Per il suo secondo disco pubblicato dalla Da Vinci Classics, il pianista lombardo Paolo Rinaldi ha voluto presentare un programma interamente dedicato a Chopin, incentrato sulla terza e sulla quarta delle quattro Ballate, sul secondo e sul terzo dei quattro Scherzi e sulla monumentale, almeno a livello di significato, Seconda sonata. Insomma, un’ora di impervio e tecnico concentrato pianistico, la cui tradizione discografica, a cominciare dalle registrazioni di interpreti immortali, è a dir poco sterminata. Ma ciò che conta, ogni volta che appare un’incisione che riguarda pagine notissime e frequentatissime, è che bisogna sempre avvalersi, sia nella sfera dell’interpretazione, sia in quella dell’ascolto, del benedetto apporto ermeneutico, in quanto ogni esecutore, ben inteso avvolto dall’aura della qualità artistica, ha la possibilità di offrire uno scorcio, persino minimo, che ci permette di ammirare da una nuova angolazione, magari solo spostandoci di qualche centimetro, il panorama conferito da quella composizione.

Cosa che, quando ho letto il nome del giovane Paolo Rinaldi sulla cover del CD, ho fatto con indubbio piacere, tenuto conto che ero rimasto favorevolmente impressionato dall’esito del suo primo disco Da Vinci, frutto di un interessante programma dedicato all’arte della polifonia partendo da Bach per approdare fino a Dallapiccola (vedi qui la recensione). Alla luce di quella prima registrazione, decisamente incoraggiante a livello di lettura, ho quindi affrontato con curiosità l’ascolto del suo Chopin.

Prima di tutto la Ballata op. 47, lavoro di efficacissimo equilibrio armonico nel suo fluire dei temi principali e secondari, calibrati su tonalità per certi versi inusuali (basti ricordare che dopo il primo tema principale e l’enunciazione del primo tema secondario, passando dal la bemolle maggiore al do maggiore, il primo tema viene ripreso in la bemolle maggiore, mentre il secondo tema viene esposto in do maggiore e non con la tonalità più congrua, ossia il mi bemolle maggiore). Rinaldi affronta questa pagina con eleganza, con un trattenuto vigore, esaltandone le sonorità cristalline, facendo attenzione, com’era nelle intenzioni del compositore polacco di non far avvertire la scansione formale tra l’esposizione e lo sviluppo, proponendo una piacevole fluidità nel fraseggio e con un dominio della tastiera nello sviluppo finale che porta alla conclusione. Ci dev’essere sempre una sorta di timore riverenziale, da parte degli interpreti nell’affrontare e dirimere la complessità della grande struttura formale che contraddistingue quel capolavoro assoluto che è la Ballata op. 52. A cominciare dal controllo timbrico dato dal celeberrimo primo tema, uno dei vertici della concezione melodica in Chopin, che il pianista di Desenzano restituisce con una pacata e nostalgica freschezza giustamente necessaria per fare da contraltare al secondo brevissimo elemento tematico, così fondamentale per lo sviluppo successivo della pagina, che conduce a cinque accordi in pianissimo, cuore misterico e insondabile di tutta la Ballata. Rinaldi gioca con la pianificazione agogica, immettendo passione, slancio, così come titubanza, esitazione del sentimento, senso di rimembranze, come a preparare un fecondo terreno di coltura batteriologica alla deflagrazione dell’epilogo da portare la tastiera ad avere il cuore in gola, cosa che Rinaldi disciplina con effervescenza senza minimamente svilire la materia sonora.

Fryderyk Chopin e George Sand, la coppia che fece scandalo nella prima metà dell'Ottocento, per via del loro anticonformismo e per le pose "scandalose" della scrittrice francese.

La lettura che il pianista di Desenzano fa dello Scherzo op. 31 è votata a mio avviso a un generale alleggerimento rispetto a determinate interpretazioni che, in un certo senso, sono andate sopra le righe, ossia a ingigantire una materia musicale che in fondo Chopin aveva fatto confluire nel genere dello Scherzo, anche se per il compositore polacco il significato di questo termine, applicato all’arte dei suoni, non era certo uguale a quello dato a chi l’aveva preceduto, a cominciare da Beethoven. Eppure, la levità, l’accorto evitare, da parte di Rinaldi, di determinate sovrastrutture timbriche che tendono a trasformare la drammaticità di questa pagina pianistica in una tragedia, restituiscono all’op. 31 un’immagine nella quale il contrasto tra la sezione A e la sezione B viene marcato non tanto da una differenza volumetrica della materia in sé, quanto da una timbrica che non vuole esasperare la linea di separazione ma, ancora una volta, restituire una fluidità dell’arcata generale del brano.

Questa attenzione nel saper dare un equilibrio all’intera struttura della composizione, facendo attenzione a non sbilanciarne l’effetto timbrico e le debite proporzioni formali, viene attuato da Rinaldi anche nell’altro Scherzo, l’op. 39, uno dei capolavori di Chopin miracolosamente usciti durante il deprimente periodo trascorso nell’inverno del 1838-39 al Monastero di Valldemossa a Maiorca, in compagnia di George Sand, suonando e componendo su uno scalcinato pianoforte verticale, visto che quello personale, spedito appositamente da Parigi, era stato preso in ostaggio dalle autorità spagnole alla dogana. La declamazione delle ottave staccate in modo minore che contraddistinguono l’incipit della composizione non è mai ipertrofica, così come il repentino passaggio all’episodio centrale, dato dal corale inframezzato dalla serie di arpeggi spezzati, viene gestito con accuratezza e sensibilità timbrica, affinché possa essere sempre percepita un’idea di lontana leggerezza, di un sentore di lontananza, quella che ha perseguitato Chopin dal momento in cui lasciò forzatamente la patria (qui, le similitudini e gli accostamenti letterari suggeriti da Schumann risultano essere una tipica forzatura romantica, che nulla hanno a che fare con la visione musicale). Anche l’atto di ribellione finale, fornito dalla travolgente coda, viene governato ottimamente dal pianista di Desenzano, che non lo considera un momento a sé, ma uno sviluppo inesorabile scaturito da un’anima che non vuole accettare il suo destino.

Il pianoforte verticale che Chopin usò durante il suo soggiorno al Monastero di Valldemossa a Maiorca, ancora oggi conservato nella Cella n. 4, dove il compositore polacco e George Sand furono ospitati.

Un altro bel dilemma, in chiave esecutiva, è offerto dall’op. 35, quella Sonata n. 2 in si bemolle minore che è il risultato di un’operazione creativa sovrastrutturante, nel senso che tutto il corpus della composizione ruota intorno alla celeberrima Marche funèbre, la quale fu però scritta intorno al 1837, ossia due anni prima degli altri tre tempi, e che provocò, tra i contemporanei polemiche e perplessità a non finire (Schumann non poteva sopportarla, contrariamente a Mendelssohn che l’adorava, ma che era vittima, a sua volta, di crisi esistenziali quando ascoltava il Finale successivo, che considerava alla stregua dei cavoli serviti a merenda). Anche in questo caso, Rinaldi non smentisce la sua operazione di necessario equilibrio stilistico, optando per una lettura in cui la parola d’ordine è “omogeneizzazione”; va bene calcare sulla dimensione tragica rappresentata dal primo tempo, il Grave-Doppio movimento, sembra affermare il pianista di Desenzano, ma tutto ha un limite, tenuto conto poi di uno Scherzo in cui l’elemento centrale rappresenta un momento di solenne riflessione in cui si concretizza il distacco dalla materia fisica per entrare nelle sfere metafisiche e che deve preparare l’ascoltatore alla botta emotiva scaturita dalla suddetta Marche. Quindi, la volontà di Rinaldi è stata di affrontare l’interpretazione di questa Sonata come un work in progress, insegnando all’ascoltatore come impattarla senza dover considerare il terzo tempo nei panni di una trappola nella quale cadere, senza avere a mente ciò che la circonda, sia a livello temporale, ossia il tempo di separazione che si crea tra la composizione della Marche rispetto al resto della composizione, sia a livello esecutivo, in cui chi l’interpreta deve inserirla nell’architettura generale senza mettere, anche a livello inconscio, delle virgolette d’apertura e di chiusura, quasi si trattasse di un qualcosa misteriosamente piovuto dal cielo. Ecco perché sotto le dita di Rinaldi, questa Marche non richiama necessariamente l’aspetto “pomposamente” funebre, ma riecheggia quelle atmosfere seminate precedentemente dal segmento centrale dello Scherzo. Ciò permette, proprio per via di questa tensione emotiva sorta con quella parte del secondo tempo e proseguita con la Marche, di collegare con maggiore efficacia quel vituperato (almeno per Mendelssohn, che aveva capito un beato tubo), brevissimo finale, il cui compito non è di stemperare l’atmosfera, ma di fissare, sotto l’incalzare del visionario gioco di velocissime terzine, tutto quanto era stato preceduto, cosa che a mio avviso Rinaldi riesce ad esprimere adeguatamente (anche se lo stesso Chopin, al quale non mancava una sottile ironia, cercò in tal senso di mischiare le carte, visto che affermò testualmente che si trattava solo di un momento in cui « la mano sinistra chiacchiera con la destra»).

Il pianista Paolo Rinaldi (© Giorgio Baruffi).

La presa del suono effettuata da Gabriele Zanetti asseconda, non so se consapevolmente, l’idea di suono auspicata e applicata da Paolo Rinaldi, ossia un suono pervasivo e sfuggente allo stesso tempo, il cui punto di incontro è dato, timbricamente, da una indubbia brillantezza che si manifesta soprattutto sul registro acuto, anche se fortunatamente ciò non provoca una spiacevole sensazione di “metallicità” (questo significa lavorare in modo certosino sulla microfonatura). Ne deriva la ricostruzione del pianoforte, in sede di palcoscenico sonoro, al centro dei diffusori con una accentuata profondità, la quale però non fa mancare altezza e ampiezza al suono dello strumento. Anche l’equilibrio tonale riesce a reggere all’urto timbrico in cui il registro acuto è particolarmente “vivace”, in quanto sebbene, ipervitaminico, quest’ultimo non va a delegittimare o a depauperare la presenza di quello medio-grave. Il dettaglio, infine, permette di scontornare a sufficienza la dimensione materica del pianoforte, sempre focalizzato dal nero che lo circonda.

Andrea Bedetti

Frédéric Chopin – Ballades, Scherzos and Piano Sonata No. 2

Paolo Rinaldi (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00521

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5

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