Il direttore musicale e il mezzosoprano senese sono i principali protagonisti del capolavoro gluckiano Orfeo ed Euridice, che inaugurerà la nuova Stagione lirica padovana il prossimo 12 luglio al Castello Carrarese. Li abbiamo intervistati per conoscere il loro pensiero sull’opera e sul personaggio

 

 

Maestro Angius, va da sé che il suo approccio a un’opera come Orfeo ed Euridice di Gluck ha un imprinting che scaturisce dal suo interesse nei confronti della musica contemporanea. Ma tale peculiarità non rappresenta un difetto, a fronte del fatto che il capolavoro gluckiano non è da intendersi come un’opera lirica, ma come l’opera lirica per eccellenza, nel senso che vantando diverse versioni da parte dello stesso autore e varie modifiche fatte a posteriori da altri autori e interpreti, risulta essere un immane work in progress che non vede e non vedrà mai la parola fine. Si ha quindi l’impressione che il suo desiderio di immettere all’interno dell’opera stessa altri “apporti musicali”, dello stesso Gluck, di Liszt e di Berio, trasformi Orfeo ed Euridice in un segmento inserito nel fluire del tempo e dello spazio, archetipo ed elemento storico allo stesso tempo, nel tentativo di unire il mitologico con il reale, lo slancio estetico con la banalità del quotidiano, inseguendo di fatto il sogno di un denominatore comune che possa sincronizzare l’arte per l’arte con l’arte per la vita.

Nella sua domanda sono contenuti e messi a fuoco molti aspetti di questa curiosa operazione che sto svolgendo con quest’opera di Gluck. Orfeo ed Euridice non è appunto un’opera lirica, ma un’azione teatrale in musica che nasce con un intento celebrativo (da cui il lieto fine obbligato) e, per un caso curioso, è stata anche la prima opera che ho diretto da studente di direzione. L’idea di restauro musicale di un’opera del passato è uno dei temi che più mi stanno a cuore, ma non nel senso filologico, bensì in quello prettamente archeologico: mentre l’archeologia riporta alla luce dei reperti e quindi li fa vivere nel nostro tempo in modo rinnovato, la filologia tende a stabilire, dal mio punto di vista in maniera fuorviante, una stretta corrispondenza tra segno e suono, come espressione di una volontà assoluta del compositore, volontà che invece muta durante la vita del compositore stesso e poi migra nelle intenzioni interpretative successive.

Tale corrispondenza non solo è tutta da dimostrare ma viene a cadere nel momento in cui il segno musicale, la nota, entra nel mondo reale e incontra l’acustica del luogo, la tecnica di esecuzione, in altre parole l’interpretazione in senso stretto. Ecco, tra segno e suono c’è un abisso che si chiama interpretazione e che permette a un musicista di offrire una diversa lettura della stessa opera. Dunque, l’operazione filologica tende a collocare l’opera fuori dal tempo mentre l’intento archeologico è quello di ricostruire la rappresentazione di un percorso temporale che può spiazzare e farci ripensare le categorie stesse della storia.

Christoph Willibald Gluck (1714-1787).

Con l’Orfeo, come lei giustamente ha sottolineato, ci troviamo di fronte a un caso limite – peraltro non raro nei compositori di ogni tempo – ossia la revisione continua, perfino ossessiva di una stessa opera che, a seconda della collocazione geografica, trova sempre una nuova veste, vuoi per la mutazione del testo e della lingua, vuoi per la modificazione della strumentazione che dalla prima viennese del 1762 attraversa praticamente un secolo e mezzo di storia della musica europea, fino alla versione di Berlioz e ai pasticci editoriali di fine Ottocento. Non abbiamo quindi l’Orfeo ma gli Orfei, a rigore, e tutti con l’approvazione dello stesso Gluck.

Tra di loro le versioni si contaminano, ci sono prestiti trasversali anche di altre opere di Gluck e questo aspetto mi ha acceso la prima idea di una possibile farcitura che rendesse meglio l’attualità musicale di quest’opera. Del resto, i motivi di attrazione non risiedono solo nei contenuti ma anche nella forma di un flusso continuo che abolisce la divisione dei numeri e così tanto affascina un drammaturgo rivoluzionario come Richard Wagner. Wagner studia Gluck e offre una nuova orchestrazione (di fatto una nuova versione) dell’Ifigenia in Aulide (Dresda, 1847). Qualche anno dopo, nel 1854, Liszt dirige l’Orfeo a Weimar componendo una nuova ouverture che diventerà poi il suo quarto poema sinfonico: Orpheus. Appena ho letto questa notizia non ho avuto la minima esitazione a togliere l’imbarazzante ouverture originale innestando appunto quella lisztiana, senza dubbio coerente e ben collegata anche da un punto di vista armonico con l’attacco iniziale del coro funebre (do maggiore/do minore). Non è un caso che Liszt avesse composto anche un epilogo, andato poi perduto: è evidente che, da compositore e interprete, sentisse tutto il disagio di queste due cornici staccate dal resto dell’opera sia nel carattere che nelle intenzioni musicali.

La locandina relativa all’Orfeo ed Euridice che andrà in scena il 12 luglio a Padova.

Poi mi sono spinto più in là, pensando che la lettura meta-testuale non sia soltanto una prerogativa della regia ma, soprattutto in un teatro per musica, investa in modo totalizzante anche le scelte stilistiche e musicali. Cosi, scavando nel senso più intimo di questo lavoro, mi sono imbattuto nel dramma di un artista, Orfeo, cioè di tutti gli artisti, nel momento in cui entrano in crisi quando non possono più cambiare il mondo, né tantomeno salvarlo con la propria vocazione compositiva. Lo strumento con cui Orfeo accompagna il proprio canto per ammansire gli spiriti infernali, la lira, che nell’orchestrazione di Gluck è l’arpa (così come in quella di Liszt), non riesce più ad accordarsi in senso letterale e in senso traslato al mondo circostante. Di qui la scissione vissuta, per esempio, dalle arti del ‘900 e l’idea di un’interpolazione con la seconda Sequenza di Berio per arpa sola del 1963. All’inizio sembra il tentativo di intonare lo strumento ma alla fine del brano appare l’esatta antinomia: le corde dell’arpa sembrano saltare e spaccarsi in cluster e suoni strappati violentissimi. Ho inserito il primo momento all’inizio dell’opera facendolo confluire, dopo appena un minuto, nel brano di Liszt, dove pure l’arpa continua a galleggiare in modo molto fluido e trasfigurato con una seconda arpa. Il finale della Sequenza appare invece nel momento della (seconda) perdita mortale di Euridice. Poi ci sono altri sfondi cupi e tremolati delle percussioni che servono a creare una sorta di continuum sonoro tra le scene e che cambiano di colore a seconda ci si trovi all’inferno o nei campi elisi. Infine, un innesto dal balletto Don Juan dello stesso Gluck (1761), nel momento in cui gli spiriti infernali finalmente si dissolvono vinti dal canto di Orfeo.

Il Castello Carrarese di Padova dove andrà di scena il capolavoro gluckiano.

 

Di fronte a questa sua volontà d’intervento all’interno dell’opera, scomponendola e ricomponendola come una sorta di cubo di Rubik, come hanno reagito gli altri interpreti, a cominciare da Laura Polverelli, che veste i panni di un ruolo totalizzante come Orfeo? È stato necessario spiegare oltremodo le sue intenzioni o la “manipolazione musicale” dell’opera ha saputo fin da subito entrare in sintonia e in sinergia con l’entità manipolativa dell’essere interprete, non solo da parte dello stesso mezzosoprano, ma anche delle altre artiste che cantano nell’opera gluckiana?

Il lavoro con il cast è assolutamente tradizionale, se vogliamo, e si concentra molto sul valore rappresentativo del testo dei recitativi, nella valorizzazione delle sospensioni, nella drammatizzazione dei contrasti. Da questo punto di vista non ho avuto alcun problema a essere compreso in quanto il mio tipo di ricerca si muove su un piano esclusivamente musicale e non puramente astratto. La signora Polverelli ha capito benissimo questo intento di ricerca ed è stata subito una perfetta complice, così come il resto del cast. La presenza ininterrotta dei recitativi, che si alternano a momenti più lirici, comporta uno scavo sul senso e sul ritmo del testo che avvicina molto l’opera al teatro musicale in senso stretto. Da questo punto di vista Gluck per me è sullo stesso piano di Debussy o Janáček, cioè di compositori che trasferiscono nell’orchestra la carica lirica e concentrano nel canto la forza drammaturgica delle parole. Il canto in questo caso è un corpo assente ma non meno significativo.

La forza della musica di Gluck sta proprio nello spogliarsi del superfluo e nel cercare una stretta continuità tra musica e parola: dunque va al cuore del problema che investe la storia della musica da Monteverdi in poi, puntando a una sorta di recitazione intonata. Questi aspetti riguardano anche la presenza corale del secondo atto: la forza musicale appare estremamente concentrata in uno stile davvero prosciugato, cui corrisponde una capacità espressiva sconvolgente che deve aver molto impressionato e influenzato Mozart, ma che arriva anche a toccare punte di Sturm und Drang beethoveniano.

Il mezzosoprano Laura Polverelli, nel ruolo di Orfeo.

 

Maestro Polverelli, veniamo a lei. Al di là delle difficoltà tecniche che impegnano continuamente la voce, il personaggio di Orfeo è un divenire per ciò che riguarda i risvolti psicologici, il suo reagire di fronte alla morte dall’amata, ora con speranza, ora con disperazione, il che rende estremamente difficile il poter rappresentare la sua sfera divina e, allo stesso tempo, quella umana. Come ci si prepara, non solo vocalmente, ma anche a livello di interpretazione fisica ed emotiva in questo ruolo?

Vocalmente il ruolo di Orfeo per me, che sono un mezzosoprano, è molto impegnativo perché, in questa versione di Vienna, è stato scritto da Gluck per il castrato Gaetano Guadagni. È una tessitura molto grave che non si può però toccare né variare, come magari avrei potuto fare in un’opera barocca, proprio per la nuova visione che Gluck ha dell’opera in cui non sono ammessi virtuosismi, cadenze o libertà del cantante. Tutte le sfaccettature del personaggio sono scritte da Gluck, ogni pausa ha un significato, ha veramente indicato tutto all’esecutore, quindi penso che come prima cosa ci debba essere un rigore totale nello studio dello spartito. Dopo aver cantato tanti ruoli mozartiani, rossiniani e belcantistici, tornare a Gluck è come fare una pulizia della voce, un togliere manierismi e purificare per ritornare alle origini. Ma non dobbiamo dimenticare che Orfeo canta sempre, è in scena per cento minuti consecutivi, è una bella prova di resistenza, soprattutto di concentrazione e di memoria!

Il soprano Michela Antenucci, che avrà il ruolo di Euridice.

L’Illuminismo entra nella musica, il grande dolore di Orfeo non è espresso mai con effetti o virtuosismi vocali, ma è un dolore interiorizzato, intimo; c’è come una rarefazione ed è proprio la semplicità estrema dell’aria Che farò senza Euridice che ha un effetto commovente per il pubblico. Forse per me la scena più difficile è quella in cui Orfeo deve parlare d’amore con Euridice, dopo averla perduta e ritrovata, senza poterla guardare, toccare abbracciare; io che sono molto “fisica”, ho una grande difficoltà a non poter esprimere fisicamente i miei sentimenti e il lungo recitativo in cui viene espressa l’incomprensione tra i due amanti è perciò molto difficile da interpretare.

 

Se è vero che ogni personaggio lascia qualcosa di sé in chi lo ha interpretato, dopo averlo impersonato come artista, che cosa è rimasto di Orfeo in lei? Che cosa salva di lui e che cosa, invece, rifiuta? Inoltre, rispetto alla nostra realtà di oggi, che cosa ci può insegnare Orfeo? La nostra società è destinata a incepparsi irrimediabilmente come la sua cetra?

Protagonista assoluta è la Mancanza, l’attesa, l’angoscia che soffoca ogni filo di speranza; Orfeo per me non è un eroe mitico, ma il simbolo del più elevato studio che io, come essere umano, potrei fare di me stessa. Orfeo subisce una perdita, vuole uccidersi, è un maniaco depressivo che ritrova la forza vitale nella ricerca dell’oggetto amato. Un amore che sovverte le leggi della natura, commuove gli Dei, vince anche la Morte grazie al potere salvifico della Musica e del Canto.

Il soprano Veronica Granatiero nel ruolo di Amore.

Per questo, non si può uscire dall’aver interpretato questo ruolo senza aver capito che il Dolore (la sofferenza per la perdita di qualcuno) fa parte dell’esistenza. Talora il dolore può essere utile, per crescere, per capire, per migliorarsi, per saper godere dei momenti di felicità. Orfeo non si rassegna e non riesce a trovare risposte mistiche o religiose alla perdita della sua amata… combatte, scende negli inferi per ritrovarla e ci riesce grazie al suo canto e alla potenza della sua espressività vocale.

Se si dovesse trasporre questa vicenda nella società di oggi, l’Inferno potrebbe essere il Caos delle grandi città, l’inquinamento, il mondo che stiamo distruggendo… Orfeo rifugge il mondo, ha paura, ma per amore ci entra dentro credendo in un sogno. Inoltre, Amore è Orfeo stesso, nel momento dell’adolescenza, della gioventù, quando i sentimenti ci fanno fare azioni grandi e rischiose, quando sappiamo ancora sognare e amare. Ma, tornando alla sua domanda, spero che la società di oggi, soprattutto quella italiana, possa dare più spazio alla forza vitale dei giovani, possa avere il coraggio ancora di grandi azioni affidate alla genialità dei nostri ragazzi, senza incepparsi irrimediabilmente!

Andrea Bedetti