L’antropocentrismo manifestatosi dapprima nell’Umanesimo e poi nel Rinascimento non volle porre l’uomo al centro dell’universo, ossia con l’obiettivo di sostituirsi a Dio, quanto con quello di imitarlo nel relazionarsi con le cose e la realtà che lo circondavano, vale a dire imitare (e da qui si comprende meglio la rivalutazione di un pensatore come Platone avvenuta proprio in quell’epoca) per capire. Questo processo di imitazione, con l’uomo che cercò di scoprire l’oggetto intorno a sé, predilesse determinati strumenti di approccio e di comunicazione, a cominciare da quello della simbologia, così fittamente impiegato nell’arte pittorica del tempo. Ma l’uso dell’allegoria, del dire-una-cosa-con-altro-da-sé non appartenne solo alla pittura, ma anche al mondo dei suoni, impiegando la musica, quasi esclusivamente rappresentata dalla voce, soprattutto nelle sue manifestazioni più colte, appartenenti alla sfera della musica sacra, per offrire all’ascoltatore elementi di disvelamento, in cui l’applicazione armonica del linguaggio musicale poteva subire improvvise mutazioni stilistiche in concomitanza di determinati passaggi del testo che veniva cantato. Mutare per disoccultare, quindi, cambiare repentinamente un tessuto sonoro per manifestare un altro-da-ciò-che-era-prima.
Da queste poche note si può dunque arguire come la bellezza, la profondità, l’unicità della musica rinascimentale si delineino anche attraverso una duplice lettura che si può fare di essa, basata su quella che si può arditamente definire una sorta di sincronicità ermeneutica, formata quindi da una duplice linea, quella evidenziata in superficie, resa fisicamente dal susseguirsi dei suoni, e quella celata, occultata metafisicamente tra i suoni. Ciò permise ai compositori dell’epoca di dare vita ad autentiche “cattedrali sonore”, in cui le zone di luce (la fisica dei suoni) formarono inevitabilmente delle zone di penombra o di ombra (la metafisica tra i suoni) in un continuo gioco tra “apparenza” e “comprensione” in guisa di “verità”.
E nessuno, per ciò che riguarda l’edificazione di questa “sincronicità ermeneutica”, fu in grado di esaltarla come colui che viene considerato giustamente il più grande musicista nella fase di passaggio tra il XV e il XVI secolo, vale a dire Josquin Desprez, il quale, come argutamente sentenziò Martin Lutero, fu l’unico a plasmare le note, essendone il padrone, e non nell’esserne padroneggiato, come accadde invece ai musicisti coevi. Per capire come Desprez riuscì a plasmare le sue creazioni musicali arriva a tale proposito una novità discografica, intitolata In principio - De nativitate Jesu Christi, prodotta e distribuita dalla Baryton, che vede l’ensemble De labyrintho, diretto da Walter Testolin (leggi qui la sua intervista), presentare undici mottetti del grande compositore franco-fiammingo. Una scelta mirata, quella dell’ensemble specializzato in musica antica e più specificamente proprio del repertorio di Desprez, visto che prende in considerazione mottetti basati su testi biblici e di devozione, tutti concernenti la stirpe di Cristo, alcuni momenti della vita della Vergine Maria, la nascita di Gesù e i suoi primi anni di vita. Per la precisione, i brani sono Liber generationis Jesu Christi, Missus est Gabriel angelus, O Virgo virginum, In principio erat Verbum, la celeberrima sequenza natalizia Praeter rerum seriem, O admirabile commercium, Quando natus est, Rubum quem viderat Moyses, Germinavit radix Jesse, Ecce Maria genuit e Factum est autem.
Per comprendere (nel senso rinascimentale del termine, come si è accennato all’inizio) il pieno significato di questi capolavori polifonici (tutti i mottetti, tranne O Virgo virginum e Praeter rerum seriem, sono a quattro voci), soprattutto per coloro che non conoscono la visione artistica e spirituale del compositore franco-fiammingo, è imprescindibile la lettura delle dotte note introduttive scritte per l’occasione da Willem Elders, ossia da colui che può essere considerato il massimo studioso vivente dell’opera di Desprez (il suo saggio Josquin des Prez and His Musical Legacy è un’autentica miniera che mette a fuoco il musicista, situandolo mirabilmente nel suo tempo, testo che naturalmente non è stato ancora tradotto in italiano). Nel booklet il musicologo olandese spiega l’architettura di questi mottetti e indica con lucida precisione quei passaggi nei quali Desprez inserì genialmente quei minimi cambiamenti, quelle mutazioni armoniche per disvelare l’arcana importanza di quei momenti in cui il suono si associa a innegabili simbolismi che, a loro volta, aprono la porta a potenti illuminazioni spirituali ed escatologiche. Tanto per fare qualche esempio, Elders fa notare giustamente come Desprez, oltre ad essere stato il più grande musicista della sua epoca, fu anche un raffinato esegeta, profondo conoscitore delle sacre scritture, in grado di instillare spunti teologici nelle sue opere, anticipando di fatto quanto farà in seguito Bach: così, nel mottetto In principio erat Verbum, incipit del Vangelo di Giovanni, suddiviso in tre parti, con la seconda spropositatamente più lunga e articolata rispetto alle altre due, il princeps musicorum fa in modo di esaltare il testo evangelico attraverso delle ardite scelte armoniche. Il significato teologico del Verbo, da intendere anche nel suo lato oscuro, ossia di “peccato”, viene circoscritto da Desprez nel quinto verso Omnia per ipsum facta sunt mediante l’utilizzo di una terza discendente (!) ribadita per undici volte (!!), come a voler portare luce nelle tenebre, una luce che non serve però per redimere, per purificare e mondare, ma solo per evidenziare, ammettendo di fatto l’esistenza del peccato stesso, ossia dell’elemento senza il quale l’uomo non può salvarsi. Inoltre, nel mottetto O admirabile commercium, Desprez all’inizio usa un passaggio di cinque note su terze discendenti, focalizzate sull’esclamazione “O”, cui segue una melodia di quattrodici note, alternate da sonorità maggiori e minori, la cui funzione può essere quella di simboleggiare la duplice natura del Cristo, quella divina che si concretizza in quella umana, in un continuo oscillare.
Ecco come nel Rinascimento la musica, allo stesso modo dell’arte pittorica, tende a insegnare, a far conoscere, utilizzando, nel suo grado più elevato, l’espressione artistica per “illuminare” coloro che osservano e che ascoltano attraverso una simbologia che ha una duplice funzione: da una parte far apprendere, ma dall’altra riservata solo a coloro che possono vantare quei determinati meccanismi decostruttivi atti a dipanare l’apparenza dall’essenza. In fondo, buona parte della musica di Desprez è un meraviglioso setaccio attraverso il quale il mondo dei suoni permette di percorrere sentieri che sono altrettanti strumenti di conoscenza, una conoscenza che può essere intesa sia in chiave neoplatonica, pur senza entrare in aperto contrasto con l’aristotelismo abbracciato dalla Chiesa, sia come vera e propria “fonte di illuminazione” per giungere al cuore delle sacre scritture.
Quando oggi uno o più interpreti affrontano la lettura di una composizione medievale o rinascimentale, devono tenere ben conto di un imprescindibile stereotipo che potremmo definire “immaginativo”, che per l’uomo contemporaneo può risultare alquanto difficile, ma che fu radicato nella cultura di quelle epoche, ossia che esistesse l’idea “conoscitiva” di una musica degli angeli, alla quale ogni musica concepita dagli uomini, soprattutto quella riservata all’ambito del culto, avrebbe dovuto sempre conformarsi. Di conseguenza, tutta la musica di cui oggi noi abbiamo una documentazione scritta, partendo dall’epoca carolingia fino al Cinquecento (quindi, il canto gregoriano e la polifonia), fu creata e recepita all’interno dell’orizzonte estetico di questa concezione, sulla quale in quegli stessi secoli venne consolidandosi il fondamentale impianto della teoria musicale, al punto che anche i rari casi di opere musicali prodotte fuori dal contesto liturgico, dunque rientranti nella musica profana, soggiacciono alla medesima concezione, in quanto qualsiasi forma di musica colta fu creata con gli stessi mezzi espressivi e con le medesime tecniche compositive della musica sacra.
Ed è ciò che dimostrano i componenti dell’ensemble De labyrintho, i quali hanno approcciato e reso questi mottetti di Desprez con tale spirito, permettendo all’ascoltatore di poter “immaginare”, senza poter naturalmente conoscere (ossia senza poter pre-comprendere, come ci ricorda giustamente Gadamer in un celebre passaggio di Metodo e verità), la voce umana che cerca di raggiungere quella degli angeli: significa, quindi, che chi canta, come appunto hanno fatto i membri dell’ensemble in questione, nel momento stesso in cui esprime il suo canto, deve anche saper immaginare il suono che esprime. E ciò vuol dire cantare prima di tutto con l’anima, per poi svolgere il suo ruolo ermeneutico, “fisico”; solo in questo modo l’ascoltatore consapevole, non distratto, “attivo”, può essere coinvolto in questa dimensione “immaginativa” della musica, e ciò vale non solo per quella di Desprez.
Da ciò, la lettura fatta dai componenti dell’ensemble De labyrintho, diretti idealmente da Walter Testolin, rappresenta un esempio di come tale musica può essere immaginata, non solo in sede di esecuzione, ma anche e soprattutto di pre-esecuzione, ossia la ricerca di immaginare un canto che oggi può essere reso solo in tal guisa, non avendo la possibilità di una reale preconoscenza di ciò che dev’essere storicamente reso. Voci, quindi, capaci di sorgere dal nulla, materia sonora in grado di manifestarsi dapprima da quelle intangibili sfere celesti in cui il silenzio è il suono primigenio, per poi concretizzarsi, trasformarsi in materia impalpabile, dando modo al canto stesso di essere respiro, vero e proprio πνεῦμα, nel senso dato dal pensiero greco, un “soffio vitale” che trasmette profondità, vertigini abissali nelle quali specchiarsi. Per spiriti che sanno ascoltare.
La presa del suono, effettuata da Marco Taio nella Chiesa di Santa Maria e San Zenone a Zugliano, in provincia di Vicenza, ha il pregio di trasmettere fisicamente la dimensione ieratica del canto; la dinamica vanta una grande energia e una gradevolissima naturalezza, capace di escludere indebite enfasi o colori vocali del tutto inappropriati. Da qui un palcoscenico sonoro che ricostruisce in profondità e in altezza la massa corale delle voci, con una notevolissima concretezza fisica degli interpreti calati idealmente nello spazio fisico dell’evento; l’equilibrio tonale riesce ad essere sempre rispettoso dei registri grave e acuto, con un pregevole scontorno dei timbri, per cui le voci possono essere facilmente individuate. Infine, il dettaglio è intriso di matericità, restituendo non solo la voce in sé, ma anche la presenza materica degli interpreti grazie al tantissimo nero che li circonda, il che permette sempre un’ottima messa a fuoco non solo dei cantanti, ma anche dell’ambiente nel quale è avvenuta la cattura del suono.
Andrea Bedetti
Josquin Desprez – In principio - De nativitate Jesu Christi
De labyrintho – Walter Testolin (maestro del coro)
CD Baryton DL001/21
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5