Il rapporto assoluto, totale fra uomo e natura presente nella cultura scandinava non deve apparire soltanto come un elemento idilliaco, restituendo quasi l’immagine del buon selvaggio di rousseauiana memoria calato idealmente nel regno delle cose, da intendere nell’accezione marxiana di Dinge, ossia tutto ciò che non è creato dagli uomini. Difatti, se noi accediamo alla concezione della natura in tal senso, quale risultato di un qualcosa che non è prodotto dall’uomo, ma con il quale si può creare un rapporto proprio con coloro che sono esseri producenti, allora la relazione che si viene a creare vanta dei risvolti che vanno ben oltre la semplice e stucchevole immagine rassicurante di una natura nella quale l’uomo, capace di rispettarla e ammirarla, riesce ad essere e a vivere in un modo più spontaneo, evidenziando la sua “vera” essenza.

Semmai, il rapporto che si è venuto a creare tra uomo nordico e natura ha sempre apportato un sentore di anticipazione, di prefigurazione, di ciò-che-è-destinato-ad-avverarsi, ripercuotendosi, e questo a partire soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, su tutto il resto del mondo occidentale. Ciò perché il binomio uomo/natura, scaturito dalla cultura scandinava e dalla sua incarnazione antropologica, ha permesso l’attuazione di un processo di straordinaria lucidità intellettiva in coloro che lo potevano vivere e sperimentare nella sua quotidianità. Vivere in simbiosi con una natura praticamente intatta, continua fautrice e stimolatrice di elementi e simboli archetipi, porta nell’uomo che vi è immerso un procedimento di estrema lucidità, in quanto la natura stessa diviene strumento di riconoscimento, di dis-velamento, di affioramento di quella “verità” agognata dall’antica filosofia greca, attraverso la quale il pensiero heideggeriano e la corrente ermeneutica del Novecento hanno cercato di stabilire nuovi confini e ambiti di conoscenza.

Non è quindi un caso che i semi dell’Espressionismo debbano essere ricercati e trovati nel fertile terreno dell’arte e della cultura scandinave, allorquando negli ultimi decenni del XIX secolo, un lasso temporale in cui la parola d’ordine era ancora tardoromanticismo, drammaturghi come Ibsen e Bjørnson, artisti come Munch e un autentico visionario quale August Strindberg, attraverso una prodigiosa sintesi di lucidità e sensibilità creative in bilico tra consolidato simbolismo e incipiente espressionismo, riuscirono a delineare le prospettive culturali ed esistenziali di quello che sarebbe stato l’uomo contemporaneo, quello indagato dal pensiero psicoanalitico, utilizzato dai regimi totalitari, sfruttato dall’irruzione del turbocapitalismo e della tecnica.

La cover del CD Da Vinci Classics con la registrazione Fabiano Casanova.

In un certo senso, anche se non in modo così marcato ed evidente, anche la sfera musicale scandinava degli ultimi decenni dell’Ottocento risultò essere una discreta cartina al tornasole grazie all’opera di compositori che, partendo spesso da posizioni tipicamente romantiche di stampo germanico, riuscirono a piantare nei loro lavori i semi dell’inquietudine, delle ombre esistenziali, del travaglio incipiente che avrebbe coinvolto l’uomo del Novecento, portando alla concretizzazione di un modus essendi che fu in seguito catturato e decodificato dalle avanguardie, di cui l’Espressionismo rappresentò per l’appunto un’eco capace di investire praticamente tutte le varie forme artistiche.

Queste semenze, che variano dai pochi chicchi ad alcune manciate, possono essere riconosciute ed estrapolate dalle tre sonate pianistiche di altrettanti compositori nordici tardoromantici, vale a dire il norvegese Edvard Grieg, il finlandese Jean Sibelius e lo svedese Wilhelm Stenhammar, che il pianista romano Fabiano Casanova ha registrato per la Da Vinci Classics. Le tre opere in oggetto sono la Sonata op. 7 in mi minore di Grieg, la Sonata op. 12 in fa maggiore di Sibelius e la Sonata n. 4 in sol minore di Stenhammar, composte rispettivamente nel 1865 (quando Grieg aveva ventidue anni), nel 1893 (quando Sibelius aveva ventotto anni) e nel 1890 (quando Stenhammar aveva diciannove anni), quindi tutti lavori scritti da musicisti che non avevano ancora compiuto trent’anni, rientrando di diritto in composizioni appartenenti a una sfera che in linea di massima precede la piena maturità creativa.

La Sonata di Grieg (l’unica da lui composta e dedicata a colui che può essere definito di diritto il padre della scuola nordica, ossia il danese Niels Gade) è un classico esempio di come il romanticismo strumentale di lingua tedesca seppe influenzare e irradiarsi in buona parte del vecchio continente nella seconda metà dell’Ottocento, tenendo conto del fatto che il giovane musicista norvegese studiò al conservatorio di Lipsia dal 1858 al 1862, rimanendo però soddisfatto solo in parte di tale insegnamento. Un insegnamento che traspare soprattutto nei primi tre tempi della Sonata attraverso una struttura che trasuda accademismo, mitigato da quegli apporti della musica popolare nordica (e ciò si avverte esemplarmente nel secondo tempo, l’Andante molto, nel quale sono già prefigurate impressioni che verranno felicemente fissate nel celeberrimo concerto pianistico in la minore, e nel terzo tempo, Alla Menuetto, in cui l’elemento popolare si evince dall’enunciazione di un andamento danzante che verrà ripreso e ampliato nella serie dedicata nella maturità ai Pezzi lirici) che rappresentano il marchio di fabbrica della visione griegiana e in cui vanno a stemperare un dipanarsi sul quale aleggia incessantemente l’acceso spirito schumanniano.

Semmai, l’elemento perturbante proviene dal Finale. Molto allegro, nel quale l’influsso brahmsiano si sostituisce al Geist di Schumann, anche se ascoltando con attenzione ci si rende conto che tra le linee melodiche e nella frammentarietà ritmica si celano pulsioni che tendono a spezzare continuamente la tessitura, disgregando una possibile unitarietà di intenti, che porta all’affioramento di una larvata destabilizzazione la quale fa tabula rasa della passione, del sogno, dell’evocazione della danza, quest’ultima da intendere quale elemento di coesione e di unione tra uomo e natura, che si sono manifestati nei movimenti precedenti, proponendo di fatto (e qui i semi cominciano già a germogliare) una sorta di proemio esistenziale, lo stesso che si percepisce leggendo La camera rossa di Strindberg o respirando l’atmosfera sempre più pesante, inquietante che grava sugli Spettri di Ibsen. D’altra parte, per quale ragione un “antico modernista” quale fu Glenn Gould scelse proprio di registrare questa Sonata, facendo sì che la sua lettura sia rimasta un ineludibile punto di riferimento e di raffronto con quelle che ne sono seguite?

Anche Jean Sibelius scrisse una sola sonata pianistica, strutturata in tre tempi, ma a differenza di Grieg non fu un grande pianista, anzi ebbe sempre un rapporto conflittuale con questo strumento, tanto è vero che la maggior parte della produzione pianistica del compositore finlandese è incentrata su riduzioni provenienti da opere scritte per altri strumenti, quasi a dimostrare il disagio che l’artista ebbe davanti alla tastiera. Personalmente, appartengo alla schiera di coloro che non si dimostrano di certo entusiasti di fronte al risultato della Sonata op. 12 in fa maggiore per via di certe sue imperfezioni stilistiche (l’uso esagerato del tremolo e l’abbondanza delle ottave prodotte sul registro grave), anche se il suo ascolto può risultare utile per comprendere come Sibelius pensò al pianoforte come una sorta di massa orchestrale liofilizzata (senza però raggiungere i vertici di perfezione e di esaltazione timbrica di cui fu capace Liszt), soprattutto quando si presentano gli sviluppi dei vari temi che seguono un atteggiamento decisamente più “sinfonico” (e questo vale soprattutto per il primo tempo, l’Allegro molto), anche se il tempo centrale, l’Andantino, formato dal sincretismo di un movimento lento e di uno Scherzo, sembra già prefigurare la struttura che incentrerà la Settima sinfonia, formata da un solo tempo. Anche il terzo tempo, il Vivacissimo, non si discosta da un impianto sinfonico, sia per la struttura, sia per gli sviluppi, sorretti da una spinta timbrica che non appartiene di certo a un suono pianistico.

In realtà, la vera sorpresa di questa registrazione proviene dall’ultima Sonata (la prima presente nell’incisione), ossia quella del meno conosciuto dei tre compositori presi in oggetto, lo svedese Wilhelm Stenhammar, il quale a differenza di Sibelius fu un fior fiore di pianista e ascoltando la sua splendida Sonata in sol minore (la penultima delle cinque che scrisse nel periodo giovanile tra il 1880 e il 1895) non si può fare a meno di ammirare come il musicista di Stoccolma sia riuscito in quest’opera, la prima che mostri veramente una notevole maturità, a miscelare sapientemente i diversi elementi stilistici, facendo sì che presentasse una qualità più sofisticata e articolata rispetto alle precedenti Sonate. Questi elementi coinvolgono un uso più complesso della paletta melodica, una struttura timbrica più affinata (lo splendido primo tempo, l’Allegro vivace e passionato!), un’armonia più cromatica e una gamma più ampia dei segni dinamici, il che dimostra come l’incrementarsi delle difficoltà tecniche e i requisiti pianistici divennero più evidenti di pari passo con l’evoluzione artistica e virtuosistica in Stenhammar. Proprio questa Sonata permette di comprendere meglio, di fissare con maggior fuoco, quel senso di disagio, di smarrimento che si impossessarono dell’uomo di fine Ottocento, connotando quel segmento artistico e culturale votato a un sentore malato, “dissociato”, disilluso dalle velleità di un Romanticismo che aveva creduto di aver dato vita a un “uomo nuovo” del quale il tardoromanticismo nordico (quantomeno una buona parte di esso) si affrettò a decretarne il tramonto (attraverso tale immagine si ascolti il secondo tempo, la Romanza, andante quasi adagio, che il musicologo svedese Bo Wallner ha definito un «Notturno di Chopin in chiave nordica»).

Opera di sorprendente lucidità formale, e ricca di una profonda espressività, la Sonata in sol minore di Stenhammar è l’atto evocativo di un cambiamento, e non solo musicale, nella visione dell’uomo nordico, nel quale l’atto descrittivo e la formulazione di immagini esulano da una semplice rappresentazione dell’oggetto in sé dato dalle forze della natura e di come l’uomo si cala in essa, ma che attraverso la stessa visionarietà data dalla natura (ancor più che in Grieg) conduce lo spettatore e l’ascoltatore a una presa di coscienza decisamente più amara, capace di andare oltre a un asettico naturalismo per aderire, per dirla in termini letterari, a una concezione che rimanda necessariamente alla prodigiosa rappresentazione presente nell’opera narrativa di un romanziere come Knut Hamsun.

Il pianista romano Fabiano Casanova.

La lettura che Fabiano Casanova offre di questa Sonata che apre la registrazione della Da Vinci Classics è a dir poco folgorante; la tensione iniziale data dal declamatorio incipit si stempera in un andamento che è struggimento ed esaltazione allo stesso tempo ottenuto grazie a un’agogica che freme ad ogni palpito, restituendo la passione giovanile e arricchendola di quel sentore implosivo che solo un interprete capace di calarsi in ciò che sta eseguendo può manifestare. Questo comporta anche la proprietà di dare un senso oggettivo ai passaggi più virtuosistici del primo tempo, i quali vengono inglobati in una prospettiva più omogenea, quella che esprime pulsioni, slanci, frammenti di irrazionalità i quali vengono disciplinati, organizzati e resi all’interno di un’arcata che trascende ogni possibile temporalità soggettiva. Solo in questo modo l’alternarsi frenetico può coniugarsi in una linea purissima con quei passaggi in cui la riflessione, il magnetico rallentamento sorgono dalle profondità del compositore, dando modo all’opera di scorrere con la dovuta progressione dinamica. Ecco, allora, che la Romanza, giustamente, non risulta essere un corpo avulso, un tempo a sé, ma è l’ideale prosecuzione di quanto avvenuto ed espresso precedentemente, un momento in cui il mistero della contemplazione diviene atto attivo, propedeutico all’insieme del tutto, con una resa nella quale il pianista romano privilegia (giustamente) una pacata e trasognante cristallinità timbrica che si trasforma in respiro, un inspirare ed espirare che scontorna la linea melodica del movimento. Così come l’andamento ritmico dello Scherzo soggiace allo stesso tipo di trattamento, capitolo che sviluppa per altri lidi il medesimo afflato, elemento che viene enunciato con un delicato passaggio centrale di danza, prima che la proiezione ritmica venga ripresa e portata deliziosamente a compimento. Il Rondo finale viene reso da Fabiano Casanova con un suono che si potrebbe definire rappreso, contenuto, non sfogato come se si trattasse di un senso di liberazione, bensì di riflessione che si lascia andare a rimembranze, a scorci lontani (il che viene reso dall’uso sapiente della mano destra). Anche qui l’agogica governa la giusta raffigurazione del tutto, con un progressivo aumento della velocità che detta i confini della visione, con un debito ampliamento della prospettiva non solo sonora. È il dominio della forma, della sua essenza, che porta giustamente a dirigere il traffico delle emozioni, con un andamento che il pianista romano non perde mai di vista, disciplinando anche la coda che vede la mano sinistra indicare la maturità del frutto sonoro.

Il merito di Fabiano Casanova si manifesta anche nella scelta interpretativa della Sonata di Sibelius, la quale dev’essere resa, a mio modo di vedere, con un continuo atto di “filtro”, se così si può dire, nel tentativo di spurgarla dagli eccessi orchestrali che la ammantano. Sia ben chiaro, questo non significa svilirla, renderla altro da sé, ma smussando a livello timbrico, dinamico, agendo anche di pedaliera, le sue arcate che se fossero declamate, rese stentoree attraverso un pianismo lisztiano (la possibile trappola è questa) rischierebbero di rendere ancor più inefficace questa pagina, con buona pace di tutti i suoi fautori e sostenitori. Ed è proprio ciò che ha fatto, riuscendovi in buona parte, il pianista romano (e questo vale soprattutto per il primo tempo, così infarcito da tentazioni orchestrali, di fronte alle quali quelle di Sant’Antonio nell’omonimo racconto di flaubertiana memoria sono nulla in confronto). Anche il suono rappreso che Casanova enuncia nel movimento lento ha il pregio di rendere meno banale l’insita linea melodica, dando vita a un respiro che ne esprime il ritmo interiore, connotandolo di un’aura squisitamente pianistica la quale assume una specifica dote cristallina nella sezione centrale dell’Andantino, in cui la prerogativa naturale (non “naturalistica”!) si manifesta in tutta la sua ariosità, esaltando quasi una visione ieratica. Questo equilibrio timbrico, sempre attento a privilegiare maggiormente l’“anima” del pianoforte, si propone anche nel Finale, condotto a una velocità, nella coda, che rende giustizia a quella dimensione “non-sinfonica” che dev’essere ricercata ed espressa in questa Sonata.

Fare i debiti confronti interpretativi è una pratica che risulta essere sovente poco gradita giustamente dagli artisti, ma che si rivela utile, se non fondamentale, da un punto di vista critico. Quindi, di fronte alla lettura della Sonata di Grieg fatta da Casanova, il pensiero, come è stato già accennato precedentemente, non può non andare a quella fatta da Glenn Gould nella sua leggendaria registrazione discografica, che rientra a pieno titolo in una versione “visionaria”, del tutto “personale”, com’era d’altronde tipico nel pianista canadese, ma che apre indubbi squarci di riflessione e di analisi. Se Gould affronta il fantasma di Schumann, che aleggia inevitabilmente nei due tempi opposti della Sonata griegiana, rivestendolo di una patina fantasmagoricamente irrazionale, che si avvicina al periodo iniziale e a quello finale del genio di Zwickau, Casanova invece lo impatta in modo più razionale, più ponderato, più fedele a una traccia solcata e non immaginata, in modo da porre la struttura della Sonata sulla chiave del “fare” e non del “sognare”. Anche a livello agogico la differenza fa sì che il pianista romano adotti un metronomo più regolare e meno dilatato rispetto a Gould, permettendo alla raffigurazione del quadro sonoro di essere “incorniciato” (sul finire del primo tempo, la versione di Gould assume quasi dei connotati bachiani, portando a una dilatazione temporale fissata a 06.32 minuti rispetto ai 04.54 minuti di Casanova!). L’Andante molto secondo Fabiano Casanova è di nuovo ancorato a una maggiore fedeltà, in cui prevale l’andamento oscillante del movimento e la resa cristallina del timbro, connaturato da una delicatezza formale perfino nei punti di maggiore climax, con il chiaro intento di formulare una sorta di racconto che dev’essere narrato, con i suoi colpi di scena e il suo debito svolgimento, dove ogni pagina segue in modo coerente la precedente. Al contrario, Gould sembra quasi abbandonarsi alle visioni oniriche di un Füssli, restituendo allo stesso tempo un suono arrotondato, sfumato all’inverosimile, in cui sembra davvero di essere come il viaggiatore sopra un mare di nebbia dell’omonimo dipinto di Caspar David Friedrich, rischiarato improvvisamente da lame di sole capaci di accecare l’ascolto. Alla menuetto, ma poco più lento è fonte per Casanova di un fuoco interiore che viene evidenziato da un timbro arroventato che lascia poi spazio a un tenue Trio centrale, quasi esitante, dal quale poi progressivamente traspare una tersa linea guida che sembra quasi annunciare il riproporsi del primo tema, reso ancora con una dinamica impregnata di vigore. Glenn, oltre a dilatare all’inverosimile l’agogica, trasforma questo movimento in una sorta di spettrale marcia funebre, con un suono spigoloso al punto che, fino all’affacciarsi del Trio centrale, non sfigurerebbe nell’essere utilizzato come accompagnamento in alcune scene de Das Cabinet des Dr. Caligari di Wiene, con la ripresa del primo tema che diviene ancor più lugubre, baricentro di un incipiente atto di disperazione (lo si ascolti osservando il dipinto La fanciulla malata di Munch). Da ultimo il Finale. Molto allegro che il pianista romano pone su un piano di quel poiein, di quel “fare” che tende a materializzare il suono, concretizzandolo tra un sentore ritmico che si alterna a fasi di melodica stasi, esaltando il ruolo della mano sinistra con un atto declamante e senza mai rinunciare, quando possibile, a una resa cristallina, purificante, e connotandola di un “oggettivismo” che rimanda semmai più a successive conquiste brahmsiane che ad esiti formalmente schumanniani. Gould, invece, trasfigura in questo ultimo tempo uno Schumann del tutto personale, oltre ad assoggettarne la struttura su un gioco timbrico più marcato e sbalzato, espressione di un “travestimento” interpretativo nel quale tutto è rimesso in discussione, in modo da porre maggiormente in luce lo squilibrio interiore che conduce verso il nuovo, verso un andere Weg che porterà il tutto ineludibilmente verso lidi weberniani.

Entrambe le versioni, seppure nella loro disparità di intenti, sono antitetiche alla lettura di un’Alicia de Larrocha, che vuole essere terribilmente “rassicurante”, edulcorata da scorci di abisso e zone tenebrose, offrendo invece un’opzione interpretativa che è riportata indietro nel tempo, facendo sembrare Grieg uno studente lipsiense del 1830, senza contare abbondanti flebo di camomilla laddove Casanova e Grieg, sebbene su diversi sentieri, fanno emergere dubbi e riflessioni proiettati verso il futuro.

Massimo Marchese ha curato la presa del suono, mentre Gabriele Zanetti si è occupato della fase di missaggio, con un risultato complessivamente buono nella riproposizione del suono. La dinamica ne giova in fatto di naturalezza e di velocità nei transienti; anche il palcoscenico sonoro vede il pianoforte ricostruito idealmente al centro dei diffusori, sebbene la sua riproposizione spaziale sia leggermente avanzata. Nulla da eccepire sull’equilibrio tonale e sul dettaglio.

Andrea Bedetti

AA.VV. – Nordic Piano Sonatas

Fabiano Casanova (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00297

Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5