Abbiamo intervistato il pianista parigino, con alle spalle lunghi studi effettuati in Italia, per affrontare con lui il suo interessante excursus discografico, incentrato finora in massima parte sul grande repertorio romantico, affrontato sotto un’angolazione interpretativa particolare e raffinata
Maestro Hirèche, cominciamo dalle origini della sua attività artistica. Quali sono state le motivazioni, gli influssi, le cause che l’hanno spinta a diventare un pianista, dedito alla musica e alla sua interpretazione? E, di riflesso, che cosa significa, secondo lei, essere oggi un pianista? Quale può essere la sua funzione in senso alla società in cui vive? Rappresenta ancora un medium, visto in chiave romantica, oppure il suo ruolo deve necessariamente confrontarsi con quanto delineato da Max Weber, ossia che l’artista, come intellettuale, rientra nel contesto del Beruf, quindi di una “vocazione” che è anche “professione” a tutti gli effetti?
Le motivazioni per diventare musicista si sono sviluppate progressivamente nel tempo. I mei genitori pur non essendo musicisti erano ascoltatori appassionati e sin da piccolo mia madre mi portava con sè ai concerti presso i quali si recava. Ascoltavo le biografie e le opere dei grandi compositori del passato su delle cassette audio destinate ai bambini che mi regalava mia madre. Per concludere, potrei dire che sono diventato musicista “per difetto”. Infatti, la scuola mi annoiava molto e intuivo che la vita aziendale e lavorativa non mi sarebbe andata a genio. In questo senso, il Beruf weberiano citato nella sua domanda era un concetto che mi risultava totalmente estraneo. Potrei dire, semmai, che si sviluppò successivamente col passare del tempo insieme con la crescita di un’esigenza interiore che richiede l’interpretazione dei capolavori della letteratura pianistica. La musica è senz’altro una vocazione e in quanto tale diventa anche una “dipendenza”. Per quanto riguarda la concezione del musicista, posso dire che è senz’altro presente, in particolar modo nella concezione del récital pianistico che nasce proprio in quel momento storico. Non si può negare che esista una certa magia nel processo interpretativo. Ricreare meravigliosi capolavori attraverso lo spartito e comunicarli al pubblico è qualcosa di magico oltre che essere un privilegio e una grande responsabilità.
Nel suo percorso “vocazionale”, quasi sulle orme del goethiano Wilhelm Meister, è stato fondamentale il suo incontro, e la possibilità di potervi studiare, con il compositore e pianista Antonio Ruiz-Pipó, un musicista non molto conosciuto in Italia, ma il cui approccio compositivo-pianistico è assai interessante, come vedremo in seguito. Come didatta che cosa le ha trasmesso questo musicista di Granada, scomparso a Parigi nel 1997, a soli sessantatré anni?
Antonio Ruiz- Pipó mi ha dato così tanto che sarebbe difficile rispondere in maniera esaustiva a questa domanda. Posso dire che studiare da molto giovane con un musicista completo che era sia interprete (aveva studiato con Cortot) sia compositore ha arricchito e nutrito sin da subito la mia visione globale del processo musicale. Non era infatti un “semplice” didatta, ma cercava sempre di far comprendere la struttura formale delle opere con le loro implicazioni espressive. Mi incoraggiò nella mia passione per le opere di Bach e ricordo che mi disse - forse sulle orme di Schumann -«non fare mai passare un giorno senza suonarlo».
Ora, vediamo di affrontare l’universo Ali Hirèche attraverso la sua discografia, che a tutt’oggi ammonta a quattro titoli. Cominciamo con il disco che presenta gli Studi op. 10 & op. 25 di Chopin, registrato con la Bion Records (e di cui su MusicVoice abbiamo già diffusamente parlato, leggi qui). Come ho evidenziato in quell’occasione nell’analisi interpretativa, nella sua lettura ha bandito ogni forma di “scolasticismo”, ossia trasformando gli Studi da elemento dal sentore propedeutico in una manifestazione in cui la ricerca sonora, l’esplorazione della tastiera diviene atto puramente estetico in nome di una disciplina squisitamente formale (il senso delle proporzioni, la volumetria sonora), senza però mai sacrificarne la dimensione espressiva. Insomma, un’interpretazione in nome di un notevolissimo equilibrismo, mantenuto su un filo che era in realtà una lama affilatissima, che però non l’ha minimamente ferita…
Intanto la ringrazio per il complimento. Per me gli studi di Chopin sono sin dalla loro concezione fuori dalla didattica com’era intesa dai suoi contemporanei. Per Chopin lo studio fu quasi un pretesto, pur contenendo intenti didattici, per creare un vero e proprio manifesto estetico capace di aprire prospettive sonore e fisiche inaudite. Dopo la pubblicazione di questi quaderni, molti dei suoi illustri colleghi contemporanei e successivi si confrontarono con questi capolavori. Penso a Liszt ma anche allo stesso Brahms, per non citare Debussy, Skrjabin, Rachmaninov.
Siccome, come si potrà comprendere, la sua lettura chopiniana mi ha particolarmente impressionato, è sua intenzione riprendere questo autore in futuri progetti discografici? E, più specificatamente, da quali altre opere del polacco è affascinato?
Nell’immediato non ho progetti discografici legati a Chopin, anche se continuo a “frequentarlo” nel mio studio e in concerto. In futuro mi piacerebbe sicuramente incidere altre sue opere. Tutti i lavori di Chopin sono il frutto di un equilibrio meraviglioso tra scoperte armoniche e ricerca formale e sicuramente le sue ultime mazurke, la barcarola, la polacca-fantasia e la quarta ballata toccano vette incredibili.
Andiamo avanti. Sempre del 2018, con la debita registrazione effettuata però l’anno precedente, è il disco dedicato ad autori spagnoli, ossia de Falla, il già citato Ruiz-Pipó e Mompou, ossia il disco che porta il titolo di Ventanas. A Glimpse of Another Spain, pubblicato dall’etichetta Genuin, e che contiene la Fantasia Baetica di de Falla, le Impresiones intimas di Mompou e del suo maestro Ruiz-Pipó, tutte in prima assoluta mondiale, Vantanas, le Variaciones sobre un tema popular catalán e le Variaciones sobre un tema popular gallego. Essendo lei francese, la prima domanda, a tale riguardo, è scontata: questo “sguardo” gettato verso la musica pianistica spagnola è lo stesso che ebbe ai tempi Maurice Ravel, quindi di scoperta, seguita da un processo di adesione/riconoscimento, oppure lo scopo è stato diverso?
In un certo senso direi di sì. Pur avendo studiato con Ruiz- Pipó, devo dire che fino al progetto di questa incisione ho frequentato poco la musica spagnola anche se conoscevo le opere del mio Maestro. In fondo, si è trattato di una scoperta che ha suscitato da parte mia un’adesione entusiasta.
Tutte le opere presenti in questa registrazione possono vantare un denominatore comune, quello di un’attenta, maniacale esplorazione dell’universo timbrico della tastiera, un’esplorazione mai disgiunta da un’emozionante intimità manifestato dal suono emanato dalla tastiera. E questo vale soprattutto per Ruiz-Pipó, la cui profondità compositiva è quasi un ricollegarsi a quell’estetica debussyana presente soprattutto nei due libri dei Préludes. Quindi, anche in questo disco ha voluto manifestare questa sua ricerca di espressione come volontà esplorativa?
Certamente questa musica incita alla ricerca sonora poiché fa dei timbri e dell’evocazione di strumenti tipici del folclore tradizionale una delle sue fondamenta ed è stato quindi un lavoro esplorativo molto importante per me. Oltre a questa peculiarità, ha sicuramente svolto un ruolo importante la volontà di presentare al meglio le opere pianistiche di Antonio Ruiz- Pipó che, a differenza dell’opera chitarristica, sono molto meno diffuse.
Facciamo ora un passo indietro, con la sua prima registrazione, risalente al 2008, dedicata a Brahms, con i due volumi delle Variazioni op. 35 su un tema di Paganini, le Variazioni op. 21 su un tema originale e le Variazioni op. 9 su un tema di Schumann, pubblicata dall’etichetta Integral Classics (e riedito nel 2018 dalla Da Vinci Classics). Sinceramente, non mi è mai capitato di ascoltare un Brahms così “francese”, ossia così cristallino, così lirico, anche nei frangenti più accesi e drammatici, con una timbrica capace di essere così trasparente, insomma un Brahms che forse avrebbe fatto storcere il naso al “progressivo” Schönberg, ma che avrebbe, allo stesso tempo, suscitato il plauso di Schumann. Con questo voglio dire che la ricerca esplorativa non si basa su un’estremizzazione tecnica offerta dal linguaggio, ma nel suo restituirne una classicità a volte addirittura struggente, come avviene soprattutto nell’op. 9. È questa la sua concezione del pianismo brahmsiano?
Intanto potrei dire che il disco brahmsiano contiene due opere che partono da un tema di Schumann e da un tema di Paganini e mi sembrava importante tenere conto di questi aspetti. Partendo invece da un punto di vista globale ho sempre pensato che la musica di Brahms soffrisse a volte, dal punto di vista interpretativo, di alcuni luoghi comuni. «Brahms è tedesco», «Brahms è massiccio», eccetera… Come in molti luoghi comuni c’è un fondo di verità, ma è tuttavia riduttivo. Trovo che la densità di questa musica venga ancor più valorizzata non cercando di sottolineare troppo la sua verticalità, ma tirando fuori le sue linee orizzontali che sono anch’esse meravigliose.
L’ultima sua registrazione discografica, pubblicata lo scorso anno e che presenta i Davidsbündlertänze op. 6 e la Kreisleriana op. 16 di Robert Schumann, uscita per l’etichetta Bion, rappresenta idealmente, rispetto a quanto inciso in precedenza, un ritornare à rebours al nucleo iniziale del tutto, non solo al cuore del Romanticismo più visionario, quello che a livello letterario fa capo a Ernst Theodor Amadeus Hofmann, ma anche come il risultato collettivo desunto da quanto aveva esplorato precedentemente, quasi che il cammino fatto fino a quel momento da parte sua fosse stato necessario per affrontare con più consapevolezza la monumentalità espressiva ed emotiva di questi due capolavori. Perché qui c’è tutto: titanismo, incomprensione, quindi vittimismo, slancio passionale, il sogno che prende il sopravvento sulla realtà, sprofondamento nell’inconscio, “viaggi in altri mondi”, per dirla con Franz Grillparzer. Questo perché appare evidente come la sua esplorazione pianistica qui si fa totalizzante, irradiante, capace di riassumere, a mio modo di vedere, quanto elencato da un manifesto programmatico del Romanticismo stesso, del quale queste due composizioni, le più enigmatiche e pianisticamente sfuggenti di Schumann, sono la perfetta costituzione sonora. Quindi, le chiedo: è con queste prerogative, con questi atteggiamenti spirituali ed estetici che ha voluto affrontare queste opere? E poi, come conseguenza, dopo Schumann, che cosa ci sarà in Ali Hirèche?
Indubbiamente l’incisione Schumanniana chiude un piccolo cerchio nel mio percorso discografico. Si tratta di opere “iniziatiche”, piene fili conduttori che si intrecciano, sembrano perdersi per poi riapparire in una dimensione temporale che li ha totalmente trasformati. Confermo quindi le osservazioni contenute nella sua domanda. Vorrei aggiungere che durante la preparazione di questa incisione ho perso un essere a me molto caro e questo lutto ha arricchito, se così possiamo dire, la visione di queste opere che, oltre a contenere una passione travolgente, traducono la lontananza, il desiderio, l’amore e l’evocazione di dimensioni ultraterrene. Dopo questa incisione, ho deciso di proseguire l’esplorazione del repertorio romantico attraverso due archetipi di quel periodo: la figura del Faust e quella del Wanderer. Fanno quindi parte di questo disco [che sarà pubblicato nella primavera del 2023, N.d.C.] la Wanderer Fantasie di Schubert e la sonata di Liszt che sono collegate tra loro a livello formale nonostante i trent’anni che li separano. Ho abbinato a queste opere tre Lieder di Schubert trascritti da Liszt: il primo è il Wanderer, in modo da permettere all’ascoltatore di connettersi alla Fantasia e agli altri due Lieder con testo di Goethe: Erlkönig e Gretchen.
Un’ultima domanda, Maestro Hirèche. La sua esplorazione pianistica è debitrice anche di un apparato metamusicale? Intendo dire, la sua sensibilità di interprete risente anche di acquisizioni letterarie, artistiche, filosofiche, che hanno lasciato un segno indelebile nel suo essere artista?
Certamente, per me non potrebbe essere altrimenti. Citerei fra i molti la musicalissima e travolgente prosa di Céline, le riflessioni estetiche e l’opera di Carmelo Bene, il cinema di Bergman... Altrettanto importanti sono le esperienze vissute nella mia vita con i suoi momenti bui e anche le sue grandi gioie!
Andrea Bedetti