La storia della musica colta, con il suo lungo percorso che si snoda in più di mille anni a partire dal canto gregoriano fino ai nostri giorni, è il frutto dell’opera di svariate migliaia di autori, anche se quelli che ci vengono tramandati e dei quali ascoltiamo i loro lavori solitamente non rappresentano che a malapena il cinque per cento, ad essere a dir poco ottimisti. Al di là dell’olimpo nel quale trovano posto i soliti noti, da Bach a Stravinskij, abbiamo modo di conoscere e di ascoltare mediamente (e questo vale anche per noi critici e per gli altri “addetti al lavoro” nel campo musicale) poche altre decine di compositori che a turno vengono magari scoperti o riscoperti, tirati fuori dal dimenticaio del tempo per poi magari tornarvi, lasciando il posto ad altri colleghi, defunti da poco o da secoli, altrettanto “ingiustamente dimenticati dalla storia e dai posteri”. Infine, ad un ulteriore gradino inferiore, come se fosse un girone infernale di dantesca memoria, troviamo lo sterminato arcipelago dei “carneadi”, ossia di coloro che rappresentano l’ossatura della plurisecolare tradizione musicale occidentale, i “peones del pentagramma”, gli onesti “musici”, quelli che hanno impregnato nel tempo il tessuto sociale e culturale occidentale con la loro opera di insegnamento, didattica, trasmissione del sapere musicale e anche di composizione, consci del fatto di non essere dei geni e di non poter ambire ai posti privilegiati dell’olimpo, ma depositari della materia sonora e dell’arte di saperla divulgare, oltre a confezionare opere che, ascoltate ancora oggi, non fanno storcere il naso o sorridere sotto i baffi con malcelato imbarazzo.

A quest’ultima categoria (ripensandoci bene, ultimo gradino suona, è il caso di dirlo, alquanto perfido e politically uncorrect) appartiene sicuramente il roveretano Giacomo Gotifredo Ferrari, nato nel 1763 e morto a Londra nel 1842, ossia in un lasso di tempo in cui fu sicuramente (e felicemente) figlio di quel classicismo viennese nel quale si riconobbe non solo a livello musicale, ma anche culturale ed esistenziale, fedele suddito austroungarico e depositario di un ésprit de vie votato al monarchismo e a una concezione sociale refrattaria e antitetica agli ideali rivoluzionari che lo costrinsero ad abbandonare Parigi e l’incipriato ambiente mondano delle Tuileries all’indomani della fine della monarchia; ma Ferrari, malgré soi, non si riconobbe poi nei panni del nipote di un Romanticismo che non comprese e che non accettò mai, lontano a livello siderale da quel concetto di Sehnsucht che animò lo spirito della musica e della cultura romantiche, così come da quelle istanze titaniche insufflate a turno da un Beethoven e da un Jean-Paul, e se per questo nemmeno dal Romanticismo più compassato e più aperto a un Classicismo apollineo incarnato da Mendelssohn (il quale, è bene ricordarlo, morirà solo cinque anni dopo Ferrari, anche se le differenze musicali tra i due sono almeno di cinquant’anni).

Sì, perché il compositore roveretano, seppure fu un cosmopolita, capace di viaggiare tra Roma, Napoli, Parigi e Londra, e quindi entrando in contatto (privilegio che toccò a pochi all’epoca) con musicisti, tra gli altri, come Giovanni Paisiello, Muzio Clementi, Franz Joseph Haydn e Luigi Cherubini, rimase un uomo e parallelamente un artista votato al Welt von Gestern, al “mondo di ieri”, improntato a una concezione classica dal retrogusto rococò, votato a una mondanità fissata sulle tele di un Watteau e di un Constable, nei romanzi di un Laurence Sterne e di un Pierre Choderlos de Laclos, così come nella rassicurante dimensione dell’ancien régime mandato in frantumi dalla rivoluzione francese che costrinse Ferrari a lasciare Parigi per trovare rifugio in quel di Londra.

Spiegare l’uomo Ferrari serve naturalmente a conoscere meglio il Ferrari musicista, ossia un artista che rimase musicalmente legato al Settecento e al culto verso quello che considerava il più grande compositore, Wolfgang Amadeus Mozart, da lui considerato punto di riferimento assoluto e ineludibile, la cui ammirazione però non doveva scadere in un’operazione di “scimmiottamento”, tanto è vero che il compositore roveretano prese a modello gli spartiti e le partiture del genio salisburghese per poterle studiare, per impossessarsi di quel linguaggio solo per conoscere più a fondo le sue peculiarità e non per immetterle nelle sue opere, conscio del fatto che non sarebbe mai stato in grado nemmeno di avvicinarsi alle vette inviolate rappresentate dalle opere mozartiane. Ma è altrettanto vero che Ferrari considerò Mozart un modello a cui rifarsi “cristallizzandolo” in una dimensione storica ed estetica nella quale la figura del compositore salisburghese assurgeva al ruolo di colui che era stato capace di giungere ai massimi risultati del rococò e delle sue potenzialità stilistiche, non cogliendo invece la portata rivoluzionaria del suo messaggio globale. D’altronde, Ferrari, uomo e artista legato indissolubilmente al “mondo di ieri”, mantenne lo sguardo perennemente rivolto alle sue spalle, prendendo a modello un passato che ormai non poteva più trasformarsi in presente, né tantomeno proiettarsi in un futuro nel quale, come si è visto, il Romanticismo e i suoi silemi rappresentavano un mondo a lui sconosciuto, incapace musicalmente e culturalmente di attingere da quel classicismo che era stata la sua casa per vederla occupata da un nuovo inquilino considerato alla stregua di un perfetto sconosciuto, così come i tempi che mutavano intorno a lui, anche nella sua nuova patria in terra d’Albione, dopo essere entrato in contatto (e nelle grazie) della classe aristocratica londinese.

Giacomo Gotifredo Ferrari in una raffigurazione dell’epoca.

Ed è proprio all’interno di questo contesto che prendono spunto due sue opere cameristiche che Corrado Ruzza al pianoforte, Myriam Dal Don al violino e Federico Magris al violoncello hanno voluto registrare per l’etichetta Tactus, ossia le Tre sonate op. 25 (risalenti al 1792) e i Tre trii op. 11 (che furono composti due anni più tardi). Opere che furono scritte quindi nei primi anni di permanenza di Ferrari a Londra dopo essere scappato dalla Rivoluzione francese e che vedono, in un certo senso, lo zampino di Franz Joseph Haydn, il quale in quel periodo era spesso ospite nella residenza di campagna del visconte Hampden. Quest’ultimo era un appassionato di musica e un dilettante del flauto (Federico II di Prussia, in tal senso, aveva fatto indubbiamente proseliti tra la nobiltà europea) e non gli sembrò vero di poter avere un accompagnatore al clavicembalo come Ferrari (presentatogli proprio da Haydn), il quale era didatta di canto della principessa del Galles e già maestro della regina Maria Antonietta a Parigi, costringendolo dopo mangiato ad accompagnarlo alla tastiera (in ciò Handel fu indubbiamente più fortunato visto che il suo protettore, il duca di Chandos, era solo un musicofilo senza velleità dilettantistiche). E siccome il suo ospite gli lasciava poi tempo libero in abbondanza, Ferrari ne approfittò per scrivere alcune composizioni, tra cui le Tre sonate op. 25, le quali manifestano indubbiamente uno squilibrio formale e timbrico a favore del pianoforte, anche se ciò non pregiudica, nella brillantezza e nella fluidità del fraseggio, il tessuto musicale dei due strumenti ad arco. Un discorso diverso riguarda i Tre trii op. 11 che risultano essere formulati con un maggiore senso dell’equilibrio e con una ricchezza armonica che manca invece alle Sonate, le quali sono anche meno ricche di soluzioni e sviluppi tematici. Nei Trii, invece, il dialogo tra i tre strumenti è più fitto, maggiormente articolato, e il senso della brillantezza trova una sua ragione d’essere nella costruzione della tessitura, in cui si nota una cura più evidente nei pesi e contrappesi timbrici.

Opere piacevoli, che brillano di luce propria pur non essendo dei capolavori e che ci fanno comprendere come per Ferrari la musica fosse da intendere come strumento di raffinata convivialità, apporto sociale come forma di divertissement colto, sottintendendo quasi una sua dimensione da Tafelmusik di telemanniana memoria. Ascoltare queste pagine, quindi, è come assistere a una conversazione arguta tra Samuel Johnson e James Boswell o come leggere le lettere di Madame de Sévigné, pregne di un’irripetibile temperie in cui le parole erano incise con il bulino o arabescate come la punta di un fioretto nel corso di un duello.

Certo, il merito di un’attenzione a tale ascolto va data anche alla lettura fornita dai tre interpreti i quali partendo da un indiscutibile affiatamento d’intenti stilistici, trovano sempre il bandolo della matassa attraverso il quale imbastire quella forma di “dialogo” che necessita per rendere al meglio l’esecuzione di queste pagine, in cui la musica ha potere descrittivo, colloquiale, a volte sussurrato, a volte declamato, frutto nostalgico di quell’ancien régime del quale Giacomo Gotifredo Ferrari rimase un inguaribile nostalgico. Se Corrado Ruzza, soprattutto nelle Sonate, riesce esemplarmente a smistare il traffico armonico senza mai risultare invadente, così come nei Trii a imbastire un dialogo squisitamente equilibrato nel timbro con gli strumenti ad arco, da parte loro Myriam Dal Don e Federico Magris riescono a eguagliare per finezza esecutiva e per espressività il pianoforte, senza mai essere tentati ad andare sopra le righe nel tentativo di trasformare queste pagine in qualcosa di più, cercando connotati, aspetti, sfumature che non appartengono loro. Insomma, dimostrando di essere invece entrati perfettamente in sintonia con esse, così come Giacomo Gotifredo Ferrari all’epoca sperò con la sua musica di allietare in modo piacevole e colto coloro che le ascoltarono.

La presa del suono, effettuata dallo stesso Corrado Ruzza (che, oltre ad essere un raffinato pianista, è anche uno dei migliori tecnici del suono attualmente in circolazione), coadiuvato nel mastering e nell’editing da Michael Seberich, pone molta attenzione non solo alla ricostruzione del suono in sé ma, aspetto altrettanto importante, anche come riproporlo congiuntamente allo spazio sonoro in cui si propaga. Da qui, un esemplare palcoscenico sonoro nel quale i tre strumenti vengono ricostruiti adeguatamente non solo in modo corretto, ossia posti a debita profondità senza che l’ascoltatore se li ritrovi sbattuti in faccia come spesso accade, ma permettendo a chi ascolta di individuare e apprezzare anche lo spazio sonoro intorno ad essi, in modo da avere una registrazione capace di dare vita anche a un coinvolgimento tecnico. Questo grazie anche a un dettaglio preciso, dotato di una filigrana minutissima capace di esaltare il punto di decadimento degli armonici, e a una dinamica la cui velocità nei transienti è garanzia di naturalezza e carenza di enfasi indesiderate. Da ultimo, l’equilibrio tonale permette di cogliere gli strumenti nel loro insieme senza che i rispettivi registri gravi e acuti vadano ad inficiare il timbro altrui.

Andrea Bedetti

 

Giacomo Gotifredo Ferrari – Trii e Sonate

Corrado Ruzza (pianoforte) – Myriam Dal Don (violino) – Federico Magris (violoncello)

CD Tactus TC 760601

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico 5/5