che a detta del nostro autore sono “macchiate” dall’impronta caprina del demonio (e qui smetto di essere il Virgilio dantesco de’ noaltri, lasciando che Landini prosegua da solo senza il mio sostegno), a cominciare dal rivoluzionario Sacre du printemps stravinskijano, per non parlare di compositori presi in blocco, come nel caso dello scontato Paganini (il quale, da funambolico istrione, aveva perfettamente realizzato il fatto che se si fosse spruzzato metaforicamente addosso profumo di zolfo, avrebbe ottenuto un maggior successo sulle masse adoranti), Berlioz, Musorgskij, il quale dovrà evidentemente pagare pegno per l’eternità per aver osato scrivere Una notte sul Monte Calvo e per aver composto quel titanico capolavoro “oscuro” che è il Boris Godunov, Prokof’ev, ovviamente Gesualdo da Venosa, che oltre ad aver ucciso la consorte Maria d’Avalos e l’amante Fabrizio Carafa, avrebbe stipulato un patto scellerato con il demonio a livello musicale, come si potrebbe desumere dal festival dissonantico presente nelle sue Tenebrae Responsoria, e facendo rientrare nella categoria dei musicisti che avrebbero fatto la felicità di Anton LaVey (per chi non lo sapesse, fondatore nel 1966 a San Francisco della Chiesa di Satana) perfino Liszt, che evidentemente paga dazio per il suo Faust sinfonico, nonostante il fatto che abbia poi abbracciato in tutto e per tutto i piedi della croce. Non potevano mancare, ovviamente, riferimenti alle conclamate risacche demoniache che sono presenti nell’heavy metal, anche se personalmente faccio confluire tale fenomeno pseudo-musicale nel carrozzone del fenomeno freaks spiegato lucidamente da Leslie Fiedler nel mirabile saggio Freaks: Myths and Images of the Secret Self, e andando perfino a lambire il fenomeno New Age, terra di promessa per coloro che sono masochisticamente sedotti dal loro desiderio di essere sadicamente manipolati da coscienze altrui.
Il tutto, ovviamente, corroborato da una massiccia pletora di rimandi inseriti a fondo pagina, sono per l’esattezza centonovantasette a fronte di un testo di centoventi pagine, e a citazioni in francese, inglese, tedesco, oltre che in latino, greco ed ebraico (Landini arriva al punto, a pagina 119, di citare un brano di tredici righe solo in tedesco dal Demian di Hermann Hesse, avendo però cura per coloro che non masticano questa lingua, di citare alla fine almeno la pagina corrispondente dell’edizione italiana… ).
Andrea Bedetti
Carlo Alessandro Landini – Piano Sonata No. 8
Massimiliano Damerini (pianoforte)
CD live Da Vinci Classics C00904
Giudizio artistico 5/5 Carlo Alessandro Landini - Musica di Dio, musica del diavolo. Appunti di Musica Sacra Zecchini Editore, pp. VI + 146, 2024 Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 3,5/5