La maggior parte del catalogo delle composizioni schumanniane, come si sa, riguarda il genere pianistico e, in rapporto ad esso, marginalmente quello cameristico che il compositore di Zwickau affrontò solo a partire dal 1842 con i tre Quartetti per archi op. 41, ideati facendo ricorso, com’era inevitabile che fosse, all’aiuto del “pilota automatico” dato dall’esempio beethoveniano. Ma è indubbio che per Schumann l’arte musicale cameristica rappresentò un genere totalmente più “puro” e immune dalle inevitabili influenze letterarie alle quali fu invece soggetta la sua musica pianistica; inoltre, della musica da camera lo affascinò la severità formale, retaggio degli ideali bachiani, senza però che tale rigidità d’impianto potesse smorzare o peggio annullare l’acceso spirito romantico che il musicista faceva defluire nelle sue opere, a partire da quella proverbiale Sehnsucht, colma di una passione e di una malinconia che rappresenta il suo indelebile marchio di fabbrica. Questa visione così dicotomica, tra lo Schumann pianistico e quello cameristico, ossia tra un genere contaminato da altre influenze artistiche e un altro refrattario da possibili influssi esterni fu d’altra parte condivisa dal violinista Joseph Joachim, uno degli amici più intimi di Schumann, il quale notò come l’ambito cameristico risultava essere più tormentato e formalmente instabile proprio nell’ultimo periodo che il compositore di Zwickau trascorse a Düsseldorf, tra ricorrenti crisi nervose e stati depressivi.

Ed è a questo periodo che appartengono le due Sonate per violino e pianoforte, op. 105 e op. 121, composte da Schumann nell’autunno del 1851 e registrate da Emmanuele Baldini al violino e Luca Delle Donne al pianoforte per la DaVinci Classics, al centro di questa recensione. Anche in questo caso, ma sarebbe meglio affermare, soprattutto in questo caso, le due pagine cameristiche in questione sono intrise da quelle caratteristiche che rendono unica la musica di Schumann, ossia slanci ardenti che mutano repentinamente in improvvisi ripiegamenti, con un alternarsi di impeti audaci e di tenerezze sublimi, di abissali introspezioni psicologiche e di sogni iperbolici. Da qui si può ben comprendere come in queste due Sonate, come ben specifica Chiara Bertoglio nelle note di accompagnamento, si ripresentino ancora le altrettanti proiezioni simboliche dello stesso Schumann, il malinconico Eusebio (e questo avviene specie nella Sonata n. 1 in la minore), e l’appassionato Florestano (soprattutto nella Sonata n. 2 in re minore), la cui presenza era già stata sancita attraverso alcune celebri pagine pianistiche, a cominciare dai Davidsbündlertänze. In un certo senso, è un ritorno alle origini, ma senza più mostrare ed evidenziare l’entusiasmo delle prime opere pianistiche; d’altronde, Schumann quando affronta per la prima volta il genere delle sonate per violino (oltre alle due in questione, vi è anche una terza, composta nel 1853, la WoO 27) ha oramai 41 anni e gli restano poco meno di tre anni prima che la parabola della sua vita subisca il tracollo definitivo che lo porterà a morire a Endenich nel 1856.

Ma già nel 1851 Schumann, una volta trasferitosi a Düsseldorf, si era trovato sotto pressione per via dei rapporti difficili con l’orchestra e con il coro, oltre che con gli emissari del consiglio comunale che gli avevano affidato il ruolo di direttore artistico. Ma, nonostante la difficoltà date dalle sue condizioni psicologiche, in quei mesi autunnali il compositore trovò le forze e l’ispirazione per scrivere nel giro di pochissimo tempo questi due lavori cameristici alquanto impegnativi. Questo perché entrambe le Sonate non possono di certo rientrare nel novero delle composizioni che all’epoca si facevano per la cosiddetta Hausmusik, ossia la musica cameristica che i dilettanti potevano praticare a casa: la loro visionarietà (e questo vale soprattutto per la seconda sonata) e il loro linguaggio introverso non hanno nulla a che fare con il tipico stile salottiero del tempo. Non per nulla, il dedicatario dell’op. 121 fu il celebre violinista Ferdinand David per il quale Mendelssohn scrisse il suo Concerto per violino, mentre i suoi interpreti ideali furono Joseph Joachim e Clara Schumann, che la eseguirono nella forma definitiva per la prima volta il 29 ottobre 1853 a casa Schumann, dopo che il musicista aveva voluto rimetterci mano all’indomani della prima, sempre casalinga, avvenuta il 15 novembre 1851, con Clara Wieck al pianoforte e con Joseph von Wasielewski al violino.

Il denominatore comune che lega queste due sonate è dato dal fatto che entrambe vedono ridotto al minimo il materiale tematico, il quale spesso e volentieri si ripresenta, dando così vita a un’affascinante circolarità; questo porta le due pagine cameristiche ad assumere una forma concisa (e questo vale per la Sonata n. 1), oltre a manifestare apertamente, quasi dolorosamente, un timbro da parte del violino fissato quasi sempre sul registro medio e grave, escludendo di fatto l’utilizzo di quello acuto, punto di forza dei violinisti romantici votati a un acceso lirismo, con il risultato di esprimere un suono cupo e malinconico. Inoltre, non manca Bach e la sfida a un linguaggio contrappuntistico che Schumann affida, anche in questo caso, alla Sonata in re minore, la quale, non dimentichiamolo, fu composta subito dopo quella in la minore in quanto il musicista, come confidò in una lettera indirizzata proprio all’amico e poi suo primo biografo Wasielewski, era rimasto del tutto insoddisfatto dagli esiti della Sonata n. 1.

Ecco, allora, che Schumann, affrontando la nuova sonata, volle distribuirla sui canonici e più equilibrati quattro tempi, dando sfoggio a dimensioni ben maggiori rispetto alla prima e che portò lo stesso Schumann, in termini quasi pomposi, a definirla große Sonate, ossia una “grande sonata”. Ma non si tratta solo di un problema di dilatazione temporale e spaziale del linguaggio ivi espresso, ma soprattutto di una maggiore sicurezza e stabilità formali derivanti da un’insoddisfazione scaturita, per l’appunto, dagli obiettivi che Schumann si era posto con la Sonata in la minore, vale a dire la volontà di esprimere e rendere compiuti (e questo avviene solo in parte) i consueti toni appassionati e fantastici dell’estetica schumanniana, il desiderio di portare in superficie un canto intimo e profondo e la l’aspirazione nel trovare un punto di raccordo attraverso il quale fare coesistere in nuove soluzioni formali il fluire continuo di voci segrete, celate tra i rimandi del violino e del pianoforte. Soprattutto queste ultime sono irrinunciabili nella concezione del musicista, votato, come nei personaggi che animano i dipinti di Caspar David Friedrich, allo slancio romantico verso l’indicibile, l’indefinibile, l’irraggiungibile e che è inesorabilmente condannato a restare irrealizzato.

Da questi cenni riassuntivi, si può ben comprendere come il mondo dell’interpretazione musicale non prenda spesso e volentieri in considerazione queste due opere, in quanto vengono considerate da molti “scritte male” e incapaci di fornire appigli squisitamente virtuosistici (proprio per la cronica mancanza del registro acuto nel violino).

Questo, però non accade nella lettura fatta da Emmanuele Baldini e Luca Delle Donne, i quali, diciamolo subito, approcciano entrambe le sonate con la giusta lunghezza d’onda. Ciò significa che vi è sempre un rapporto ideale tra i due strumenti che, ricorrendo a un’espressione latina, fluctuat nec mergitur, sono pienamente capaci di resistere alle ondate del linguaggio appassionato e melanconico schumanniano, evitando di affondare miseramente nelle profondità di un’interpretazione stereotipata e passiva, come invece capita spesso di ascoltare.

Il violino di Emmanuele Baldini, quindi, è sempre in grado di “galleggiare” splendidamente sui moti marosi dello spartito, restituendo in modo più che convincente, e questo vale anche per Luca Delle Donne, l’afflato interiore di Eusebio e Florestano i quali, a livello interpretativo, non devono essere resi come se fossero due distinte entità dicotomiche, il risultato di un presunto processo schizofrenico del quale avrebbe dovuto essere affetto Schumann (e il che rappresenta un’inenarrabile stupidaggine), ma una sorta di “Giano bifronte” che si presenta come un caleidoscopio dal quale le manifestazioni di Eusebio e Florestano possono apparire musicalmente anche allo stesso tempo, impregnando di fatto il linguaggio del musicista, come succede per l’appunto in queste due sonate nelle quali il violino e il pianoforte fanno emergere ripetutamente questa “simultaneità emotiva” (si pensi solo al primo movimento della Große Sonate, in cui il groviglio emotivo è dato da un nodo di Gordio nel quale le continue pulsazioni, le incessanti immagini, il perpetuarsi di fulminei stati d’animo sono l’esemplare rappresentazione di questo immane Giano bifronte che erutta le due personalità).

Ma questa fase di compiuta “galleggiabilità” interpretativa, di piena aderenza esecutiva vale anche nei frangenti in cui Eusebio e Florestano lasciano spazio all’esaltazione di una compiutezza formale in cui i due strumenti assumono il ruolo di portavoci di un’estetica classica, testimoni perenni di una tradizione sulla quale Schumann edificò il suo tempio dedicato alla Musica, ossia Bach, come avviene nel terzo tempo della Sonata in re minore, in cui la delicatezza dell’eloquio si stempera nella sacralità ieratica del corale Aus tiefer Not schrei ich zu dir BWV38. E se il violino di Emmanuele Baldini enuncia sempre con duttilità e precisione gli stati d’animo che affastellano le due opere in questione, trasformando il suo strumento in una cartina al tornasole, in un sismografo capace di registrare e riprodurre il progressivo distacco psicologico schumanniano dal mondo esterno, questo suo meraviglioso e commovente estraniarsi per aderire alle sfere ultime descritte teoricamente da Wackenroder e da Schopenhauer, il pianoforte di Luca Delle Donne non solo risponde colpo su colpo alle sciabolate inferte dal Sehnsucht dello strumento ad arco, ma propone sempre attivamente un ampliamento spaziale e temporale di ciò che viene enunciato dal violino stesso (è del tutto pleonastico ricordare come il pianoforte nella musica cameristica schumanniana abbia un valore assoluto), proponendo un’incessante diramazione timbrica, una dilatazione che completa necessariamente quanto viene indagato dal violino. E questo fa capire come queste due opere necessitino di un affiatamento a dir poco prodigioso per essere rese al meglio, cosa che i due interpreti dimostrano sempre di avere. In assoluto, una delle migliori versioni in commercio dell’op. 105 e dell’op. 121. Emozionante.

Di pari passo va anche la presa del suono, curata da Alessandro Sluga, che vede riprodotti coerentemente i due strumenti nello spazio sonoro, con il violino leggermente avanzato rispetto al pianoforte, scolpiti al centro del palcoscenico sonoro tra i diffusori. La dinamica è energica, così come la microdinamica, capace di esaltare debitamente i passaggi violinistici resi dal registro medio-basso e il timbro del pianoforte che, a livello di equilibrio tonale, non viene mai soverchiato da quello dello strumento a corde. Infine, anche il dettaglio risulta essere convincente, con entrambi gli strumenti che manifestano una matericità e una fisicità ragguardevoli.

Andrea Bedetti

 

Robert Schumann – Violin Sonatas op. 105 & op. 121

Emmanuele Baldini (violino) – Luca Delle Donne (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00136

 

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 4/5