L’ascolto della registrazione di cui scriverò più avanti e la lettura delle sue note di accompagnamento, mi hanno fatto tornare in mente uno dei concetti più affascinanti e brillanti elucubrati da Jacques Lacan e fissati speculativamente nel corso dei suoi leggendari seminari del mercoledì tenuti nell’ospedale parigino di Sainte Anne. Il concetto in questione riguarda la cosiddetta “teoria dello specchio”, anch’essa soggetta, come buona parte della visione psicoanalitica lacaniana, all’influenza delle dottrine linguistiche elaborate da Roman Jakobson, uno dei padri del formalismo e dello strutturalismo, più precisamente al fenomeno della metafora e della metonimia, le quali secondo il linguista russo naturalizzato americano sono gli assi portanti di ogni lingua: la metafora è la condensazione in una singola parola o immagine, mentre la metonimia rappresenta il denominare una cosa con il nome di un’altra, con la quale essa è in relazione di dipendenza o di continuità. Per Lacan, la metafora e la metonimia corrispondono alle due modalità che Freud elabora soprattutto nel suo Die Traumdeutung, ossia quelle della “condensazione” e dello “spostamento”, fondamentali per cercare di comprendere i meccanismi del linguaggio dell’inconscio.
Partendo dal presupposto che il soggetto o Io non è il dato originario della vita psichica dell’individuo, ma rappresenta il risultato di una costruzione, nella sua “teoria dello specchio”, lo psicanalista e filosofo francese spiega che la prima tappa di questa costruzione avviene attraverso lo “stadio dello specchio”, in cui tra i sei e i diciotto mesi, il bambino arriva a riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio ed elabora di conseguenza un primo abbozzo dell’Io, ma all’interno dell’immaginario, ovvero entro una relazione duale di confusività tra sé e l’altro, dove per “altro” s’intende la figura materna. Tale identificazione è decisamente primaria ed avviene con l’ausilio della figura materna.
Nel corso dei primi mesi di vita, il bambino dipende in tutto e per tutto dall’altro, ossia l’inconscio, ed è vittima del caos che attraversa il suo corpo, il quale è ancora una “struttura in frammenti”. Il bambino, posto davanti a uno specchio, all’inizio è spinto a reagire come se l’immagine riflessa fosse una realtà che si può prendere, afferrare, ma poi comprende che è solo un’immagine, rendendosi progressivamente conto che quella è la sua immagine, diversa da quella dell’adulto che lo tiene in braccio. Quindi, è lo sguardo della madre, che dà al bambino il riconoscimento della propria immagine, del tutto autonoma e a sé stante. In questo modo, a poco a poco, il bambino arriva a riconoscere la propria immagine riflessa e riesce a elaborare un primo abbozzo dell’io, in quanto l’immagine riflessa fornisce una forma fissa stabile, la cui funzione è quella di costruire progressivamente il relativo autocontrollo e quella “stabilità” che il bambino raggiungerà solo in un secondo momento. Se a diciotto mesi la fase dello specchio, come una fase di sviluppo, giunge compiutamente al suo termine, il rapporto tra il soggetto-bambino e la sua l’immagine rimane una forza che agirà sempre nella vita psichica del bambino stesso, poiché il soggetto si renderà conto di essere un “qualcun altro”, in quanto la sua immagine verrà percepita come un qualcosa separato da lui. La “fase dello specchio” termina del tutto quando la figura paterna “irrompe” nella relazione esclusiva madre-bambino, consentendo in tal modo la risoluzione dell’edipo e la conseguente acquisizione di un’identità sessuale da parte del bambino-soggetto. Ciò avviene per il fatto che tra i desideri della madre e quelli del bambino si interpone il padre, il quale rappresenta, come la definisce lo psicanalista francese, la “figura della legge”, con il risultato che la sua figura e le sue parole causano la rimozione del desiderio che il bambino nutre nei confronti della madre. L’“ordine simbolico” impersonato dalla figura paterna permetterà così al bambino di accedere alle leggi comportamentali della società e della cultura, del tutto indispensabili affinché possa svilupparsi, nel bambino stesso, la sua soggettività.
Trasponendo tale “teoria dello specchio” su un piano più vasto, sempre facendo ricorso ai concetti della metafora e della metonimia, più precisamente quello della sfera artistica, risulta essere altrettanto affascinante comprendere come, entrando nello specifico dell’arte musicale, si possa applicarla per comprendere come si siano creati dei rapporti esclusivi, sul modello di quello che riguarda “madre-bambino”, tra compositori della stessa epoca o di epoche diverse (pensiamo solo al rapporto tra il “bambino” Brahms e la “madre” Schumann, tra il giovane Mahler e la figura materna Mozart, non per nulla l’ultima parola proferita dal grande compositore boemo pochi istanti prima di morire fu quella di mormorare il nome del sommo salisburghese, e quello intercorso per tutta la vita tra Busoni e “mamma” Bach), rapporto nel quale, il concetto dello specchio non può che essere la progressiva acquisizione del bambino-compositore della propria “immagine” artistica, del suo sviluppo in quanto musicista, con il suo stile, con il suo linguaggio, con la sua personalità, mediante una figura materna incarnata da un artista nel quale si riconosce, si identifica, prendendolo come punto di riferimento grazie al quale confrontare la sua immagine con quella dell’“altro”, in modo da focalizzare meglio quanto proposto, offerto dall’immagine riflessa dal mondo dei suoni e dalla sua magia.
In un certo senso, una recentissima registrazione discografica, quella dell’etichetta italiana MM, in collaborazione con Sony Music, può avvalorare tale metafora dall’ambito psicoanalitico a quello musicale, e riguarda il pianista e saggista Luca Ciammarughi (leggi qui la sua intervista) che ha inciso su uno Steinway 1888 alcuni brani del grande (e troppo sovente dimenticato, ahimè) Jean-Philippe Rameau, il padre (“madre”, Lacan dixit) della musica colta francese, la cui opera, ancora non debitamente valorizzata nella seconda metà dell’Ottocento (al punto che all’epoca non esisteva ancora un’edizione completa e corretta del suo catalogo), vide in Camille Saint-Saëns colui che decise di rivalutarne la figura e la sua magistrale produzione, soprattutto quella tastieristica, in quanto affascinato dalla grandezza misconosciuta del geniale artista barocco, al punto da diventarne, per l’appunto in chiave metonimica, il “soggetto-bambino”. Non per nulla, il titolo della presente registrazione (non so quanto voluto sotto un’angolazione psicoanalitica) è Rameau nello specchio di Saint-Saëns e include due Suites, quella in la minore RTC 5 e quella in sol maggiore RTC 6, entrambe risalenti al 1728, quattro brani tratti da Les Indes Galantes (1735-36), due pezzi estratti dai Pièces de Clavecin en concerts (1741), così come l’ultimo brano concepito da Rameau per clavicembalo, La Dauphine RTC 12 (1747), ai quali Ciammarughi ha voluto aggiungere la Gavotte op. 23 in do minore dello stesso Saint-Saëns, composta nel 1871 e posta nella track-list del disco (immagine riflettente nel fatidico specchio “artistico-soggettuale”) subito dopo la Gavotte et six Doubles che conclude la Suite in la minore di Rameau.
Quindi, quella di Ciammarughi è un’immagine che tende a coprire sia il Rameau squisitamente clavicembalista, sia quello che opera riduzioni per lo strumento a tastiera (appunto i brani tratti da Les Indes Galantes, tra i quali uno che farebbe oggigiorno inorridire gli idioti e stucchevoli “politicamente corretti” come l’Air pour les Esclaves africains, e siccome al nostro pianista e musicologo evidentemente il rischio piace, ovviamente ha dovuto includere, presente nella Suite in sol maggiore, udite udite, quello che porta il tanto deplorevole [?] titolo di Les Sauvages). Al di là del fatto e, visto che ci siamo, lanciamo anche un bell’anatema nei confronti dei filologi “duri e puri”, che ascoltare Rameau al pianoforte è una delle esperienze musicali più coinvolgenti che ci siano concesse, si deve ricordare che l’ausilio pianistico permette di esaltare la bellezza intrinseca della struttura armonica della sua musica, facendo affiorare una dimensione capace di smussarne l’effetto “matematico” (non dimentichiamo il côté teorico del musicista francese, canonizzato nel suo Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturels, nel quale afferma, anche sotto la spinta e l’influsso di razionalisti come Cartesio, Eulero e Mersenne, che l’armonia si fonda su un principio naturale e originario, ergo razionale ed eterno, reso con più chiarezza dall’apporto fondamentale della matematica) dando modo, di conseguenza, di percepirne, nonostante l’apparente “rigidità” formale, la sua straordinaria fluidità espressiva.
Ora, per completare il pistolotto metonimico, è lo stesso Ciammarughi a ricordarci giustamente come Saint-Saëns avvertisse un’indubbia affinità con la “madre” Rameau, in quanto riconosceva in lui quella stessa incomprensione vissuta sulla sua pelle per via di attacchi, critiche e rifiuti in nome di quell’accusa di “passatismo” che gli fu incollata addosso da una parte della critica del tempo, soprattutto nella seconda metà della sua stagione compositiva, quando ormai i venti del cambiamento già soffiavano, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio di quello successivo, preludendo l’irruzione delle avanguardie e dei nuovi linguaggi musicali. Un’accusa che lo stesso Rameau, ai tempi, fu costretto a subire proprio a causa della sua volontà di esaltare l’armonia e la forma da parte di coloro che si fecero promotori del nuovo goût che stava prendendo piede in Francia, solleticato dal fascino provocato dalle musiche della scuola italiana, sature di melodie e cantabilità. E se proprio vogliamo chiudere il cerchio psicoanalitico, non dobbiamo dimenticare la presenza della dimensione paterna, incarnante la “figura della (nuova) legge”, ossia Claude Debussy, il distruttore del sogno e del desiderio edipico, l’hostis di schmittiana memoria, detestato dal (?) “conservatore-bambino” Saint-Saëns, destinato a gettare le sementi della Neue Musik e la cui rivoluzione artistica fu considerata dal più anziano collega un’autentica minaccia per il fedele e conclamato ri-specchiamento della musica gallica del tempo.
Per quanto riguarda la lettura di queste pagine di Rameau fatta da Luca Ciammarughi, colpisce la volontà, il desiderio di non estremizzare la resa espressiva alla luce dello strumento pianistico: questo significa che l’interprete milanese tende a mediare costantemente il costrutto tra un lirismo, che viene manifestato con uno slancio e un sentimento che avrebbe sicuramente incontrato l’apprezzamento di Saint-Saëns, e un’architettura che al contrario è rispettosa di quella dimensione “matematica” invocata da Rameau nei suoi scritti teorici. Una scelta non facile, sempre in bilico tra un’immagine (ci risiamo) che offre i contorni di un pianoforte e un’altra, invece, che ha più la forma ideale (non sonora) di un clavicembalo. Ciò si può spiegare alla luce di sottili oscillazioni agogiche, di un materializzarsi sonoro in nome di un in medio stat virtus, vale a dire che Ciammarughi, a ragione, non snatura la portata di queste pagine calcando troppo la mano sull’aspetto melodico (il fraseggio è calibrato, timido nel senso che sarebbe piaciuto a un Rimbaud), insomma costringendo il povero Rameau a salire sulla macchina del tempo per essere spedito ex abrupto in epoca romantica (come magari sarebbe piaciuto al “conservatore” Saint-Saëns) e, allo stesso tempo, non trasforma il pianoforte in un clavicembalo legato in una camicia di forza. Così, l’in medio si può individuarlo in un’attenta, certosina ricerca di un equilibrio frutto di un senso ritmico capace di soddisfare sia le esigenze melodiche, sia la struttura formale del costrutto (si ascolti, a tale proposito, come Ciammarughi rende quell’autentico “trompe-l’oreille” rappresentato da Les Trois Mains nella Sarabanda della Suite in la minore).
Credo che anche la scelta di optare su uno Steinway del 1888 (da considerarsi non solo in chiave coeva con l’époque di Saint-Saëns, ossia di poter ipotizzare come il compositore avrebbe potuto rendere timbricamente attraverso la sua immagine il suo Rameau), sia stata dettata proprio nel ricercare una particolare sonorità anch’essa frutto di una mediazione tra il timbro pianistico e reminiscenze clavicembalistiche, soprattutto nel registro acuto, in modo da restituire una debita “cristallinità” da sviluppare con la mano destra (si ascolti, sempre nella Suite in la minore, la Fanfarinette e la straordinaria Gavotte et six Doubles). Ad ogni modo, questa ricerca di equilibrio attraverso un calibrato uso sapiente dell’ingrediente ritmico non pregiudica uno stato di esaltazione interpretativa e, parallelamente, anche in chi ascolta: Ciammarughi sa fin dove spingersi schiacciando quando è il caso l’acceleratore di una visionarietà espressiva, così come sa in quali punti dosare il freno di una disciplina formale che definire indispensabile è dir poco (va bene il pianoforte, ma che diamine stiamo pur sempre disquisendo di un caposaldo del Barocco europeo… ). Dedicato a chi non ritiene che la musica clavicembalistica non possa non solo essere espressa magistralmente anche al pianoforte, ma perfino solo “sporcata” con lo strumento di Bartolomeo Cristofori. E tanti salutoni ai filologi “sciaguratamente corretti”.
Nulla da obiettare sulla presa del suono effettuata da Stefano Ligoratti (mai diffidare di un musicista che si cala nei panni del tecnico del suono, anzi): la dinamica è generosa, ma disciplinata, sufficientemente naturale, senza denotare enfasi coloristiche a dir poco inappropriate (il che avrebbe snaturato non poco la già particolare timbrica del pianoforte in questione); il palcoscenico sonoro è ricostruito con lo strumento posto correttamente al centro dei diffusori a una discreta profondità, con una conseguente resa dello spazio sonoro nel quale è stata fatta la registrazione. L’equilibrio tonale è da apprezzare in quanto il registro medio-acuto, data la già citata, squillante “cristallinità”, non va a inficiare i contorni e il territorio di quello grave, con entrambi messi debitamente a fuoco. Infine, il dettaglio è ricco di matericità, evidenziando la dimensione fisica dello Steinway e permettendo un ascolto non affaticante.
Andrea Bedetti
Jean-Philippe Rameau – Rameau dans le miroir de Saint-Saëns
Luca Ciammarughi (pianoforte)
CD Sony Music-MM 19658710132
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5