Mariss Jansons dirige la Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks ed entusiasma la Scala sulle note della Settima sinfonia di Shostakovich. La passionale energia del celeberrimo direttore d’orchestra incontra l’adamantina nitidezza delle sonorità dei bavaresi e strega il pubblico

La primavera della Scala inizia col racconto di un lungo inverno. Quello durato novecento giorni, che vide la popolazione di Leningrado – l’odierna San Pietroburgo – opporsi all’oscuro assedio nazista. Narratrici sono le note della settima sinfonia di Dmitrij Shostakovich, che dalla città di cui si racconta prende il nome, dipingendo un affresco a mille voci in cui il volto di un popolo si trova faccia a faccia col male e non china il capo, né quando il pianissimo disvela goccia a goccia la profondità di una muta desolazione, né in quei momenti in cui il fortissimo raggiunge il suo massimo, afferrando i suoni e trattandoli come fossero violenti incontri di fiamme e cupezza su una tela espressionista. In nessuno di questi estremi – e nemmeno nelle infinite gradazioni di tensione e speranza che li separano – si ha la sensazione di una resa allo sconforto capillare che la devastazione del conflitto innesca. Sempre, anzi, i temi dei quattro movimenti si comportano come un cuore che sopravvive a qualsiasi tempesta, convertendo il freddo dell’estenuante inverno in un alleato, senza mai smettere di mostrarsi consapevoli del fatto che la primavera, non importa quanto lontana, tornerà. Questo è Shostakovich. Abbiamo visto il direttore Mariss Jansons catturare con la sua bacchetta quella consapevolezza della finitudine dell’inverno e renderla evidente guidando una delle più grandi orchestre mondiali verso un’interpretazione che brilla per sonorità dall’indescrivibile nitidezza, in grado di mostrare che alle pennellate musicali espressioniste cui poc’anzi si accennava possono essere regalati i netti contorni di drammatico realismo pur rimanendo fedeli all’opera. Con esaltante coinvolgimento, Jansons conduce la Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunk verso la realizzazione di quest’alchimia fin dal primo movimento. Qui, nell’allegro, che tratteggia l’atarassia ingenua e la vitalità bucolica di una Leningrado vista prima dell’assedio, si rimane incantati dalla purezza che la voce degli strumenti dell’orchestra bavarese incarna, introducendo lo spettatore nella storia prima con un delicato e quasi idilliaco dialogo tra archi, legni e ottoni, poi con un più intenso incontro di voci, che sottintende un avvio sempre più chiaro verso l’imminente giustapposizione dei timbri.

Quando ormai ci si è inoltrati nell’assedio, il fronteggiarsi aspro tra la nube di tenebra e la vita di un popolo non assume mai toni convulsi: anche il caos dell’estrema minaccia che incombe è reso dall’orchestra bavarese con un deciso incedere di atmosfere, mentre l’ascoltatore non viene mai abbandonato dalla tragica precisione con cui i piatti entrano in scena, scuotendo l’intero ensemble con una vibrazione che sa di ineludibile e che ritrae l’infrangersi della vita normale nella guerra. E qui, torna alla mente un romanzo di qualche tempo fa, “La questione del metodo” del francese Bonnet Jacques, in cui un illuminante Giordano Bruno descrive agli altri personaggi come la guerra rappresenti sempre la distruzione degli sforzi che, in tempo di pace, portano filosofi e cercatori di conoscenza a insistere sulla necessità di sottolineare che la realtà è una composita gradualità di sfumature, non certo un ordine semplicistico di tinte piatte. Questi ultimi la guerra sostituisce alla più verosimile progressione di tonalità. Lo stesso concetto traspare dal crescendo dell’ultimo movimento, l’Allegro non troppo in cui l’orchestra di Monaco scaglia nell’aria la bellezza di un incontro sonoro che mantiene il colore di tutte le tessere del mosaico compositivo, anche se al di sotto dell’ostinato imporsi delle percussioni e del susseguirsi indiavolato di scontri tra archi e fiati. A questo punto, davvero, sembra di vedere non soltanto il popolo di Leningrado in lotta, ma tutti i popoli e tutti gli uomini, accomunati dalla stessa preziosa arma di fronte all’imperversare del male: vivere il suono del conflitto e, allo stesso tempo, continuare a cogliere l’esistenza delle sfumature, il sentore di luce che comunicano, il vento di primavera che esse ricordano. Tutto questo è reso da Jansons con l’energia catartica che trasmette all’orchestra e che l’orchestra, a sua volta, regala al pubblico. Riaffiora e si fa strada in punta di piedi il tema iniziale, come sussurrato dai primi violini. Chi ascolta sta col fiato sospeso, almeno fino a che sono i legni a riprendere la stessa melodia, cedendo poi d’improvviso il passo all’immersione di platea e gallerie nel ritmo di una irrinunciabile battaglia, che nel climax finale diventa tangibile, esaltante emozione. Il pubblico che saluta Jansons applaude con trasporto, quasi con passionalità. “Tanto battito di mani perché l’uditorio non era lo stesso di sempre”, sentenzierà più tardi uno spettatore che, evidentemente, alla Scala si sente di casa. Anche se fosse, quel pubblico che “non era il solito”, ha dato la sensazione di vibrare della stessa certezza: alla fine del lungo inverno di novecento giorni, Jansons ha regalato a chi ascoltava uno strepitoso slancio verso la primavera.

Sara Chessa

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Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese

Direttore: Mariss Jansons

PROGRAMMA

Settima sinfonia di Dmitrij Shostakovich, detta “Leningrado”

Serata del 21 marzo 2016