L’argomento relativo a musica e precocità, ossia quello che riguarda giovanissimi interpreti che si affacciano al proscenio della musica colta, tenendo concerti e registrando dischi che possono testimoniare della loro “genialità”, è sempre stato e sarà sempre dibattuto. Un dibattito che vede da una parte i suoi sostenitori, coloro che considerano positivamente lanciare “allo sbaraglio” pianisti e violinisti ancora bambini, trovando che sia giusto e “formativo” il loro esibirsi nelle sale concertistiche e negli studi di registrazione, e dall’altra i suoi detrattori, che vedono in questa forma di espressione solo una mera forma di “esibizione” fine a se stessa, i cui svantaggi sono maggiori rispetto ai possibili vantaggi.

D’altronde, il caso più eclatante in tal senso di tutta la storia della musica, quello che riguarda Wolfgang Amadeus Mozart, ci insegna che se il genio salisburghese ebbe modo di approfondire e plasmare la propria straordinaria arte musicale fin da bambino, esibendosi e componendo dall’età di cinque anni, è anche vero che un’infanzia trascorsa esibendosi da una corte all’altra in giro per l’Europa lasciò inevitabilmente degli strascichi nel suo essere poi uomo, oltre che artista (Goethe, a tale proposito, ricordando il suo incontro con Mozart bambino, scrisse: «L’ho visto quando aveva sette anni. Io ne avevo circa quattordici e mi ricordo ancora molto bene del suo aspetto da piccolo uomo, con tanto di acconciatura e spadina al fianco»).

Sono del parere che queste siano le osservazioni e le domande da porsi quando si ha modo di ascoltare un giovanissimo artista sfidare con le sue esecuzioni opere che hanno fatto la storia della musica e che vantano una tradizione interpretativa frutto della lettura di sommi pianisti o violinisti. Cosa che personalmente ho fatto ascoltando il disco che il sedicenne pianista tedesco Christoph Preiß ha registrato per l’etichetta TYXart. In un mondo che oramai è un infinito spettacolo, nel bene e soprattutto nel male, il fatto che un sedicenne possa registrare un disco con la Chromatische Fantasie und Fugue BWV 903 di Bach, con la Sonata n. 21 op. 53 Waldstein di Beethoven e con la Grande Sonata op 37 di Čajkovskij non deve e non può stupire più di tanto, ma è indubbio che una qual certa meraviglia può cogliere il critico e l’ascoltatore quando viene a sapere che questo non è il debutto discografico del giovanissimo pianista tedesco, ma che rappresenta invece già il suo terzo disco, visto che per la stessa etichetta ha inciso a dodici anni la Sonata KV 311 di Mozart, la Sonata op. 2 n. 1 di Beethoven, la Sonata in la maggiore opera postuma di Schubert, oltre a due sue composizioni scritte a dieci e a undici anni, mentre a quattordici anni ha registrato la Sonata op. 10 n. 2 e la Sonata op. 31 n. 2 Der Sturm di Beethoven, la Sonata op. 7 di Grieg, Funérailles di Liszt e un’altra composizione sempre di sua creazione. Così, di fronte a un programma così impegnativo, se non ostico, come quello rappresentato dalla sua terza incisione (tra l’altro, invece della canonica e breve Introduzione. Adagio molto, quale secondo tempo della Waldstein, Preiß ha optato per l’Andante favori composto originariamente e poi abbandonato da Beethoven), l’inevitabile domanda da porsi è: ne è valsa la pena registrare un disco del genere da parte del giovanissimo interprete? Ebbene, la risposta è sì, ne è valsa la pena. E vediamo perché.

Cominciamo da Bach. La lettura che Preiß fa della Chromatische Fantasie è improntata a un devoto rispetto attraverso il quale il pianista tedesco sembra quasi porsi delle domande sulla incommensurabile profondità di quest’opera, domande che hanno il sapore di dubbi, non esecutivi, ma gli stessi che doveva avere il Kantor quando come uomo componeva in nome di Dio. La dimensione agogica, le pause, l’uso parsimonioso del pedale, elaborando i contrasti timbrici tra il registro grave e quello acuto, fanno di questa lettura una domanda in cui l’aspetto spirituale non viene mai meno (l’inizio della Fuga è paradigmatico in tal senso) e sembra che Preiß voglia trasformare questo  capolavoro in una porta che si affaccia sull’abisso, espressione di un suono che non è mai vincolato dalla certezza, ma da una titubanza che a volte sfiora l’angoscia, come quella che coglie l’uomo quando si sente abbandonato da Dio.

La Sonata Waldstein, al contrario, viene depurata da ogni forma di richiamo preimpressionistico, con il giovane interprete che evita di trasformarla in un’opera “orchestrale”, dosando, anche nei fff, l’impeto timbrico e soprattutto mutandone la visione d’insieme con una solarità, con una luce che non è mai riflessa e con dei tempi (Allegro con brio) che tendono a trasmettere una gioia che forse non appartiene più al Beethoven del post “testamento di Heiligenstadt” (la sonata risale al 1804), ma che lascia intravvedere moti dell’anima, desideri mai sopiti, sprazzi di una speranza e di un ottimismo che si concentrano sul registro grave della tastiera, che non risulta mai cupa in Preiß, ma addirittura quasi “mediterranea”, con un dispiego dei mezzi che è sempre ragionato, sempre lucido e motivato da un “pensiero musicale”. E lo stesso vale anche per l’Andante favori, la cui lunghezza e il suo articolarsi richiedono dominio e senso delle proporzioni timbriche, in cui la dimensione della “raffigurazione” deve primeggiare su quella del “racconto”. Cosa che Christoph Preiß riesce a esprimere in modo convincente, sedimentando le zone d’ombra con un pianismo che non offusca il fraseggio, fatto di serenità e anche di ironia. Una serenità, con accenni di malinconia e tenera mestizia, che erompe fin dalle prime note del Rondo finale, che il giovane interprete sembra soppesare per poi delineare, immaginare per poi scolpire, ribadendo il senso deliziosamente percussivo del movimento con un ardore che richiama quella solarità con la quale aveva idealmente tratteggiato il tempo iniziale della sonata.

Non stupisca la scelta del giovane artista tedesco per ciò che riguarda la lunga (fin troppo) e impegnativa Grande Sonate di Čajkovskij, poiché sopra a questa composizione aleggia lo spirito di Schumann e di quella scuola germanica di cui il pianismo russo della prima metà dell’Ottocento è debitore. Lo stesso compositore russo la considerò tra le opere più importanti tra quelle da lui scritte (tanto per intenderci, il 1878, quando compose questa sonata, è anche l’anno della Quarta sinfonia, del Concerto per violino e dell’Evgenij Onegin) e la sua magniloquenza può risultare una trappola per topi se non la si affronta con una predisposizione al gioco e alla sfumatura timbrica, disseminata da vari ostinati che la possono far sembrare “percussiva” (si ascolti il primo tempo, Moderato e risoluto). Preiß la affronta con cipiglio ardimentoso fin dall’inciso iniziale contraddistinto da valori puntati che devono essere espressi non solo sul piano ritmico, ma anche espressivo. Si nota padronanza, ma anche dei rari momenti di impaccio, di precisione tecnica che però resta tale (parte centrale del quarto tempo, Finale. Allegro vivace), ma che non vanno di certo a inficiare una lettura più che ragguardevole e che gioca anche sul fatto che questa pachidermica sonata non è molto frequentata in ambito concertistico e discografico (d’altronde, l’op. 37 di Čajkovskij, in tal senso, in certi tratti si trova in ottima compagnia con la Prima sonata di Rachmaninov, terribilmente prolissa e anche alquanto sconclusionata).

Prima ho accennato al fatto che il pianismo di Christoph Preiß denota, al di là di una indiscutibile proprietà tecnica, una forma di “pensiero”, ossia una capacità di “riflessione”, di un processo di maturazione artistica (personalmente non ho ascoltato i suoi due precedenti dischi, ma mi basta questo per comprendere la presenza di tale processo), ossia di una predisposizione all’atto interpretativo, che nasce ovviamente prima della sua realizzazione tecnica. Il pianista tedesco, nonostante la giovane età, pensa la musica, prima ancora di renderla suono, con una sorprendente maturità, che si manifesta in una compiutezza espressiva, nella proprietà di “soppesare” ciò che deve eseguire. Insomma, un artista che è molto di più che una semplice e augurabile promessa.

Più che buona anche la presa del suono, perché la microfonatura dev’essere fatta con molta attenzione quando si deve registrare il suono di un Bösendorfer 225, che se con Bach va benissimo, con Beethoven va bene (con una sonata come la Waldstein), con Čajkovskij può causare (come in questo caso) dei problemi relativi a un registro acuto che suona “metallico”, soprattutto sugli accordi ostinati (si ascolti sempre il primo tempo della sonata). La dinamica è energica, veloce e sufficientemente trasparente, con lo strumento che viene ricostruito nel soundstage al centro dei diffusori leggermente proiettato in avanti. Equilibrio tonale e dettaglio di notevole fattura.

Andrea Bedetti

 

AA.VV. – 16 Piano

Christoph Preiß (pianoforte)

CD TYXart TXA18101

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico 4/5