Riccardo Chailly dirige Cherubini e Verdi alla Scala
Una sessantina di posti liberi in platea e qualche palco vuoto non fanno un bell’effetto; ma d’altra parte, quando si tratta dell’enorme Teatro alla Scala, anche così si può comunque parlare di un pubblico molto numeroso in assoluto. Ci spiace per gli assenti, che si sono persi musiche che si ascoltano di rado, come la Sinfonia di Cherubini, o quasi mai, come l’Ouverture da concerto del medesimo autore; i presenti, dal canto loro, non devono essere stati ospiti abituali del venerabile teatro né di altre sale da concerto, visto che hanno applaudito alla fine del primo movimento della suddetta Sinfonia, zittiti poi dai connaisseur al tentativo di applaudire anche dopo il secondo. Se vogliamo ricercare il lato positivo, apprezziamo il fatto che il Teatro alla Scala attiri nuovo pubblico e speriamo che lo convinca a trasformare in piacevole abitudine una serata trasgressiva come quella passata in silenzio e in ascolto tra velluti rossi e con i telefonini spenti – essendo quest’ultimo, in verità, più un auspicio che un fatto, smentito dai fischi e dai cinguettii elettronici che hanno spiacevolmente riempito le pause e i tacet.
Nel 1815 Cherubini non dirige ancora il conservatorio di Parigi (ne sarà a capo dal 1821 al 1842, dimettendosi pochi giorni prima di morire) ma si firma già da tempo Louis – Charles. Nella capitale francese dal 1788, ha passato indenne la Rivoluzione e ha accresciuto la propria fama sotto Bonaparte, acquisendo un prestigio internazionale. Ma la sua immagine sta cambiando: da giovane compositore operistico di successo sta diventando una figura istituzionale europea che rappresenta la difesa dell’accademia, un emblema della tecnica compositiva della tradizione, di cui è maestro impeccabile e universalmente riconosciuto. Reagendo con un certo disappunto allo scarso favore di cui hanno goduto i suoi più recenti tentativi operistici, Cherubini accetta di buon grado l’invito della Royal Philharmonic Society di Londra, che gli offre una serie di concerti. per i quali gli commissiona, oltre a una cantata, due brani sinfonici: L’Ouverture da concerto, eseguita con grande successo nella primavera del 1815, e la Sinfonia in re maggiore, accolta un po’ più freddamente qualche settimana dopo. Nello stesso ordine le presenta Riccardo Chailly alla testa dell’Orchestra del Teatro alla Scala, giustamente utilizzando l’Ouverture a mo’ di introduzione. C’è drammaticità nel brano, con i fremiti dell’allegro in sol minore contrastati dai passaggi quasi corali degli archi. Non sono però molto incisivi i temi melodici di Cherubini, non di rado quasi stereotipati (e si noterà ancor di più nella sinfonia), spesso ridotti a scale e arpeggi: Chailly pare rendersi conto di questo limite, e scava nella struttura compositiva per rivelarne il vero interesse, che risiede nel raffinato contrappunto. È difficile, nella scrittura di Cherubini, isolare una linea portante: la bellezza severa della sua musica spesso emerge dal fatto che ogni dettaglio è ugualmente rilevante all’interno di un meccanismo a orologeria in cui il più piccolo ingranaggio ha una funzione fondamentale. Ma la lettura di Chailly, così trasparente, così curata nell’equilibrio delle sonorità, così elegante, convince fino in fondo e rende la vera poesia di Cherubini: il fasto e la varietà della strumentazione risultano in tutta la loro forza, e il flusso della musica vince il pregiudizio che la vuole poco narrativa, facendosi non di rado trascinante. Ci si può chiedere se l’enorme orchestra tardo-romantica, con la massa dei suoi archi, con i fiati moderni, non conferisca un velluto magari troppo morbido a musiche del 1815 che già rischiano peraltro di essere accusate di compassato accademismo: forse i corni naturali, i legni antichi, le sezioni ridotte degli archi potrebbero restituire all’anziano Cherubini un po’ di pepe e di naturale acidità. Ciò detto, il direttore ha contenuto gli archi in un’elegante compattezza, sorvegliando in modo ammirevole le sonorità, mettendo in luce le particolarità timbriche di ogni intervento di legni e ottoni, concedendosi solo il vezzo di distendere appena qualche cadenza nei tempi rapidi dell’Ouverture. Forse di tanta chiarezza hanno giovato in particolare il Larghetto cantabile della Sinfonia, che rischia di suonare statico e pomposo e che invece si è rivelato in tutto il suo classico splendore, e il successivo Minuetto, il cui Trio, protagonisti i fiati, ha colpito per la bellezza spettrale – quasi un’allucinata parodia neobarocca – dell’impasto timbrico.
Se a Parigi nel 1815 il musicista ormai più francese che italiano Cherubini si sta avviando a divenire figura istituzionale, quarant’anni dopo nella stessa città Giuseppe Verdi, già compositore affermato, cerca un riconoscimento a livello europeo facendovi rappresentare “Les vêpres siciliennes”, la sua prima opera composta direttamente in lingua francese (“Jérusalem”, del 1847, era un rifacimento de “I Lombardi alla prima crociata”) e nel gusto parigino, un vero Grand Opéra in cinque atti con tanto di balletto. E proprio con i ballabili delle “Quattro Stagioni” tratti da “I vespri siciliani” si apre la seconda parte del programma della serata, che terminerà con la sinfonia introduttiva della medesima opera: la scelta pare contraddittoria, ma in verità i ballabili sono incastonati nell’azione prima del sontuoso finale del terzo atto, e risulterebbero forse inadatti come conclusione; al contrario, la sinfonia funziona benissimo come brano da concerto a sé stante.
L’orchestrazione di questi ballabili, anche in confronto con il precedente Cherubini, benché fastosa è tutto sommato convenzionale, se si considera il Verdi di quegli anni: gli archi opposti ai legni; il flauto (corroborato dall’ottavino) perlopiù in raddoppio dei violini ad aggiunger brillantezza o impiegato in poco gratificanti e faticosi arpeggi in staccato; clarinetto e oboe premiati con episodi solistici cantabili; gli ottoni a sostegno ritmico e armonico. Ancora una volta si apprezzano la trasparenza e l’equilibrio del direttore milanese, che sembra forse voler esaltare l’eleganza e il respiro europeo probabilmente agognati da Verdi. Pur nel rigore assoluto del ritmo, gli elementi di accompagnamento sono sempre delicati, la metrica non è mai evidenziata con pesantezza, la musica scorre liberata da ogni tentazione volgare o bandistica, la cantabilità dei temi è evidenziata con nitidezza, i numerosi cambi di tempo regolati con gesto sicuro che permette agli archi sicurezza e e compattezza nei pizzicati. All’ascolto di uno strumentista dotato di uno straordinario controllo del suono, del vibrato e del fraseggio come il primo oboe della Scala, saremmo già soddisfatti se il direttore si limitasse ad accompagnarlo con dovizia: Chailly fa di più, rendendo la pulsazione ritmica di sapore pastorale degli archi con una dolcezza e una compattezza di morbido velluto, e così “l’Estate” si illumina di una poesia dolente che lascia il segno. Nell’esordio della Sinfonia Chailly ha il coraggio di rispettare l’indicazione verdiana, donandoci un vero Largo, cupo e minaccioso, e tenendosi lontano dall’esempio di chi, per imprimere vivacità e fuoco marziale, spinge il ritmo più verso un andante mosso. Con impeccabile controllo del meccanismo orchestrale, nei tempi rapidi il direttore è trascinante senza eccessi garibaldini, evitando volgari accelerazioni non scritte, conducendo il flusso a un finale logico e luminoso, accolto, questa volta, da applausi convinti e al momento giusto. Forse il pubblico avrebbe perfino apprezzato un bis.
Paolo Borgonovo
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Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
PROGRAMMA
Luigi Cherubini – Ouverture da concerto in sol maggiore – Sinfonia in re magg.
Giuseppe Verdi da I Vespri Siciliani: Ballabili (Le quattro stagioni) – Sinfonia
Serata del 20 marzo 2016