In quel particolare e affascinante momento storico che presenta il passaggio dal Medioevo al Rinascimento attraverso il ponte dell’Umanesimo, fonte propizia alla quale si abbeverarono svariati campi della cultura e dell’arte, prese vita in terra di Spagna uno strumento musicale a corde che oggigiorno è quasi del tutto sconosciuto, la cosiddetta vihuela de arco, da distinguersi dalla “sorella” vihuela de mano, in quanto la prima è la progenitrice di quello che poi sarà uno degli strumenti principe della prima metà del Barocco, la viola da gamba, mentre la seconda, come dice lo stesso termine spagnolo, da suonarsi con le mani, anticipa la nascita della chitarra, strumento che nella Spagna dei secoli successivi troverà la sua patria d’elezione.

La vihuela de arco ebbe una vita abbastanza lunga, visto che le prime testimonianze risalgono già intorno al XIII secolo, anche se la sua affermazione si concentra tra il XV e il XVI secolo, per poi tramontare nella prima metà del secolo successivo, a fronte però di una letteratura musicale che allo stato attuale conta solo pochi spartiti che ne rendono difficile sia la conoscenza, sia la possibilità di vederla impiegata in campo discografico e in quello concertistico. Quindi, la registrazione in questione rappresenta una vera e propria rarità discografica, oltre al fatto che Fernando Marín è uno dei pochissimi specialisti al mondo che è in grado di suonare la vihuela de arco, impegnato da anni in ricerche, studi musicologici e approfondimenti dedicati a questo strumento a corde.

Dei ventisei brevi brani presenti in questa incisione, quasi tutti devono essere ascritti a tre compositori che nel siglo dorado di questo strumento, ossia il XVI secolo, diedero molta importanza alla vihuela de arco e alle sue potenzialità timbriche e armoniche, ossia il musicista e didatta veneto Silvestro Ganassi, che dedicò proprio a questo strumento nel 1542 il trattato Lettione Seconda, e gli spagnoli Diego Ortiz e Antonio de Cabezón. La densità dei loro brani, condensati in una durata che raramente supera i due minuti di durata, è assimilabile a schizzi fugaci al carboncino, in cui la linea melodica si trasforma in innumerevoli gradazioni di grigio, così come l’uso dell’arco sulle corde dello strumento che fissa le elaborazioni tematiche. Qualcuno magari sosterrà che queste composizioni risultano ripetitive, proponendo un tipo di ascolto che rischia di divenire monotono. Questo è l’errore in cui si incorre quando si affronta l’ascolto di musiche del passato usando le orecchie (e il cervello) del presente, ossia ascoltando opere di secoli remoti con un tipo di assimilazione che è calibrata sulla ricezione musicale odierna, essendo ormai incapaci di ascoltare e di recepire ciò è lontano dai nostri tempi e dimenticando che accanto alla storia della musica vi è anche la storia dell’ascolto della musica e che di conseguenza la seconda dovrebbe essere conosciuta quanto la prima.

In realtà, la preziosità di questi pezzi sta nel fatto che rappresentano, né più né meno, dei segni capaci di sondare coloro che li ascoltano, elaborazioni astratte che si agganciano ai suoni da loro espressi per fissarsi nell’immaginario di chi li riceve, discreti specchi sonori attraverso i quali potersi vedere, poiché qui ci troviamo di fronte a una musica, come buona parte di quella per tastiera del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, che nell’ascolto invita a riflettere, così come quella a cui è idealmente collegata, ossia la musica contemporanea, frutto anch’essa di segni sotto le vesti di suoni.

Ed è preziosa anche l’interpretazione di Fernando Marín, la cui lettura è pari alla sua capacità di immedesimarsi con lo strumento che imbraccia, identificandosi con esso, non avendo remore nel diventare egli stesso strumento umano nelle mani dello strumento musicale. Nella veste di “tracciatore di segni”, la dimensione di chi esegue musica antica muta e si trasforma in colui che descrive stati d’animo, contrariamente all’interprete moderno che, alle prese con la dimensione virtuosistica di ciò che esegue (retaggio del quale siamo ostaggio dal Romanticismo in poi), provoca stati d’animo.

Anche la presa del suono è di prim’ordine e permette, attraverso una dinamica in cui energia e velocità si equivalgono positivamente, di vedere riprodotto lo strumento a corde al centro di un palcoscenico sonoro il cui posizionamento ravvicinato, tra i diffusori, non dà l’idea di artificiosità grazie a un riverbero veritiero. L’equilibrio tonale è notevole e il dettaglio, oltre a restituire matericamente lo strumento, lo scolpisce piacevolmente nello spazio in cui è inserito.

Andrea Bedetti

AA.VV. – The Art of the Vihuela de Arco

Fernando Marín (vihuela de arco)

CD Da Vinci Classics C00037

Giudizio artistico: 5

Giudizio tecnico: 5