Siccome sono sempre più effettuate riletture in chiave metastorica di capolavori della cosiddetta musica classica, con la loro riproposizione in una chiave diversa da quella originale, vuoi nel genere rock, vuoi in quello jazz, bisogna porsi la domanda se tali operazioni abbiano un senso artistico, una loro validità intrinseca, un significato altrettanto autonomo o meno rispetto all’archetipo originario dal quale hanno tratto linfa e sostanza. Insomma, che cosa significa ri-proporre un Beethoven, non parliamo di un Mozart o di un Bach, visto che le loro opere sono state tra le più “saccheggiate”, o anche arie da opere dei numi tutelari del teatro lirico attraverso un linguaggio musicale diverso da quello originale? Tra i ricordi personali, e qui risaliamo agli anni della mia adolescenza, furoreggiò per qualche tempo, si parla dei primissimi anni Settanta, una band olandese, quella degli Ekseption, i cui brani rock erano una dichiarata scopiazzatura di celebri pezzi del sommo Kantor, per non parlare degli Emerson Lake & Palmer, i cui rimandi classici coinvolsero, tra gli altri, i Quadri a un’esposizione di Musorgskij-Ravel, permettendo ai più giovani del tempo, almeno per i più curiosi, di venire a conoscenza di opere che non appartenevano al genere rock; così come, in chiave jazz, le riletture decisamente più colte e articolate che un Jacques Loussier ha fatto quasi sempre attingendo dall’immenso catalogo bachiano; o, ancora, l’influenza che la musica classica, con chiari riferimenti armonici e melodici, ha avuto sul leggendario Modern Jazz Quartet, soprattutto sul suo leader e pianista John Lewis, e sulla sua capacità di trasferire le leggi del contrappunto barocco applicandole al contesto culturale della musica afroamericana degli anni Cinquanta e Sessanta. E gli esempi potrebbero continuare a iosa.
Premettendo che applicare una censura o una chiusura aprioristiche a questo tipo di operazione, appellandosi a pretestuose motivazioni da “duri e puri” sulla sacralità fine a se stessa di un genere musicale, farebbe rientrare coloro che le avanzano alla stregua di un novello Torquemada, va da sé che la definizione di tale validità culturale può risiedere nel setaccio rassicurante di una sensibilità estetica che ci faccia comprendere la reale portata di questa trasposizione metastorica. Questo perché eseguire la beethoveniana Per Elisa in chiave rock o il bachiano Concerto Brandeburghese n. 5 per trio jazz non deve far gridare allo scandalo, a patto che il processo di metastoricizzazione che viene attuato rappresenti un punto di partenza, ma non un punto di arrivo, vale a dire che il brano pianistico e il concerto barocco in questione possono rappresentare uno spunto, traendo origine dal loro linguaggio armonico e melodico per diventare un’opera-a-sé, facendo in modo che divengano altrettanti punti di partenza svincolati dal loro impianto originario, dando così vita a un qualcosa che porti a un definito loro punto di arrivo conchiuso e a sé stante. In questo modo, non si ascolterà più Per Elisa e il Quinto Concerto Brandeburghese, ma l’“altro” che risiede nel loro principio archetipo, dando così modo all’autonomia estetica della trasposizione metastorica di questi brani di acquisire una propria dignità temporale, oltre che artistica.
Certo, attraverso questo setaccio estetico, non sono molte quelle operazioni che intendono evidenziare possibilmente tale “altro-da-sé”, capaci di sfidare e vincere le leggi dell’espressione artistica e l’inesorabilità del tempo, ma quando ciò accade il prodotto metastorico ottenuto dev’essere considerato e rispettato nella sua attuazione estetica. Come nel caso della registrazione discografica, prodotta dalla Sony Music, che vede protagonista una delle più famose cantanti jazz del panorama italiano (e non solo), la pugliese Cinzia Tedesco che ha voluto incidere alcune celebri arie del repertorio pucciniano nell’album Mister Puccini in jazz, con la presenza della Puccini Festival Orchestra, diretta da Jacopo Sipari di Pescasseroli, e con la partecipazione di alcuni dei più abili musicisti del jazz nostrano, a cominciare da Stefano Sabatini al pianoforte, Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria.
A prima vista, la scelta fatta sui brani (“Che gelida manina” e “Quando me n’ vo” da La bohème, “E lucevan le stelle”, “Vissi d’arte, vissi d’’amore” e “Recondita armonia” dalla Tosca, “Coro muto” e “Un bel dì vedremo” da Madama Butterfly, “In quelle trine morbide” da Manon Lescaut, “Chi il bel sogno di Doretta” da La rondine e “Se come voi piccini io fossi” da Le villi) farebbe propendere su una semplice trasposizione dei medesimi in modalità jazz, in modo da poterli ri-conoscere facilmente partendo dalle loro inconfondibili e indimenticabili melodie; in realtà, proprio sulla base di quanto si è accennato sopra, Cinzia Tedesco e gli arrangiamenti di Stefano Sabatini hanno voluto attingere dall’impianto armonico e melodico di questi pezzi evitando però, allo stesso tempo, di restituirne una semplice e retorica trascrizione jazz; al contrario, il punto di partenza è stato poi decostruito, scorporato e rimodellato in una chiave del tutto originale, per dare vita a quel principio di autonomia estetica e temporale che li contraddistingue a livello di risultato finale, ossia il loro punto di arrivo.
Un’autonomia artistica che la voce di Cinzia Tedesco esalta in una prospettiva in cui il testo assume un connotato di piena indipendenza, trasformando il brano in un momento che vive in sé le sue peculiarità, che vengono arricchite, tinteggiate, esplorate dalla tessitura strumentale, la quale è il frutto a volte della compagine orchestrale, a volte dal richiamo individuale degli artisti jazz, a volte infine dal colloquio che orchestra e artisti ricamano sul dipanare vocale della cantante pugliese. Ed è qui che si coglie meglio la dimensione metatemporale di questa operazione artistica, la sua volontà di presentare un Puccini oltre lo stesso Puccini, contestualizzandolo, inserendolo in un ambito nel quale l’aria operistica viene diluita, liofilizzata all’oggi, all’adesso che viviamo nella nostra quotidianità.
Certo, magari ci sarà anche la curiosità, il bisogno da parte di alcuni di fare un raffronto tra il punto di partenza dato dall’opera originale per poi saggiarne il suo distacco dall’embrione, rendendosi così conto che a volte il distacco è stato più marcato, più accentuato, persino più violento, mentre in altre i richiami, il riecheggiare, il ripercorrere le antiche orme pucciniane è meno latente, più focalizzato. Senza dimenticare altri richiami, altri apporti, come quello che affiora nell’ultimo brano dell’album, con la ripresa dapprima orchestrale e poi chitarristica di “E lucevan le stelle”, in cui la struttura del pezzo subisce l’irruzione di materia dissonante, con un chiaro rimando alle tematiche armoniche di Béla Bartók, a un distorcere il suono facendolo colare come gli orologi di Salvador Dalì, facendo sì che l’opera del tempo diventi più evidente, marcata tra un prima e un dopo, tra un punto di partenza destinato a restare tale, nella volontà di Cinzia Tedesco, e un punto di arrivo che ha inevitabilmente un sapore diverso, che può piacere o meno, ma che vanta indubbiamente quella dignità che gli permette di essere e di restare.
Tale trasformazione, nell’atto di distacco dal punto di partenza, investe naturalmente anche l’impianto melodico, che viene frammentato, cesellato, scandito dalla voce dell’artista pugliese, divenendo un ulteriore elemento di esplorazione per sondare la materia sonora, in cui la concezione jazz a volte lascia spazio a venature che rimandano al cabaret espressionista, a dolori e ad amarezze che invece di essere gridati vengono enunciati con rotondità vellutate, come se Lotte Lehmann avesse voluto abbandonare per un momento Kurt Weill per restare abbacinata da Puccini. La caratura della voce di Cinzia Tedesco viene poi egregiamente sostenuta, stimolata, incitata dall’apporto della compagine orchestrale, ben diretta da Jacopo Sipari di Pescasseroli, così come il colloquio, il confronto, a volte serrato, quasi spietato, che gli ospiti jazz (oltre ai già citati, bisogna dare a Cesare ciò che è di Cesare e quindi ricordare Flavio Boltro alla tromba, Stefano Di Battista e Javier Girotto al sax soprano, Antonello Salis alla fisarmonica e Roberto Guarino alla chitarra) riescono a imbastire con la cantante pugliese.
Simone Sciumbata si è occupato della presa del suono, restituendo una ricostruzione più che buona; la dinamica è contraddistinta da un’ottima energia naturale, che non evidenzia enfasi di sorta e il palcoscenico sonoro ricostruisce i vari interpreti in modo corretto, soprattutto nella profondità tra voce e accompagnamento orchestrale. L’equilibrio tonale ha il pregio di non avere la voce di Cinzia Tedesco che sovrasta il timbro degli strumenti e il dettaglio è ricco di matericità.
Andrea Bedetti
Cinzia Tedesco – Mister Puccini in jazz
Cinzia Tedesco (voce) - Puccini Festival Orchestra Jacopo Sipari di Pescasseroli (direzione) - Stefano Sabatini (pianoforte) - Luca Pirozzi (contrabbasso) - Pietro Iodice (batteria) - Flavio Boltro (tromba) - Stefano Di Battista (sax soprano) - Javier Girotto (sax soprano) - Antonello Salis (fisarmonica) - Roberto Guarino (chitarra) – Pino Jodice (pianoforte)
CD Sony Music 19439706962
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5