L’artista casertana, oltre ad essere una valentissima pianista (MusicVoice ha recensito recentemente i suoi ultimi due dischi), è anche una raffinata e attenta traduttrice dal russo. In questa duplice veste abbiamo voluto intervistarla, per cogliere le affinità e le diversità tra il tradurre in musica da un pentagramma e da una lingua all’altra da un testo letterario
Maestro Napolitano, quali sono stati i motivi e quali le riflessioni che l’hanno portata alla realizzazione discografica di questo trittico in cui il Brahms maturo e “progressivo” conduce fino al cuore della Seconda Scuola di Vienna, incarnata da Schönberg, Berg e Webern?
Tutto è partito dal mio primo disco, dedicato alle opere per pianoforte di Schönberg, a cui mi aveva avvicinato il mio Maestro, Bruno Mezzena, che era stato allievo a sua volta dell’unico allievo italiano di composizione di Schönberg, Alfredo Sangiorgi. Bruno Mezzena, che aveva una conoscenza profondissima di ogni repertorio, alla musica moderna e contemporanea aveva sempre dedicato un’attenzione speciale. Quando mi propose, ormai molti anni fa!, l’op. 11 di Schönberg, non avevo ancora mai suonato nulla della Seconda Scuola di Vienna. Mi piacque subito, e da lì cominciai poi a studiarne tutte le opere. Brahms invece è stato una mia grande passione da sempre, anche quella approfondita grazie al magistero di Bruno Mezzena. Studiando questi compositori fianco a fianco, sono emersi in modo naturale i legami che li uniscono, al di là delle apparenti differenze. Guardare il presente attraverso il passato e viceversa, cogliere l’evoluzione e la trasformazione della tradizione al di là delle rivoluzioni, mi ha sempre interessata, in diversi campi. Da qui il percorso dei tre dischi.
Senso del nostalgico ed esaltazione del ritmo sono le parole d’ordine con le quali ha proceduto, almeno in alcuni momenti, alla resa esecutiva di questi tre dischi, soprattutto di quello che vede il concerto pianistico schönberghiano e il terzo di Bartók. Nostalgia e ritmo, che rimandano necessariamente a un’immagine interiore del suono, appartengono di diritto al nucleo pulsante di un Romanticismo che non cessa di manifestarsi perfino nel momento stesso in cui viene superato dai nuovi linguaggi del Novecento…
Sì, forse il Romanticismo più che superato direi viene trasformato. La cosiddetta “freddezza”, il “calcolo razionale” che viene a volte ancora attribuito alla musica moderna e contemporanea, mi sembra un concetto abbastanza datato; ha le sue ragioni, naturalmente, legate a una storia della ricezione della musica, ma va appunto storicizzato, inserito in una tradizione della ricezione che, come tutto, si evolve e cambia. C’è moltissimo “calcolo razionale” nella costruzione musicale non solo di Beethoven e Brahms, ma anche di Chopin. C’è moltissima passione e sentimento non solo in Schönberg e Webern, ma anche in Kurtág e Ligeti. Sono diversi i linguaggi, perché i linguaggi artistici al pari di tutti gli altri linguaggi si evolvono, perché cambiamo noi e cambia il mondo intorno a noi, che l’arte riflette, racconta, trasforma. Non sarebbe strano se scrivessimo oggi versi come quelli di Leopardi, ancorché bellissimi?
Lei, oltre ad essere pianista, docente e musicologa, vanta un respiro intellettuale che le ha permesso di specializzarsi in lingue dell’Europa Orientale e di essere traduttrice letteraria dal russo, traducendo tra l’altro i Taccuini 1919-1921 di Marina Cvetaeva e dedicando un’introduzione critica e filologica a I Quaderni di Mosca di Osip Mandel’stam. Che nesso può trovare un interprete musicale nella ricerca di un’altrettanta “musicalità” quando si cala nei panni del traduttore? E questa passione, questo interesse per la poesia russa del primo Novecento sono forse forieri di un suo possibile rimando interpretativo della musica russa di quel periodo in un prossimo futuro?
A dire il vero non sento di potermi definire musicologa! Non ho seguito corsi di musicologia. Leggo di musica con interesse, ma non credo questo possa fare di me una musicologa… Invece all’università ho studiato slavistica. Tradurre e interpretare (nel mio caso al pianoforte) sono attività molto affini. Questo campo sottile e ampio allo stesso tempo, quello dell’interpretazione, mi interessa particolarmente, per varie ragioni. Ti pone in contatto con l’altro, un altro in genere molto più grande di te!, un compositore o uno scrittore. Oltre a essere un gran privilegio, questo ti porta a dover cercare di definire continuamente i limiti legittimi entro i quali esercitare la tua libertà. Sono entrambe attività strane. Sicuramente hanno aspetti artistici, sostenuti però da un grandissimo sostrato artigianale, in entrambi i casi, e da alcuni aspetti che si possono definire “scientifici”; nel senso che anche noi abbiamo una “realtà dei fatti” con cui confrontarci, la realtà del testo musicale o letterario. Questa realtà non possiamo, almeno dal mio punto di vista, cambiarla, dobbiamo attenerci ad essa il più possibile. Fissati questi limiti, del maggiore rispetto possibile del testo in ogni suo aspetto, dobbiamo trovare la terra apparentemente sottile, ma internamente amplissima, della nostra libertà interpretativa. In senso proprio, traduzione letteraria e performance musicale sono due forme dell’ampio spettro delle traduzioni all’interno di o tra sistemi di segni. E sono entrambe, in gradi e modi diversi, forme dell’interpretazione. Nell’attività traduttiva credo che sicuramente la mia formazione musicale mi sostenga, nella ricerca di un suono e soprattutto di un ritmo che riproduca quello del testo originale o, il più delle volte, cerchi di crearne per quanto possibile un equivalente. I prossimi progetti musicali però non riguarderanno la musica russa – il prossimo disco sarà incentrato sulle composizioni di Elliott Carter, e poi ci sarà tanto altro Brahms, e un concerto scritto per me dal bravissimo compositore americano Jeffrey Mumford, allievo dello stesso Elliott Carter.
Se si presta fede al famoso detto “traduttore traditore”, a suo avviso si tradisce maggiormente quando si traduce in musica i segni presenti sul pentagramma oppure quando si cerca di esprimere non solo il senso, ma anche le sfumature interiori di chi scrive, quando si traduce da una lingua all’altra?
Non lo so! Il concetto di ‘tradimento’ che lei menziona è molto fecondo. Una specie di tradimento c’è già nel fissare sulla pagina i propri pensieri, siano essi musicali, poetici o in qualsiasi altra forma. C’è sempre qualcosa che resta non detto, o viene detto in modo diverso da come era stato inteso, e questa è una cosa che è stata da tempo sottolineata e più volte ripresa. Quando poi si passa alla riformulazione in un’altra lingua o in un altro sistema di segni, il campo del non detto, quello che in traduzione viene chiamato residuo traduttivo, cambia, forse si sovrappone solo in parte al non detto originario, o forse no, disegna una forma completamente diversa. Ma l’opera, poetica o musicale che sia, attraverso la riformulazione interpretativa, si evolve, perde qualcosa ma a volte guadagna anche qualcos’altro, dispiega nuove potenzialità, insomma vive e si evolve come un organismo! Se questi cambiamenti siano più grandi nella traduzione o nell’interpretazione musicale non saprei dirlo, istintivamente direi che sono equivalenti. Cambiare e allo stesso tempo conservarsi, o cambiare per conservarsi, questo dovrebbe essere il meccanismo di cui noi dovremmo essere gli enzimi. E attraverso questo meccanismo ridefinire ogni volta noi stessi. Una delle cose più toccanti che ricordo, a tale proposito, fu quando il Maestro Mezzena mi disse, mentre suonavo Brahms: «È sempre più Brahms. E sei sempre più tu».
Andrea Bedetti