Mattia Cigalini non è più una promessa del jazz italiano, ma una realtà che si è fatta tale attraverso una serie di album da leader che ne hanno messo in evidenza il valore e le intenzioni. Lo abbiamo raggiunto il giorno della presentazione del suo nuovo lavoro “Adamas” (Verve/Universal, 2016), realizzato in quartetto con Paolo Birro al pianoforte, Marc Abrams al contrabbasso e Mauro Beggio alla batteria

“Adamas” (Verve/Universal, 2016) è il tuo nuovo lavoro discografico. Sembra un ritorno alle tue origini riguardanti il jazz mainstream.

Sì, per certi versi lo è. Il disco è stato realizzato in maniera molto naturale. Mi sono affidato al tipo di jazz nel quale mi sento più a mio agio, il jazz della tradizione, o se vogliamo definirlo come mainstream. Ho sperimentato molto in questi ultimi anni; i miei album più recenti hanno avuto dei connotati crossover o cercavano un qualcosa che andasse a pescare in una concezione contemporanea. “Adamas” è come un ritorno sui miei passi iniziali, a confrontarmi con il “jazz vero e proprio”. Dopo tante esperienze mi sono riscoperto perfettamente a mio agio nello swing, nel mainstream e in quelle sonorità che mi hanno fatto innamorare del jazz. Mi piace esprimermi con questo linguaggio. Vedo quest’album come la chiusura del cerchio di un percorso intenso, che mi ha permesso di tornare a certe sonorità con una coscienza diversa, sicuramente più matura e consapevole.

È il primo lavoro che realizzi con una major label. Come ti sei trovato, soprattutto per quanto riguarda le scelte di produzione?

Passare a una major, in questo caso la Universal, è un momento molto importante. Cambiano molte dinamiche e le differenze sono notevoli. Spesso si tende a pensare che in certe situazioni l’artista si senta un po’ ingabbiato, anche per questioni di mercato discografico. Per fortuna nel mio caso non è andata così. Ho goduto di una fiducia che non mi aspettavo. Ho scelto i musicisti, il repertorio e tutto il resto. Mi sono sentito totalmente libero; il lavoro si è svolto in maniera del tutto lineare, ho solo illustrato a grandi linee ai discografici cosa avevo in mente e quale direzione intendevo intraprendere. Non ci sono stati compromessi di nessun genere e per entrambe le parti è stata una collaborazione piacevole.

Che atmosfera si respirava in studio? Avete provato molte volte le tracce che ascoltiamo sul disco?

In scaletta ci sono quasi esclusivamente prime take, tranne forse uno o due brani che abbiamo ripetuto. Il gruppo non ha suonato molto insieme prima di entrare in studio. Abbiamo suonato insieme in due o tre concerti, non di più. Questo è un aspetto un po’ atipico, ma d’altro canto il risultato che si ascolta sul disco trasmette una sensazione di “freschezza espressiva”. Mi fidavo appieno dei musicisti, e ci siamo permessi di entrare in studio senza troppa preparazione. Per la direzione che volevo dare all’album è stato un bene.

Il tuo suono strumentale ha assunto una particolare definizione. È da un po’ di tempo che ti dedichi ad alcuni aspetti tecnici del sassofono, ce ne vuoi parlare?

Sì, da alcuni anni sto cercando delle formule sempre migliori per condurre il suono all’interno del sax, concentrandomi in maniera dettagliata sull’imboccatura. In tal senso oggi esistono milioni di soluzioni, e io stesso ho provato molti materiali come ottone o alluminio, fino a quando ho iniziato a collaborare con un’azienda con degli ingegneri giovani con i quali ci siamo avventurati nella ricerca di materiali particolari. Siamo arrivati a trovare una lega speciale che nella musica non è mai stata considerata perché attinge dal mondo dei minerali. Senza scendere nei dettagli, ho ottenuto un risultato sorprendente, una lega che si chiama Black Tech, dal colore nero molto accattivante. Da questi studi è nata una nuova azienda di imboccature firmate da me, la Cigalini Music. Il materiale sarà presto decontestualizzato dal mondo del sax e verranno realizzate parti anche per tromba e altri strumenti.

Nella tua vita recentemente sono accadute cose importanti: qualche anno fa è mancata tua madre, e poi sei diventato padre. Questi eventi come sono entrati nel tuo modo di essere musicista?

In maniera violentissima. Sono episodi che non cambiano solo il tuo modo di suonare, che è la cosa più immediata e che nel mio caso si è avvertita in maniera netta, ma cambiano anche il modo di pensare come uomo. È successo tutto in fretta, e chiaramente oggi ho delle priorità diverse, soprattutto in merito alla nascita di mia figlia. La stessa gestione del lavoro come musicista non è più uguale al passato. Se prima ero libero da impegni e potevo andare un mese a suonare a New York o Parigi, come mi è capitato, adesso il tutto diventa più difficile. Seleziono gli impegni in maniera più accurata, anche perché non è sempre semplice organizzare un viaggio per suonare, che poi è la parte più difficile del mio lavoro, quella più facile è salire sul palco per suonare. Il pensiero corre agli affetti famigliari, cambia il mood dell’esperienza artistica in genere. Il significato della mia musica è cambiato, e si è arricchito il peso specifico di quello che faccio.

Roberto Paviglianiti