Franz Liszt lasciò indubbiamente una pesante eredità in fatto di tecnica pianistica e visione estetica della sua musica, un’eredità che era già iniziata ai tempi della sua “corte” di Weimar (anche se sarebbe più corretto accostarla, a livello di finalità, al Kreis, al “circolo” elitario sul modello di quello del poeta austriaco Stefan George), che vide arrivare da ogni parte del mondo di allora, perfino dall’America (come nel caso di Edward MacDowell), giovani musicisti desiderosi di far parte di quella Neue Musik invocata dal compositore ungherese e più in generale da Wagner. Da parte loro, però, le nuove generazioni di pianisti russi, pur ammirando il vangelo lisztiano, preferirono assistere alla finestra e rivolgersi ai loro numi tutelari di casa, ossia Anton Rubinštejn, Pëtr Il’ič Čajkovskij e, per quanto riguarda un preciso richiamo a una concezione nazionale della musica, ovviamente al Gruppo dei Cinque (formato da Milij Balakirev, Cezar’ Kjui, Modest Musorgskij, Nikolaj Rimskij-Korsakov e Aleksandr Borodin).

E tra i musicisti russi delle nuove generazioni che guardarono con interesse e ammirazione alla musica di Liszt ci fu sicuramente Sergej Ljapunov, nato a Jaroslavl’ nel 1859 e morto esule a Parigi nel 1924. Questo compositore e pianista ebbe modo di studiare al Conservatorio di Mosca, tra gli altri, con Karl Klindworth, il quale fu a sua volta allievo di Liszt. Attraverso questo insegnante e un percorso personale di studio, analisi e comparazione, Ljapunov si sentì, come affermò egli stesso, “del tutto succube di Liszt” e della sua musica. Ma questo non significa che dimenticò o mise da parte le radici del suo pianismo, eminentemente russo e vicino alle posizioni del Gruppo dei Cinque e, in particolar modo, del fondatore Balakirev.

Questa doppia visione, questo essere in grado di recepire le innovazioni lisztiane pur restando fedele a una scuola, come quella russa, si manifestano compiutamente in quello che viene considerato il suo capolavoro, al di là di una produzione che vede anche due sinfonie, due concerti per pianoforte e uno per violino, i 12 Études d’exécution transcendante, culmine di tutto il corpus pianistico, composti lungo un arco di tempo che va dal 1897 fino al 1905 e concepiti proprio in memoria del compositore ungherese (come attesta una dedica che si manifesta compiutamente nell’ultimo Studio, Elegie en mémoire de François Liszt). Ma se l’approccio a quest’opera avviene partendo dall’impianto degli omonimi Studi lisztiani, credendo di ravvisare in quelli del compositore russo una sorta di proseguimento ideale di visione e d’immagine musicale, si potrebbe restare forse delusi, anche se poi Ljapunov effettivamente, a livello di tonalità, riprende il sentiero percorso dal musicista ungherese, nel senso che se gli Studi di Liszt salgono dalla tonalità del do maggiore per giungere al si bemolle maggiore, il compositore russo inizia da dove Liszt aveva chiuso il suo ciclo, ossia partendo dalla tonalità di fa diesis maggiore fino a concludere con quella di mi minore. Ma, si basi bene, questo sviluppo non comporta in Ljapunov un’altrettanta scalata in termini di struttura, di arcate per l’appunto trascendentali come nel tanto ammirato compositore magiaro, ossia investendo in dimensioni e in apparati armonici tali da far pensare a concezioni sinfoniche o ad architetture degne di cattedrali gotiche.

Si è detto che il musicista di Jaroslavl’ in questo lavoro opera una sintesi o, meglio, un punto di incontro tra la monumentalità timbrica di Liszt (come avviene nello Studio n. 6, Tempête) in cui l’impeto e la magniloquenza regnano sovrani (non per nulla questo fu il primo Studio creato da Ljapunov), rimandando necessariamente all’immagine titanica e “demoniaca” di un certo Liszt, e la dimensione riflessiva, quasi chopiniana, che irrompe subito dopo (Studio n. 7, Idylle), in cui il fraseggio si fa più articolato, sfumato, arrotondato con un pianismo che è un bulino capace di intarsiare arabeschi e strutture fantastiche. È indubbio che tale mediazione tra la trascendentalità e la riflessione, tra la dimensione iperbolica e la stagnazione interiore  vogliono essere un inevitabile compromesso che l’autore russo volle proporre in un’epoca, a cavallo dei due secoli, in cui la lezione lisztiana stava cominciando a stemperarsi e a irradiarsi in numerosi rivoli, andandosi a immettere nelle varie scuole pianistiche, a cominciare da quella russa, in cui l’afflato melodico non è mai esente da venature retoriche (si pensi all’inizio dello Studio n. 8, Chant épique), portando di conseguenza lo svolgersi di questi brani anche attraverso l’apparato narrativo o immaginativo, nel coagularsi in visioni che possono avere dei precisi richiami “programmatici” (Studio n. 5, Nuit d’été; Studio n.9, Harpes éoliennes; Studio n. 10, Lesghinka; Studio n. 11, Rondes des sylphes). Certo, non mancano gli scatti, gli slanci, le impennate, con la tastiera che si trasforma in materia scultorea, in marmo plasmato con un furore michelangiolesco, in ossequio a una trascendenza che però è più legata al sapore dei blini che a quello del gulasch.

Da ciò, difficoltà di lettura di questo ciclo risiede per l’appunto in una concezione double face in cui la rappresentazione del modello lisztiano dev’essere esteticamente messa in crisi da un pianismo che si fa più elegiaco (perfino nell’ultimo Studio, in omaggio a Liszt, tra vampate di rapsodia e “graniticità” timbrica, il cantare, l’intonare passaggi in cui il fraseggio si ammorbidisce, si rende etereo non mancano di certo), più narrativo (d’altronde il narrare è elemento precipuo dell’arte russa nelle sue varie espressioni), più portato a dipanare che ad aggrovigliare. Ecco, gli Studi di Ljapunov sono proprio ciò, il tentativo di mediare tra un’opera di dipanamento ed una che invece, architettonicamente, vuole sommare più piani, ampliando gli ambienti e gli interni. E in ciò l’interpretazione del giovane pianista beneventano Vincenzo Maltempo si va a iscrivere come una versione di possibile riferimento, questo perché è in grado pianisticamente di muoversi sul proverbiale filo del rasoio, senza debordare, senza cedere da una parte alla tentazione delle sirene della magniloquenza, né dall’altra a quelle del lirismo tout court, ma affrontando quest’opera come dev’essere fatto, ossia esplorandola, saggiandone i pregi e i difetti, donandole un’aura nella quale il pianoforte non è solamente l’immagine riflessa di un’orchestra, ma anche un libro fatto di note e di suoni, che dev’essere letto eseguendolo, come vuole una certa tradizione della scuola russa. Dominio e disciplina, proiezione e fantasia, capacità di innalzare e di raccontare, quindi, con la consapevolezza di una riflessione che è anche analisi e discernimento.

Di buona fattura anche la presa del suono, capace di evidenziare al meglio quell’orchestra racchiusa in una tastiera che è lo Steinway D usato da Maltempo per la registrazione. Dinamica granitica, che dà luogo a un equilibrio tonale in grado di rispettare sempre la tavolozza timbrica e con un dettaglio che restituisce ampiamente la fisicità dello strumento.

Andrea Bedetti

 

Sergej Ljapunov – 12 Études d’exécution transcendante

Vincenzo Maltempo (pianoforte)

CD Piano Classics PCL0124

 

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 4/5