Quando la letteratura si occupa di musica, spesso e volentieri si hanno dei risultati indubbiamente interessanti e stimolanti. E questo “saggio romanzato” o “romanzo saggistico” di Filippo Tuena ne è un’ulteriore conferma. Lo scrittore romano ha manifestato la sua sensibilità e la sua indagine scritturale nei confronti di un compositore qual è Robert Schumann, la cui suprema caratura di musicista incontra e si diluisce nel dramma dell’uomo, colpito fin da giovane da una forma di instabilità emotiva che sfocia tragicamente nel febbraio del 1854 in un atto di deliberata follia, il tentativo di annegarsi nelle gelide acque del Reno a Düsseldorf, che gli apre ineluttabilmente le porte di un sanatorio per malati di mente a Endenich, vicino a Bonn, dove conclude mestamente la vita due anni più tardi.
Filippo Tuena, oltre a questo libro, ha chiamato in causa l’uomo e musicista Schumann in altre due occasioni, in Fantasmi di Schumann a Manhattan del 2005 e Lettere da Endenich, dello stesso Schumann, del quale ne ha curato l’edizione, nel 2017. Un dato che fa comprendere come lo scrittore romano abbia saputo dare corpo a una forma di affinità nei confronti del compositore di Zwickau, così come in precedenza lo aveva fatto per Michelangelo, con una scrittura esplorativa che prende a prestito un artista per indagare non solo su di esso, ma anche attraverso esso. Come se il personaggio in questione fosse il latore, l’emissario di aspetti in lui incarnati che vengono poi affrontati e dipanati nel corso del racconto, portando il lettore a seguire un duplice filo narrativo, uno tratteggiato in superficie, l’altro sotto di essa.
Qui, il primo filo viene offerto dagli interventi di sei persone che furono tutte coinvolte, chi in modo marginale o basilare, quando Schumann lasciò la sua abitazione a Düsseldorf in vestaglia e pantofole, attraversando le strade ricolme di gente che festeggiava il carnevale, per raggiungere le sponde del Reno, nel quale si tuffò per cercare la morte oppure, come viene ipotizzato nelle pagine del libro, semplicemente per raggiungere l’altra riva, in preda a distorsioni visionarie, visto che non aveva con sé il denaro per pagare il battelliere che potesse traghettarlo. Queste persone sono, in ordine di apparizione, Rosalie Leser, Elise Junge, Christian Reimers, Ludwig Schumann, Katarina e Johannes Brahms; la prima fu un’amica degli Schumann presso la quale Clara Wieck, la moglie di Robert Schumann, andò a vivere subito dopo che il marito fu ricoverato a Endenich per riprendersi dal trauma, la seconda fu colei che visse con Rosalie Leser per aiutarla in quanto non vedente, mentre Reimers fu un valente violoncellista e amico intimo di Schumann, con il quale condivise la passione per lo spiritismo, Ludwig fu il primo dei figli maschi, colpito anch’egli all’età di vent’anni da una forma di follia e rinchiuso nel manicomio provinciale di Colditz dove trovò la morte, Katarina (l’unico personaggio di fantasia creato da Filippo Tuena in quest’opera) fu una giovane pianista che visse per qualche tempo da Rosalie Leser assistendola e suonando il pianoforte per lei e Brahms non ha certo bisogno di presentazioni. Oltre a loro, Tuena chiama in causa anche Albert Dietrich, che fu allievo di Schumann e spesso ospite, con lo stesso Brahms, nella casa del compositore e della sua famiglia a Düsseldorf.
Queste voci si alternano nel corso del romanzo, nel quale lo scrittore romano immette informazioni e dati rigorosamente storici, immergendo di fatto il lettore in un’ambientazione che è speculare a quella vissuta dai diretti protagonisti in quei tragici frangenti. Un romanzo epistolare che potrebbe benissimo anche essere un Kammerspiel teatrale, con i sei personaggi che ruotano, di volta involta, intorno alla figura schumanniana, la quale fa capolino ogni tanto, lasciando messaggi sgrammaticati, visioni allucinate, sogni slabbrati che alimentano una sua palpabilità rispetto all’atmosfera rarefatta, quasi asettica nella quale si muovono a livello scritto i sei personaggi. Ma qual è l’ago della bilancia, il motore propulsore che spinge il lettore fino al termine di questi racconti epistolari nei quali ognuno narra ciò che ha provato e immaginato il giorno in cui Schumann si tuffò nelle acque del Reno?
Fondamentalmente, queste voci cercano di comprendere come l’arte possa tramutarsi in follia (e qui scatta il secondo filo, quello sotterraneo, che governa la matassa del romanzo), una trasmutazione vista attraverso la mente di chi si muove nell’ordinarietà delle cose (ossia chi non è toccato dal dono dell’arte) e chi, invece, è calato nella straordinarietà di quanto lo coinvolge su altri piani, ossia di chi fa arte.
Due modi di ragionare diversi, due prospettive che angolano la visione in modo differente, tra chi considera il disagio psichico come emblema di una malattia spietata che non lascia scampo e chi, al contrario, considera la follia l’ineluttabile passaggio da una forma di arte a un’altra forma artistica (questo concetto è presente in modo ossessivo nella concezione dell’arte romantica, in particolar modo in quella germanica). È interessante notare come Tuena dia molta importanza alla dimensione spiritica, alla passione per l’occultismo che legò Schumann in prima persona insieme con lo stesso Reimers e con un altro musicista destinato a lasciare un segno nella musica del secondo Ottocento, il violinista ungherese József Joachim, sodale del compositore di Zwickau e poi grande amico e collaboratore di Brahms.
Lo spiritismo, d’altronde, è motivato soprattutto dal fatto che l’ultimissima composizione pianistica di Schumann, le Geistervariationen, ossia le “Variazioni del fantasma”, furono il frutto, come asserì lo stesso compositore prima di precipitare nelle tenebre, della visita che gli fece a suo dire lo spettro di Schubert, durante la quale l’entità del compositore austriaco gli dettò il tema che contraddistingue questo brano e che fa fuggevolmente la sua comparsa anche in un’altra delle ultimissime opere di Schumann, nel secondo tempo del concerto per violino, scritto per Joachim. Questa presenza ultraterrena nelle pagine epistolari non fa altro che saturare ulteriormente la greve atmosfera rievocativa, ammantandola di aspetti inquietanti, angoscianti (a volte sembra che ciò che si respira sia la stessa atmosfera morbosa presente ne Il giro di vite di Henry James, una delle più straordinarie storie di fantasmi, che Benjamin Britten mezzo secolo dopo traspose nel suo capolavoro operistico).
Opera avvolgente, rivelatrice, capace di scavare nelle pieghe della psiche, Memoriali sul caso Schumann assume, alla fine, un sapore quasi pirandelliano in un gioco di maschere, quelle dei sei personaggi chiamati a rievocare, all’ombra della grande assente/presente, Clara Wieck, i loro ricordi legati a quel 27 febbraio 1854 e al periodo successivo di Endenich, che scoprono di non essere dopotutto capaci di toglierle dai loro volti. È il gioco delle tante verità, ossia di ciò che in fondo l’arte, la vera arte, cerca di annullare dalle menti degli uomini.
Andrea Bedetti
Filippo Tuena – Memoriali sul caso Schumann
Il Saggiatore, 2017, pp. 252
Giudizio artistico 5/5