Ancora Robert Schumann e la sua follia e ancora, in un certo senso, Filippo Tuena, lo scrittore romano che ha già dedicato al grande compositore romantico un lavoro teatrale, Fantasmi di Schumann a Manhattan, e un romanzo, Memoriali sul caso Schumann. E lo fa adesso in questo curato e raffinato libercolo (con il testo ottimamente tradotto da Anna Costalonga), introducendo il lettore alle Lettere da Endenich, quelle che Schumann scrisse dal sanatorio psichiatrico alle porte di Bonn tra il settembre 1854 e il maggio dell’anno successivo, missive indirizzate in gran parte alla consorte Clara Wieck, così come a Johannes Brahms, al grande violinista József Joachim e all’editore Simrock, lettere intervallate da passi del diario della stessa Clara e da comunicazioni scritte scambiatesi tra i medesimi protagonisti.

E se l’introduzione di Tuena riesce in poche e dense pagine a riassumere le fasi scatenanti della follia schumanniana, che culminano a Düsseldorf nel suo presunto tentativo di suicidio nelle acque del Reno il 27 febbraio 1854, le missive che seguono da parte del musicista di Zwickau forniscono uno scorcio esistenziale in cui il disagio psichico è un tabù che cerca di essere esorcizzato da tutti, dal diretto interessato, così come da coloro che gli gravitano intorno con il loro amore (Clara) e con la loro incondizionata ammirazione (Brahms e Joachim).

In fondo, queste lettere spedite e ricevute da Schumann sono l’abbrivio di una tranquilla disperazione, un viaggio al termine di una notte che si avvicina con le tonalità a mano a mano più scure di un grigio che alla fine si tramuta nel nero della morte, della sconfitta, dell’implacabilità e dell’ineluttabilità. E se Schumann, in assoluto, incarna l’artista romantico per eccellenza, lo si deve non solo per la sua musica, ma anche e soprattutto per la manifestazione di un disagio esistenziale che è l’incarnazione stessa del Romanticismo, di colui che indaga l’Altro in quanto è l’Altro.

Eppure, dietro alle comunicazioni di Schumann nei confronti della consorte e degli amici si cela anche un desiderio di normalità e una richiesta di aiuto, la voglia di lasciare Endenich per tornare in seno alla famiglia e il sogno di essere nuovamente circondato dall’affetto di colleghi ed estimatori, una desiderio che passa anche attraverso le sue richieste di avere dei sigari, della carta da musica, delle fotografie, qualcosa, degli oggetti che lo potessero ricondurre idealmente alla vita precedente, quella spezzata improvvisamente da un gesto eclatante e autolesionistico. In queste lettere, che si dipanano in quasi nove mesi di speranze e di disillusioni, Schumann, prima di cedere inesorabilmente alle tenebre, chiede fondamentalmente una cosa che si legge chiaramente tra le righe, quella di essere accettato soltanto per ciò che è, un artista che è anche uomo, un essere sopraffatto dalla propria sensibilità e da un disagio mentale del quale ne è pienamente consapevole.

Nella bozza dell’ultima lettera che Schumann iniziò a scrivere alla moglie il 1° maggio 1855 e mai ultimata, si legge: «Cara Clara, oggi gli araldi della primavera hanno portato il primo giorno di maggio. Come è bello ora questo verde! Potessimo stare l’uno accanto all’altra – noi che ci conosciamo da così tanto, dal 1828 – da ventisette anni! Perché non mi scrivi del giorno in cui Johannes è venuto alla luce! Ritrovo energia sempre nelle sue opere musicali, ho scritto alla signora von Arnim […]». Clara lo visitò, dopo il suo internamento, solo una settimana e due giorni prima della sua morte, avvenuta il 29 luglio 1856.

Poco prima di morire, Schumann riuscì solo a bere qualche goccia di vino dalle dita della moglie. Come scrisse Johannes Brahms a un conoscente, sebbene fosse ormai in pieno delirio, dagli sguardi che le rivolse, si capì che l’aveva riconosciuta.

Andrea Bedetti

Robert Schumann – Lettere da Endenich

Edizioni Italo Svevo, 2018, pp. 112

Giudizio artistico: 5