Lo scorso 25 marzo il pianista toscano Alessandro Lanzoni, classe 1992, ha presentato alla Casa del Jazz di Roma il suo primo lavoro in pianoforte solo dal titolo “Diversions” (CAM Jazz, 2016), un album attraverso il quale trova la giusta sintesi il suo continuo lavoro sulla forma della libera improvvisazione
Quando Alessandro Lanzoni sale sul palco è circondato dal silenzio ovattato della Casa del Jazz. Il giovane pianista dà un’occhiata al pubblico, si siede sullo sgabello e guarda in alto prima di mettere le mani sulla tastiera. Un preciso istante che avrebbe bisogno di un fermo immagine per capire cosa gli stia passando in mente, in un attimo così delicato e prezioso. Glielo abbiamo chiesto il giorno prima di questo concerto in pianoforte solo, dove ha presentato il suono nuovo album “Diversions” (CAM Jazz, 2016): «Dipende, perché ogni esibizione è diversa, cambia il luogo, il mio stato d’animo, il pubblico che ti circonda. Ogni volta che mi trovo a dover iniziare a suonare ho un tipo di sensazione diversa. Anche l’eccitazione di suonare varia. In generale, quello che mi passa per la testa è cercare la concentrazione. Quello che cerco di fare all’inizio è concentrarmi esclusivamente sulla musica, e dopo, una volta iniziato, il resto viene naturale. Da lì in poi suono».
Il silenzio è risolto con poche note, che risuonano nell’aria in cerca di un senso compiuto. Lanzoni inizia a inanellare melodie, giocando particolarmente sul registro medio. Lavora sulla forma, indaga possibili percorsi, improvvisa con intelligenza e non perde mai il filo di un discorso creativo che trasuda storia del jazz, sbircia pagine di musica classica, si sporca di colori blues che rendono il tutto più sanguigno e incisivo. Nel suo pianismo entrano la classe di Keith Jarrett, l’inventiva fuori dagli schemi di Thelonious Monk, la purezza di Billy Strayhorn, e ne esce uno stile personale, maturo, malgrado i suoi ventiquattro anni di età, e pieno di interessanti spunti di riflessione che vanno al di là dell’istinto in senso stretto. Lanzoni adora suonare in solo. Lo conferma lui stesso durante la performance, e nell’ora di concerto realizza quattro lunghe improvvisazioni, più un bis, nelle quali utilizza alcuni standard come punto di partenza verso lidi di assoluta estasi creativa.
Il suo rapporto con lo strumento è totale; ne suona le corde ottenendone note aspre che producono ambientazioni sinistre, scurissime. Continua una profonda indagine riguardo le possibilità espressive del pianoforte e trascina gli spettatori in passaggi che richiamano un certo tipo di avanguardia, tra misure circolari e cantabili alle quali danno alternanza note slegate e spigolose. Il pianista fiorentino si mostra più emozionato durante le pause, mentre presenta al pubblico i brani e le intenzioni del nuovo album, che nei momenti in cui le sue mani insistono sulla tastiera. La musica come ragione di vita e come inesauribile fonte d’espressione, per un artista che fa della dedizione e dello studio un credo imprescindibile, come ci ha confermato: «Il piano solo è una dimensione con la quale mi confronto da sempre. Anche quando suono a casa cerco di sviluppare un discorso musicale coerente. Voglio riuscire a dare una forma all’improvvisazione in modo da farla sembrare composizione estemporanea. La musica deve avere una certa identità. Sto cercando di non prepararmi nulla prima di salire sul palco. Quello che faccio sul momento è la cosa determinante». E quella a cui abbiamo assistito è stata una prova di rara intensità e misura, frutto di determinazione, impegno, fantasia e preparazione assoluta. All’uscita della sala Lanzoni attende e ringrazia il pubblico di persona; è provato, ma visibilmente soddisfatto. La sua figura rimanda un’idea di umiltà e spontaneità che non può mentire: è la tipica sensazione che solo i più grandi riescono a trasmettere.
Roberto Paviglianiti