Quello presentato dalla pianista e compositrice napoletana Maria Gabriella Mariani per il suo ultimo lavoro discografico, Visions - Suites for Piano, pubblicato dalla Da Vinci Classics, è un esempio per comprendere come il pianoforte abbia saputo affrontare nel corso del Novecento da una parte la forma della Suite e dall'altra la proposizione e la resa dell'elemento “visivo”, oserei dire “pittorico”, dello sguardo dell'artista che fissa immagini, ricordi, sensazioni, traducendoli o, quantomeno, cercando di farlo, sulla tastiera dello strumento. Da qui, la scelta di pagine come le tre inevitabili, tenuto conto del tipo di progetto, Estampes di Claude Debussy, la poco eseguita Suite Napoli di Francis Poulenc, le celeberrime Visions fugitives op. 22 di Sergej Prokof'ev, unitamente a una composizione della stessa Maria Gabriella Mariani, la Suite in tre parti Mediterranea, da lei scritta tra il 2009 e il 2019.

La cover del CD Da Vinci Classics che Maria Gabriella Mariani ha dedicato alla Suite pianistica nel Novecento.

Il trittico debussyano doveva per forza di cose rappresentare una sorta di propilei di tale progetto, vuoi per la forza “immaginifica” di Estampes, vuoi per la loro struttura che può essere presa come termine di un possibile paragone con le altre opere proposte in questa registrazione. Sì, perché, come ben sappiamo, le tre stampe/visioni/sensazioni proposte dal compositore francese attraverso Pagodes, La soirée dans Grenade e Jardins sous la pluie rappresentano un perfetto esempio di come il pianismo di Debussy (l'opera risale al luglio del 1903) avesse a quell'epoca raggiunto nella sua originale peculiarità una maturità in cui la lucidità formale andava di pari passo con l'esplorazione sistematica di un “nuovo linguaggio” pur senza mettere in crisi l'impianto tonale. Un nuovo linguaggio che favoriva la ricerca di sensazioni evanescenti, di sottili ebbrezze in cui il sentore fisico delle cose doveva unirsi, accoppiarsi alla dimensione traslata di un ricordo vissuto o semplicemente immaginato; un processo di rimembranza che non doveva essere però soggettivo, bensì oggettivo, grazie al quale ognuno avrebbe potuto riconoscersi (a tale proposito, è rimasta famosa la considerazione che Manuel De Falla fece dopo aver ascoltato Estampes: «Non c'è nemmeno una nota tratta dal folclore spagnolo, ma l'intera composizione, fin nei minimi particolari, esprime mirabilmente lo spirito di questo Paese»). Nulla di vero, dunque, ma anche nulla di falso, poiché è su questa sottilissima ambivalenza che si materializza la fluttuante e soggiogante capacità in Debussy di rendere, attraverso un sapiente e geniale gioco non precostituito di armonie e di ritmi, la materializzazione di immagini, visioni e sensazioni, con una vividezza tale da rendere palpabile, quasi atavica nell'ascoltatore, l'affioramento di emozioni persino evocate pur nella loro irrealtà soggettiva, capace di soppiantare una realtà che non esiste, se non nell'attimo/atto della sua esposizione esecutiva e nella sua conseguente percezione assimilativa.

La pianista e compositrice napoletana Maria Gabriella Mariani.

Affioramento delle emozioni: è proprio questa la parola d'ordine che sovrintende la lettura che Gabriella Mariani fa di Estampes, privilegiando una resa timbrica che tende a esaltare la struttura del fraseggio, con la volontà di rendere più salda la tenuta delle immagini che si accavallano nella mente dell'ascoltatore. E poi c'è quella “liquidità” richiesta nel gesto pianistico, un continuo scorrere del suono che richiama l'elemento amniotico e, contemporaneamente, il fluire temporale che costituisce una sorta di metronomo della visione che si forma in modo più o meno evanescente. Ed è la sensazione, il frisson che ha la meglio sul dominio della forma, facendo sì che una similitudine pittorica o, quantomeno, “coloristica” abbia il sopravvento (l'esecuzione di La soirée dans Grenade ne è la lampante quadratura del cerchio). Questo, però, non significa tradire la forma, piegandola biecamente alle necessità dell'immagine, delle linee che divengono corpo di una visione, ma solo identificazione di un delicato e continuo equilibrio che non viene mai meno (come dimostra, d'altronde, la luccicante disciplina che governa l'interpretazione di Jardins sous la pluie).

Il compositore e pianista francese Francis Poulenc in un'immagine degli anni Venti.

L'interesse che deriva da un brano come Napoli di Poulenc risiede nella sua rarità d'esecuzione, oltre a far scaturire reazioni d'ascolto che possono essere definite manichee, poiché o lo si ama o lo sia odia; per quanto mi riguarda è un pezzo che non mi entusiasma, ma il mio parere, sia ben chiaro, conta quanto un due di picche. Questa Suite fu scritta dal compositore francese tra il 1922 e il 1925, cominciandola quando ancora si trovava in Italia. A quanto pare, l'intenzione di Poulenc fu quella di suscitarne l'interesse di Artur Rubinstein, cosa che alla fine avvenne, visto che il pianista polacco decise di registrarla, oltre a farla entrare nel suo repertorio (la terza parte della composizione, Caprice Italien, sembra confezionata su misura delle sue doti virtuosistiche, poiché indubbiamente si tratta di un pezzo da virtuosi, anche se le prime due parti, Barcarolle e Nocturne, abbisognano di un grado di virtuosismo che non è tecnico, bensì espressivo, lavorato sui colori più che sui volumi). Cosa che Maria Gabriella Mariani per l'appunto fa, affrontando Barcarolle con una debita leggerezza formale che fa rilucere un fraseggio mai lasciato a se stesso, ma sostenuto, spronato, stimolato da un fluire timbrico. Un fluire che continua, creando un'arcata di intenti immaginativi, nel Nocturne, il cui senso lento soggiace a un delicato ritmo che si cristallizza tenuemente, quasi l'artista partenopea avesse voluto dare per l'appunto un senso di continuità con Barcarolle. E non vi è cesura nemmeno con Caprice Italien, la cui esuberanza (ammettiamo, a tratti alquanto pacchiana) non si trasforma sotto le dita dell'interprete in un festival di fuochi d'artificio, quelli che sarebbero piaciuti tanto proprio a Rubinstein, ma seguendo come una rabdomante una linea di demarcazione con la quale dare un senso proprio e un sentimento al segmento trasognato centrale, per poi riprendere una progressiva esplosività timbrica, ma sempre all'insegna di quel ritmo pulsante che sostiene l'intera composizione.

Sergej Prokof'ev all'epoca in cui compose il ciclo delle Visions fugitives.

L'impianto esoscheletrico che poi forma i venti brani delle Visions fugitives di Prokof'ev mette a dura prova la struttura stessa della Suite, visto che il giovane autore  (la composizione fu scritta tra il 1915 e il 1917, ossia quando il compositore russo era poco più che ventenne) si guarda bene dal seguire i modelli debussyani ormai acclarati ed acquisiti, per fissare invece la propria attenzione su un procedere maggiormente oggettivo, in cui perfino il concetto di immagine si liquefa ulteriormente in quello di suggestione. Sì, perché qui l'alternarsi di tempi veloci a quelli lenti, unitamente alla loro brevità, trasforma l'intera Suite in un film muto in bianco e nero, sfalsato dalla velocità della manovella girata a mano dal cineoperatore, come quando si voltano velocemente le pagine di un quaderno di schizzi in cui si è disegnato, foglio dopo foglio, l'immagine di una cosa o di un animale che si muove o cangia come in un cartone animato. Dipende, ancora una volta, dalla velocità che si vuole imprimere, ossia il tipo di suggestione che si vuole esprimere, a partire dal Lentamente e dall'Andante delle due prime Visions. Certo, qui il giovane Prokof'ev fa ancora l'occhiolino a uno Skrjabin, perfino al tardo Liszt, ma poi basta ascoltare la terza Vision, con il suo Allegretto, per capire che la strada è già indicata all'insegna di una consapevole autonomia, con i contorni delle suggestioni che si susseguono come la progressiva conquista da parte di Kazimir Malevič del mondo astratto, fuggevoli a volte (Vision n. 10, che dev'essere resa “ridicolosamente”), straordinariamente precise in altre (Vision n. 8).

Qui il senso di una presunta, supposta unitarietà di intenti, un possibile denominatore comune viene preso in considerazione da Maria Gabriella Mariani, la quale prende in mano il quaderno di schizzi e lo tramuta in un album dei ricordi, con il bianco e nero che perde progressivamente le tante sfumature di grigio per assumere quelle dei colori e delle sfaccettature cubiste che lo stesso Malevič immette nella sua pittura degli anni Venti, vale a dire con un pianismo che non si abbandona a esagerate sfumature nei passaggi lenti, così come non diviene macchietta in quelli veloci, ma cerca, riuscendoci in buona parte, di fissare linee, rapporti cromatici, come se il Prokof'ev cinquantenne, quello ormai maturo, rotto a qualsiasi esigenza compositiva, avesse voluto rimettere mano a un suo personale “album dei ricordi”, riandando a visitare pagine dimenticate nel tempo, riappropriandosi di quella gioventù trascorsa tra la guerra e la rivoluzione. La prova è come la pianista napoletana affronta le Visions n. 16 & n. 17, in cui il senso trasognato del ricordo viene filtrato dapprima nella dimensione della dolosa mestizia, con un suono che è fonte di rotondità che torna sempre a se stessa, e poi con un afflato poetico, come richiede il tempo in questione, che però non abbandona quanto appena enunciato nella Vision precedente, ma ne è la sua esatta trasmutazione.

Ancora Maria Gabriella Mariani, protagonista di questa registrazione discografica.

Vi è, infine, la “tentazione” compositiva, quella di aggiungere strati di materia alla materia altrui e che si materializza in questo caso nella Suite Mediterranea della stessa Maria Gabriella Mariani. Qui, la pianista napoletana mette in luce uno spessore nel saper plasmare la dimensione armonica senza mai cadere nell'ovvio o nel banale, ossia nel cercare effetti timbrici a presa rapida in nome di quel linguaggio tonale che non viene abbandonato nemmeno per un momento, ma dando vita a tre distinti momenti (Solo, Pulcinella, Chef Tango) che risuonano come altrettante angolazioni dalle quali poter contemplare quanto appare sotto la spinta sonora, la quale giunge sempre a un puntuale sviluppo, a un preciso ampliamento della materia presa in esame, come a voler rimarcare, da parte dell'autrice, che applicare la disciplina non significa mortificare la libertà della fantasia. Questo significa che la Suite composta dalla Mariani non sfigura di certo in cotanta compagnia, ma ne rappresenta, semmai, un utile sviluppo narrativo, una sorta di “parerga e paralipomena” che specifica ulteriormente la portata del genere musicale in questione applicato al mistero della visione e dell'immagine (in tal senso, Chef Tango è fascinosamente esemplificativo).

Giovanni Caruso si è occupato della presa del suono: il risultato è complessivamente buono, con una dinamica che riesce a restituire velocità e una congrua naturalezza alla gamma timbrica del pianoforte; il palcoscenico sonoro ricostruisce poi lo strumento in un corretto spazio che trova compimento al centro dei diffusori. Infine, sia l'equilibrio tonale, sia il dettaglio non tradiscono quanto manifestato dai primi due parametri, denotando correttezza tra i registri il primo e una confortante matericità il secondo.

Andrea Bedetti

AA.VV. - Visions – Suites for Piano

Maria Gabriella Mariani (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00377

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 3,5/5