A ben vedere (e ad ascoltare, ovviamente), il Novecento, musicalmente parlando, è un immane mantice sonoro in cui il suo respiro è il risultato di un continuo processo di frammentazione e deframmentazione, di costruzione e decostruzione. Il suo imperituro fascino, a differenza dei secoli precedenti, è che il materiale di cui è timbricamente pervaso, lo rende una creatura polimorfica e in continua mutazione. Il Novecento musicale è un fiume arricchito da tanti affluenti che ne cangiano continuamente il suo colore e il suo sapore. E tra i molteplici colori di cui è stato pervaso lo scorso secolo, è indubbiamente affascinante il percorso scelto dalla pianista e musicologa Pina Napolitano e dipanato lungo tre sue intriganti registrazioni discografiche, tutte effettuate per l’etichetta statunitense Odradek, di cui la prima rappresenta un paletto ineludibile, l’integrale per pianoforte solo di Arnold Schönberg, proseguite dapprima da opere dello stesso Schönberg, Bartók e Krenek e da ultimo con un nuovo salto indietro nel tempo, ma collegato sempre idealmente a quel lasso temporale e musicale del primo Novecento storico, ossia al concetto, anch’esso schönberghiano, del “Brahms progressivo”, presentando brani dello stesso Brahms e degli altri due principali esponenti della Seconda scuola di Vienna, Alban Berg e Anton Webern. Ed è proprio sull’ascolto degli ultimi due CD dell’artista casertana che si concentra questa disamina.

Per affascinare bisogna essere affascinati e Pina Napolitano (che abbiamo anche intervistato) ha subìto indubbiamente il fascino di un tema peculiare della musica novecentesca, quello che riguarda la “decostruzione costruttiva”, ossia il costruire sulle macerie del passato, attraverso le macerie de passato e utilizzando le macerie del passato. Ed è per questo motivo che questo suo percorso interpretativo ha preso avvio dalla registrazione dell’integrale pianistica di Schönberg (ossia con i Drei Klavierstücke op. 11, i Sechs kleine Klavierstücke op. 19, i Fünf Klavierstücke op. 23, la Suite für Klavier op. 25 e i due Klavierstücke op. 33a & 33b), in quanto con queste opere e il loro progressivo concretizzarsi prende corpo non solo l’idea della serialità, ma soprattutto quella concezione di modernità su cui si basa buona parte del respiro musicale novecentesco. Una modernità che costruisce decostruendo, ossia smontando ciò che il passato aveva formulato (a partire dal linguaggio tonale) e progressivamente ricostruendolo sotto altre forme. C’è chi ha affermato che Schönberg e la sua musica abbiano rappresentato l’ultimo anelito di un Romanticismo che non sapeva più riconoscere se stesso e forse è proprio così. Ma resta il fatto che la produzione pianistica di Schönberg riprende idealmente, trasfigurandola nella sua fedeltà al senso progressivo dei nuovi tempi, la grande lezione brahmsiana, la quale diventa necessariamente il propileo di una nuova epoca che doveva essere individuato, raccolto e ampliato in nome di un’inevitabile esasperazione creativa. Cosa che avviene, per l’appunto, con Schönberg il romantico (come lo definisce la stessa Pina Napolitano nelle note di accompagnamento del suo disco dedicato al pianismo del compositore viennese).

E se questo è il punto d’inizio, il secondo risultato discografico del trittico dedicato al Novecento e dintorni, che vede la presenza del Concerto per pianoforte e orchestra op. 42 dello stesso Schönberg, oltre alla sua singolare Begleitmusik zu einer Lichtspielszene op. 34 (Musica di accompagnamento per una scena cinematografica), l’Elegia sinfonica per orchestra d’archi op. 105 di Ernst Krenek e il Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Béla Bartók, coinvolge a livello centrifugo un altro aspetto che contraddistingue l’affascinante panorama musicale novecentesco e che prende propriamente avvio dal nuovo respiro schönberghiano, con la dimensione costruttiva decostruita che lascia specularmente spazio a ciò che è l’altra faccia del medesimo linguaggio, la sua decostruzione costruttiva, poiché come ogni respiro, composto dalla fase dell’inspirazione e da quella dell’espirazione, anche le progressive formulazioni e formazioni del linguaggio di Schönberg, nate dal passaggio attraverso l’espressionismo, tendono, e non solo nel compositore austriaco, a rimodellarsi nel tempo, come avviene con il Concerto per pianoforte, composto nel 1942 in terra statunitense, e ancor più con la Musica di accompagnamento per una scena cinematografica, scritta nel biennio 1929-30, così come nella seducente Elegia di un autore come Krenek, capace di aderire a una serialità ancora più estrema e virulenta, dando vita non più a un’espressione espressionistica, ma al suo conseguente rimando, vale a dire ad un’ex-pressione che dell’espressionismo esprime soltanto un richiamo dal sapore e dal colore nostalgici. E questo vale anche per un musicista come Béla Bartók, di cui il terzo e ultimo concerto pianistico, scritto nell’ultimo anno di vita e al culmine della malattia e della povertà, è elemento di altra nostalgia, nel senso di una ricerca del tempo anteriore attraverso i presupposti dell’acquisizione di una temporalità resa ormai posteriore dal suo stesso passaggio, mera conquista di una maturità stilistica ed espressiva (nella stessa accezione di quella di Schönberg e Krenek) in cui la nostalgia è la consapevolezza di un trascorrere di cui si scopre l’appartenenza nel momento stesso in cui cessa di appartenere in colui che lo avverte e lo pensa. Ecco, allora, che questi tre autori vengono proposti in un momento artistico (non si dimentichi che l’Elegia fu composta da Krenek nel 1946 quale sublime e straziante epitaffio di fronte all’assurda morte di Anton Webern, ucciso per errore nel settembre dell’anno prima da un soldato americano) in cui l’inspirazione si tramuta in espirazione, dando compimento al processo definitivo e totale di quel respiro che ammanta parte del Novecento musicale.

Questa dimensione nostalgica, questo tornare indietro di un presente che deve fare i conti con i rimandi del passato, viene reso dall’interprete casertana con una trasposizione timbrica in cui, come afferma la stessa Napolitano, viene rimarcato l’apporto ritmico, il quale non assume un valore esclusivamente estetico, da intendersi come un “arricchimento” rispetto al contributo ermeneutico dell’esecuzione, ma che vanta un carattere primario onde poter mettere in risalto quanto Schönberg e, soprattutto, Bartók, hanno voluto imprimere nei loro concerti pianistici. Un ritmo musicale che è quindi anche ritmo interiore, palpitazione di quella nostalgia che ammanta tutti questi lavori e che dev’essere manifestato proprio attraverso un vitalismo timbrico in cui il ritmo “fisico” si tramuta in compiuta espressione dell’ex pressione di cui sono foriere per l’appunto le opere in questione.

Questo cerchio storico-interpretativo Pina Napolitano lo ha conchiuso coerentemente con una terza registrazione, nella quale torna ad affrontare il repertorio pianistico solistico (oltre ai Klavierstücke op. 118 e op. 119 di Brahms, sono presenti il Klavierstück, il Satz für Klavier e il Klavierstück – Im Tempo eines Menuettes, Variations, op. 27 di Anton Webern e la densa ed emozionante Sonata op. 1 di Alban Berg), in cui viene affrontato il concetto, così caro a Schönberg e alla Seconda Scuola di Vienna, di Brahms e del suo essere profeticamente “progressivo”, vale a dire uno dei momenti topici da cui prende avvio la concretizzazione della modernità. Brahms è colui che chiude definitivamente la porta del classicismo, chiarisce che gli sviluppi del tardoromanticismo non hanno alcun motivo di sopravvivenza (gettando, di conseguenza, nelle maglie dell’anacronismo la figura e l’opera di Rachmaninov) e fornisce i germi, le spore di quei segmenti armonici (l’importanza fondamentale, a tale riguardo, data da concetto di “variazione”), che verranno poi colti, assimilati, metabolizzati e portati al loro naturale compimento da Schönberg e dal serialismo. Ma questo compimento non significa che il modernismo (in questo caso rappresentato dalla Seconda Scuola di Vienna) trae linfa dal passato per poi recidere di netto il cordone ombelicale con esso. Il Novecento musicale (e non solo) rappresenta la manifestazione ultima del frammento che diviene storia, e i frammenti che Schönberg, Berg e Webern traggono e consolidano dalla visione brahmsiana continuano a esistere e a manifestarsi autonomamente nelle loro opere (e quelle scelte dall’artista casertana sono illuminatamente esemplari), al punto che echi di una mutevolezza armonica tra un severo classicismo e un candido e mesto romanticismo si avvertono chiaramente in questi brani, scogli imperituri che non possono essere sommersi del tutto dai marosi di un nuovo linguaggio che per continuare a manifestarsi deve nutrirli e tenerli in vita.

E la lettura di Pina Napolitano non fa altro che far emergere dalla falsa glacialità della Sonata di Berg e soprattutto dalle pagine weberniane tali echi di un passato che continua ad essere un proficuo e prolifico rimando, in nome di un frammentarismo che per esistere ed affiorare deve mantenere in essere ciò che lo ha portato ad estremo compimento. Lettura solida e tenera (Brahms, per intenderci), lucida ed emotiva quella dell’interprete campana, il che denota come la sua scelta esecutiva sia frutto di una ricerca che affonda le sue radici non solo su una concezione empatica in chiave musicologica, ma anche e soprattutto attraverso un palpito interiore attraverso il quale riconoscersi pienamente nella stessa materia interpretativa. Tornando alla registrazione dedicata alle pagine concertistiche e orchestrali di Schönberg, Krenek e Bartók non si può fare a meno di elogiare la resa della lettone Liepāja Symphony Orchestra, capace di restituire un suono non solo compatto, pienamente compartecipe alla visione esecutiva della solista, ma anche duttile, ricco di sfumature timbriche (concerto di Bartók) e perfettamente in grado di gestire gli equilibri architettonici (pagina orchestrale di Krenek), anche grazie alla precisa e accurata direzione da parte di Atvars Lakstīgala.

Altra nota positiva è data dalla presa del suono di entrambe le registrazioni, in cui la dinamica appare sempre molto veloce ed energica, in grado di restituire corposità e naturalezza. Il palcoscenico sonoro ricostruisce idealmente lo spazio degli eventi sonori (e questo vale anche per ciò che riguarda l’equilibrio tonale nel disco che vede la presenza orchestrale, in cui strumento solista e accompagnamento strumentale sono sempre ottimamente delineati timbricamente). Stesso discorso per il dettaglio, preciso, focalizzato e materico.

Andrea Bedetti

 

AA.VV. – Elegy

Pina Napolitano (pianoforte) – Liepāja Symphony Orchestra – Atvars Lakstīgala

CD Odradek ODRCD339

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 5/5

AA.VV. – Brahms The Progressive

Pina Napolitano (pianoforte)

CD Odradek ODRCD330

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 5/5