L’immobilismo nella sfera artistica non porta da nessuna parte, perché l’arte, qualunque sia la sua forma espressiva, necessita di comunicare, di confrontarsi, in quanto il messaggio artistico è movimento, veicolazione, raffronto continuo tra ciò che c’era prima di esso e ciò che c’è attraverso di esso. Questo fattore ineludibile ci fa comprendere come ogni espressione artistica sia anche e soprattutto un processo ininterrotto di rielaborazioni, che portano il messaggio stesso dato dall’arte a essere un’opera perennemente stratificata, un assommarsi di stili, di visioni, di concezioni che diventano inevitabilmente dati di scambio, di conoscenza e di riflessione.
E questo soprattutto in epoche nelle quali lo scambio di tali informazioni e opere avveniva con maggiore difficoltà e con più lentezza rispetto a quanto avviene oggi, quando passavano mesi, se non anni, prima che un autore del nord dell’Europa potesse visionare quanto facevano i colleghi che operavano nel sud del continente. Ma questo processo di conoscenza e di acquisizione della materia musicale, del suo modificarsi, adattarsi e proiettarsi non vale solo per ciò che riguarda lo spazio geografico, ma anche quello temporale, ossia di come la sedimentazione artistica attecchendo nella coscienza e nella sensibilità dei compositori venuti dopo, possa sprigionare nel corso dei decenni la fantasia, l’applicazione, la genialità di coloro che la prendono a modello per le loro composizioni. Un viaggio, quindi, attraverso lo spazio e attraverso il tempo che mira a modificare il linguaggio, connotando di conseguenza l’epoca in cui quel linguaggio diviene elemento di raffronto e di conquista.
È questo, per l’appunto, lo scopo che la presente registrazione intende evidenziare, con la pianista e musicologa Chiara Bertoglio che ha dato vita a un disco, pubblicato dalla Da Vinci Classics, in cui prendendo come punto di riferimento l’esemplare concezione trascrittiva di Johann Sebastian Bach nei confronti delle opere dei contemporanei (esaltando quindi la dimensione geografico-spaziale nella propria epoca), pone poi tale concezione bachiana quale elemento di raffronto proiettata nell’evoluzione musicale di chi venne dopo di lui (mettendo di conseguenza in risalto la dimensione temporale-spaziale dell’epoca successiva). Quindi, il Bach che studia e assimila voracemente la grande lezione data dalla scuola italiana, in particolar modo di quella veneziana, con la trascrizione per tastiera BWV 974 del Concerto per oboe e archi in re minore di Alessandro Marcello, che gli permette di acquisire un “linguaggio” attraverso il quale codificare uno stile, una proiezione, un approccio compositivo da far defluire e mutare attraverso la propria sensibilità di uomo e di artista calato in una realtà esistenziale e sociale differente. Fu quasi sicuramente durante la sua permanenza alla corte di Weimar che il Kantor, nel ruolo di organista e primo violino alla corte del duca Wilhelm Ernst dal 1708 al 1717, ebbe modo di leggere e studiare la partitura del concerto di Alessandro Marcello, trascrivendolo per clavicembalo e facendo in modo di essere il più fedele possibile al testo originale, sebbene dovesse talvolta modificarne dei passaggi, aggiungendo varianti ritmiche o arricchendo la componente armonica per rimediare alla brevità timbrica dello strumento (da qui l’introduzione di nuovi ornamenti o elementi melodici).
E da tale acquisizione degli altrui linguaggi, in questo caso quello “italiano”, che Bach crea quel capolavoro assoluto che è il celeberrimo Concerto Italiano (Concerto nach Italienischem Gusto, BWV 971), nel quale adatta, sistematizza un “gusto” esterno in una chiave più consona alle proprie necessità stilistiche, alla propria visione del mondo personale e in quella in cui viveva e operava, pagina contenuta nella seconda parte della cosiddetta Clavier-Übung (gli Esercizi per tastiera) pubblicata nel 1734 e che contiene, tanto per restare nell’opera di adattamento dei linguaggi altrui, anche l’Ouverture in stile francese BWV 831. La genialità bachiana sta nel fatto che nel Concerto Italiano (bisogna tenere presente che il termine di “concerto” indicava all’epoca un brano concepito per un organico orchestrale con la contrapposizione di soli e tutti) la concezione “concertistica” viene liofilizzata mirabilmente all’interno della (limitata) tastiera che esalta sia la linea solistica, sia quella dell’accompagnamento, grazie al fatto che in terra germanica all’epoca del Kantor i clavicembali potevano vantare due manuali, rendendo di conseguenza più consono il confronto e la dialettica tra le due linee esecutive. E l’italianità del gusto viene così idealmente spalmata nel corso dei tre tempi, per cui nell’Allegro iniziale assistiamo, con incredibile chiarezza e sorprendente efficacia, a come il Kantor riesce a far emergere il dialettico e incessante gioco dei soli e dei tutti, mentre nell’Andante centrale viene preso a modello la cantabilità dei concerti veneziani (Vivaldi e Albinoni su tutti), così come l’esplosione ritmica che contraddistingue il Presto finale, tale da esaltare la tastiera trasformandola in un’orchestra in miniatura (e questo poco meno di cento anni prima dell’irruzione di un compositore come Franz Liszt).
Attraverso la scelta del programma fatta da parte di Chiara Bertoglio (scelta decisamente influenzata dal suo status di studiosa e musicologa più che da interprete) si passa poi dalla linea spaziale-geografica dell’epoca bachiana a quella temporale, evidenziando due pagine di autori successivi fortemente influenzati dal linguaggio e dalla concezione musicale del Kantor, vale a dire Johannes Brahms e Ferruccio Busoni. Del primo l’artista torinese presenta una pagina abbastanza rara, ma di una bellezza e di una profondità sconvolgenti, la trascrizione per mano sinistra della Ciaccona dalla Partita n. 2 in re minore BWV 1004, ossia l’ultimo dei cinque Studien für das Pianoforte, composto nel 1878, come racconta la storia (o forse più la leggenda) per venire incontro all’amica Clara Wieck, la quale nel luglio dell’anno prima, mentre si trovava a Kiel, aprendo in malo modo un cassetto, si procurò una lesione muscolare alla mano destra, impendendole di suonare per diversi mesi. Questo incidente diede agio al sommo compositore amburghese di trascrivere la Ciaccona violinistica per pianoforte, con il preciso scopo di renderla più fruibile, senza però intaccarne la natura, ossia restando assolutamente fedele alla melodia e al ritmo, intervenendo solo occasionalmente sulla progressione armonica. «Soltanto tu avresti potuto fare una cosa del genere», scrisse con parole commosse Clara Wieck a Brahms, «tuttavia, mi sorprende il fatto che tu abbia pensato di farlo». Parole sacrosante quelle della vedova di Robert Schumann, in quanto soltanto un padrone assoluto della trascrizione e della variazione quale Brahms avrebbe potuto rendere in modo così straordinario la fedeltà del capolavoro bachiano, senza intaccarne lo spirito, ma lavorando solo su alcuni aspetti armonici per garantire la riuscita del fraseggio e della dinamica, alzando ulteriormente l’asticella delle difficoltà con la scelta di utilizzare solo la mano sinistra.
L’ultimo brano presentato in questa registrazione è un’altra pagina che si ascolta di rado, ossia la versione delle Goldberg Variationen realizzata da Ferruccio Busoni nel 1914 e pubblicata l’anno successivo. Oltre a essere uno dei padri putativi della modernità musicale, non dobbiamo dimenticare che il compositore empolese fu anche sensibile alle tentazioni del modernismo, ossia di come la corrosione data dal tempo interviene e modifica lo status quo delle cose. Questo perché Busoni, rendendosi conto che il “gusto” del pubblico della sua epoca era cambiato, incapace di ascoltare con attenzione e concentrazione in una sala concertistica opere apparentemente astruse come possono esserlo le Goldberg Variationen, decise di condensarle omettendo dieci delle trenta variazioni e dividendo l’intera opera in tre distinti gruppi (il primo presenta l’aria introduttiva e nove variazioni, il secondo sette variazioni e il terzo tre variazioni, l’ultima delle quali vede anche il Quodlibet e la ripresa dell’Aria introduttiva, debitamente modificata), oltre ad apportare dei cambiamenti per renderlo strutturalmente e da un punto di vista interpretativo più personale e più virtuosistico, proprio per poterlo proporre in sede concertistica.
Questo tipo di operazione rientra pienamente all’interno di quella “filosofia trascrittiva” che si venne a instaurare nel corso dell’Ottocento e nei primissimi anni del Novecento, secondo la quale, prendendo a modello il valore esemplare l’opera musicale del Kantor, coloro che trascrissero e arrangiarono le sue composizioni lo fecero alla luce del loro desiderio inventivo/creativo che andava a sfidare la forma apparentemente granitica e immutabile data dal genio di Eisenach, fermo restando che era stato lo stesso Bach a indicare chiaramente come le sue creazioni musicali potessero essere riconsiderate alla luce di ciò che erano, ossia degli Übungen, ossia “esercizi”, attraverso i quali l’arte trascrittiva avrebbe potuto risolvere qualsiasi apparente incompatibilità stilistica.
Ma tutto ciò, che può essere compreso ed esemplificato in sede teorica, ha poi bisogno di un’effettiva e ineludibile “certificazione” apportata dalla prassi interpretativa, la quale dev’essere in grado di dimostrare degnamente questa dinamica trascrittiva, questo incessante apporto di mutamenti compiuti in nome della fedeltà del testo, sia in nome della linea spaziale-geografica (come Bach re-interpreta il gusto della scuola italiana del suo tempo), sia in nome di quella temporale (come gli epigoni e i posteri ri-progettarono la concezione bachiana attraverso il loro gusto). Cosa che Chiara Bertoglio assolve in modo a dir poco esemplare; se il Bach “italiano” lo rende squisitamente cantabile (e questo non solo nei due tempi lenti degli altrettanti BWV 974 & 971), lo fa con un rigore che nulla toglie all’espressività, alla rotondità del gesto esecutivo, giungendo così a un fraseggio la cui struttura melodica non soverchia la rigorosa struttura dietro la quale si annida la straordinaria lezione armonica di Bach, facendo così coesistere felicemente due anime apparentemente inconciliabili, ma che la mirabile scrittura di Bach era riuscito a rendere del tutto compatibili.
Nel passaggio dalla “spazialità” alla “temporalità”, ossia affrontando Brahms e Busoni, il Bach di entrambi dev’essere reso nella lettura con un approccio che tende a evidenziare come l’elemento armonico viene modificato all’interno della sua struttura, con la Ciaccona brahmsiana che viene esaltata nella sua meravigliosa ricerca di equilibrio formale conservando intatta l’architettura generale dell’opera e con le Goldberg Variationen di Busoni che pur mantenendo una dimensione “corale” del suono, evidenziano anche una vocazione squisitamente pianistica (si noti come il compositore empolese faccia un uso ricorrente del registro grave per rendere timbricamente più coinvolgente il dipanarsi della tessitura). Qui, l’artista torinese non si limita a eseguire, ma pianisticamente spiega musicalmente queste opere facendo affiorare attraverso un’attenta agogica le loro caratteristiche, la caratura brahmsiana e il rispettoso virtuosismo busoniano, esplorando la “laicità” (nella visione di Brahms) della Ciaccona e sondando il côté “concertistico” delle Goldberg Variationen. Ma questo non significa che è la caratura della musicologa che sovrasta quella dell’interprete, ma è l’artista che fa affiorare grazie alla sensibilità della studiosa, sulla falsariga di quanto hanno fatto quegli interpreti dotati di un’eminente caratura musicologica, da Charles Rosen fino a Paul Badura-Skoda, senza dimenticare un altro aspetto non indifferente, tenuto conto che l’artista piemontese è riuscita a far “cantare” (si ascolti come riesce a rendere i mezzi toni) un Bösendorfer Imperial del 1983, un pianoforte notoriamente roccioso, adattissimo per rendere la musica bachiana, ma che qui deve esprimere diverse sonorità, a cominciare da quelle cristalline date dal Concerto Italiano fino alla monumentalità soffusa della versione busoniana delle Goldberg Variationen. Decisamente, una delle registrazioni più stimolanti e coinvolgenti che abbia ascoltato negli ultimi mesi.
Fortunatamente, la presa del suono, curata da Stefano Corato e da Luigi Picardi, riesce a restituire una dinamica ricca di naturalezza e di velocità (lo testimoniano gli armonici dati dallo strumento). Il palcoscenico sonoro ricostruisce un ideale spazio sonoro con il meraviglioso Bösendorfer Imperial che viene scolpito al centro, con una messa a fuoco leggermente avanzata, senza però risultare innaturale. L’equilibrio tonale è ottimale, con una resa timbrica che è rispettosa degli opposti registri; infine, il dettaglio riesce a restituire concretamente la matericità dello strumento, anche grazie a tanto nero che lo circonda e lo focalizza molto bene.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Bach & Italy Vol. 1
Chiara Bertoglio (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00122
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 5/5
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