Il tema della sofferenza, del dolore, della disperazione è congeniale all’arte, poiché entrambi rappresentano un porsi al di là di due confortanti ambiti, quello della felicità e quello dell’ordinarietà delle cose. Se il dolore è il concretizzarsi dell’infelicità, dello sperdersi nel nulla, l’arte è un richiamo all’ordine di quell’assurdità che chiamiamo vita, un antidoto dato da ciò che è straordinario rispetto all’attuazione stordente dell’ordinario. Il loro incontro, quindi, è inevitabile, tale è l’attrazione che l’una impone all’altra.

La cover del CD di The Holy Week Triptych da un dipinto dello stesso Hans-Jürgen Gerung.

Un incontro, questo, che nella storia della cultura e dell’arte occidentali ha trovato un adeguato compimento nella raffigurazione della Passione, della morte del Cristo su cui si fonda la fondazione e la costruzione del Cristianesimo. Dolore che si fa dunque mistero, sofferenza che, nelle intenzioni religiose, si trasforma dapprima in speranza e poi in certezza attraverso la veicolazione fideistica. E l’arte che tratteggia, spiega, raffigura e canta la Passione non fa altro che portare alla superficie di tanti quel che il dolore insegna a pochi, ossia in coloro che trovano nell’infelicità un nutrimento con il quale sfamare la necessità della stessa espressione artistica, l’unica, vera forma di libertà a cui può aspirare l’uomo, poiché come scrisse Schiller l’uomo può essere libero solo dentro se stesso.

Anche il compositore, chitarrista, liutista e pittore tedesco Hans-Jürgen Gerung, del quale mi sono già occupato in passato per via del suo percorso artistico tra i più originali e speculativi nell’ambito della musica contemporanea europea, ha voluto cimentarsi nel raffigurare, attraverso la propria sensibilità, il tema della Passione affrontandolo però con uno strumento più adeguato, dall’impatto esecutivo e uditivo più affine alla tradizione plurisecolare, quello del coro. Il coro che raffigura l’uno che diviene moltitudine, l’uno singolo che si esprime con l’uno collettivo, che nel numero trova la forza e il conforto per esprimere la propria angoscia.

Il compositore, chitarrista, liutista e pittore tedesco Hans-Jürgen Gerung.

L’opera di Gerung, intitolata The Holy Week Triptych e pubblicata dall’etichetta Gerung-Arts&Music, è stata registrata dall’Ensemble Cantissimo, diretto da Markus Utz, ed è suddivisa in tre parti: o vos omnes, tratto dai Salmi 74.1 & 82.2, Conductus, tratto dal “Choralis Costantinus”, più precisamente dal canto Haec dies & Pascha nostrum, di Heinrich Isaac e Resurrezione su versi della poetessa e pittrice faentina Alessandra Bonoli. Il tutto per una durata che non raggiunge i diciassette minuti di musica. Ma tale brevità, e parto proprio da quest’ultimo punto, non può essere considerata tale se si prende in oggetto l’atroce densità che l’opera del compositore tedesco offre all’ascolto, poiché questa brevità può apparire temporalmente solo se la si osserva su un piano orizzontale, come un segmento che, approcciato invece verticalmente, diviene una linea che si perde nell’immensità dello spazio. E chi ascolta, se si tratta di ascolto consapevole, oserei dire catartico, perde inesorabilmente il contatto temporale nel suo svolgimento orizzontale, lineare per addentrarsi in una profondità che ha il sentimento di un vortice, di una circolarità, la quale si esaurisce e riprende vigore sempre e unicamente da se stessa.

Una costante dell’arte musicale di Gerung è quella di attingere instancabilmente dal passato per rappresentare l’attuale, il presente; un collegamento che non è il frutto di un prevedibile fluire progressivo, ma che si pone come un ponte, il quale prende avvio da un territorio musicale e culturale circoscritto (la musica polifonica rinascimentale per arrivare fino a Bach) per poi proiettarla, come la gittata di un obice che colpisce un punto ben preciso, nell’alveo contemporaneo. Un obice al cui interno sono preservate, custodite cellule sonore che sedimentano e fanno sbocciare ramificazioni dissonantiche, gravate da un peso che inesorabilmente portano il canto a schiantarsi sulla superficie umana, quella che sovrintende la quotidianità delle cose, delle azioni, dell’attuazione del nostro divenire. E questo ponte che dà avvio a un asettico punto di partenza e un altrettanto asettico punto di arrivo, quasi non ci fosse altro a “sporcare” il messaggio sonoro, lo si può constatare anche nel lato pittorico dell’arte del compositore tedesco. Si osservi il quadro che Gerung ha voluto dipingere sul mistero della Crocifissione e che ha scelto come immagine per la cover del disco, così come il disegno, dedicato al medesimo soggetto, che appare nel booklet: è come se El Greco avesse viaggiato nel tempo per incontrarsi infine con Francis Bacon, una classicità formale che si stempera in un’altra classicità che altera formalmente la prima senza perderne la purezza espressiva.

Un tema caro del Gerung pittore, quello degli edifici.

E così sono i pezzi, i falsamente brevi segmenti che compongono questo Trittico, in cui i termini architettonici della musica rinascimentale di Heinrich Isaac vengono trattati sulla base di una novella modalità espressiva (la lezione di Ligeti sull’uso della voce è sempre in agguato) che trova il suo pieno compimento nell’ultimo brano, Resurrezione, che viene sperimentato, vissuto, reso spazialmente dal coro attraverso temi in cui la portata dissonantica porta voci isolate a sganciarsi dalla compattezza corale per urlare la parola “resistenza”: la speranza in una resurrezione diviene quindi possibilità di riscatto nell’umano esistere, che è così sancito mediante l’azione del r-esistere, dato da suoni percussivi, manifestati dagli stessi coristi, quasi fossero fratture dirompenti che intendono rompere la fallace compiacenza di uno status quo narcotizzante (non si dimentichi un altro aspetto caro a Gerung, quello di portare a compimento un’attuazione scenica, “teatrale”, presente perfino nelle sue composizioni per chitarra e liuto, con l’interprete che assume un ruolo attoriale in cui il gesto e il rumore che ne derivano hanno il compito di generare un afflato geometricamente tridimensionale: a livello pittorico si guardi come tale principio volumetrico venga esaltato nelle due opere accennate sopra, così come in un altro tema ricorrente nella pittura dell’artista tedesco, quello delle case, degli edifici, resi sempre con un respiro in cui le linee e i colori sembrano il risultato di un’inspirazione e di un’espirazione).

Ecco, semmai il punto è proprio questo, il voler dunque descrivere pittoricamente attraverso l’uso dei suoni, che siano emessi dalle corde di una chitarra o dalle voci di un coro, ponendosi al di fuori del “coro” di chi assiste senza r-esistere, prendendo a modello la rappresentazione della Passione, della Crocifissione e della Resurrezione del Cristo, ma senza pretendere di affrontare l’Assoluto (vi ricordate il verso di Louis Aragon?: “Chi va là? Ah, benissimo: fate entrare l’infinito!”), ma dando semplicemente (si fa per dire) “voce” alla concretizzazione umana di ciò che il mistero dell’infinito/Assoluto comporta.

Al termine di questi (finti) diciassette minuti del Trittico, la cui densità timbrica giunge a sfiorare l’insostenibilità, l’irruzione del silenzio assume i contorni di un dono, come una promessa di suadente continuità e con il respiro si fa sospiro. Come un’affinità, una disperata ricerca assimilativa, alla fine dell’ascolto mi è tornato alla mente il verso con il quale Joseph von Eichendorff conclude la poesia Im Abendrot e, parallelamente, di come Richard Strauss lo rende con la tenue scomparsa della musica nell’omonimo, ultimo dei suoi Vier letzte Lieder: «Ist dies etwa der Tod?», “È questa forse la morte?”.

Pensandoci bene, il senso ultimo di quest’opera di Hans-Jürgen Gerung può essere riassunto proprio come in questo verso, capace di annullare sia la tentazione della felicità, sia lo spettro dell’infelicità. Perché tutto si è compiuto.

L'Ensemble Cantissimo, protagonista di questa registrazione.

Se l’Ensemble Cantissimo, fondato nel 1994 da Markus Utz, è oggi una delle formazioni corali più apprezzate e richieste in Germania ci sarà un motivo e basta ascoltare la loro esecuzione di questo Trittico per comprenderne la portata espressiva della loro arte interpretativa; l’opera di Hans-Jürgen Gerung presenta continue difficoltà e arditezze, in cui la padronanza della resa canora si deve unire alla già citata capacità di manifestarla con un’adeguata e ineludibile teatralità, senza dimenticare la dimensione spettrale, un implacabile muro timbrico, perfetto negli attacchi così come nel ricamare tenui sfumature. Il tutto sotto la sapiente e appassionata direzione da parte dello stesso Markus Utz.

Anche la presa del suono è convincente, con il coro ricostruito, grazie a una dinamica che non lesina precisione ed energia, in profondità e altezza all’interno del palcoscenico sonoro. E se l’equilibrio tonale è sempre rispettoso nel restituire il registro acuto e quello grave senza sbavature, il dettaglio denota un’ottima matericità nella riproposizione vocale.

Andrea Bedetti

Hans-Jürgen Gerung – The Holy Week Triptych - Contemporary sacred choral music

CD Gerung-Arts&Music

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5