Non è certo un mistero il fatto che Mozart, usando un’immagine “forte”, sia stato manicheo nel rapporto che ebbe con gli strumenti musicali. A folli amori provati nei confronti delle tastiere e degli archi, corrisposero odi profondi, soprattutto verso la tromba, che gli provocò fin da bambino, soltanto udendone il suono, convulsioni e crisi di panico (si legga, a tale proposito, la gustosa pagina che Stendhal scrisse nella sua Vita di Mozart), guardandola, nel corso della vita, sempre con sospetto e avversione, come fa il demonio di fronte a una pozza d’acqua credendo che sia benedetta. E lo stesso si può affermare per ciò che riguarda i fiati, dove il rapporto fu alquanto ambivalente, nel senso che se Amadé si trovò in perfetta sintonia con il clarinetto, lo stesso non si può dire per il flauto, anche se la sua avversione, espressa più a parole che con i fatti, non raggiunse di certo quella provata per l’odiatissima tromba.

Fatti che sono dimostrati dalla produzione dei suoi quattro Quartetti per flauto, che Mozart compose poco più che ventenne nel corso del viaggio che effettuò in Germania (a Mannheim) e in Francia (a Parigi), frutto di una commissione voluta da un ricco flautista dilettante, Ferdinand Nikolaus Dejean, originario di Bonn, che chiese al sommo salisburghese, in cambio di duecento fiorini, «tre piccoli concertini, semplici e brevi, e qualche quartetto per flauto», come scrisse testualmente al padre in una missiva datata 10 dicembre 1777. Una commissione che, però, si trasformò in una solenne incazzatura provata da entrambe le parti, tenuto conto che se Mozart non portò a termine tutte le opere commissionategli, ma solo due concerti e tre quartetti, il flautista dilettante, da parte sua, strinse il cordone della borsa, tirando fuori solo novantasei fiorini.

La cover del CD Da Vinci Classics con i cinque Quartetti per flauto e trio d'archi di Hoffmeister da pagine originali mozartiane. 

Il rapporto musica e vil pecunia, di cui quello descritto sopra è solo un astro in un fitto firmamento notturno, può vantare esempi negativi, per l’appunto, ma anche proficui, non solo per soddisfare lo stomaco dei tanti compositori coinvolti, ma anche per la stessa arte musicale, soprattutto quando l’aspetto commerciale è legato a operazioni editoriali volte a solleticare il palato più o meno fine di quei musicisti dilettanti che intesero affrontare pagine celeberrime o piacevoli, “ricondizionate”, per usare un termine elegante tanto di moda oggidì, a livello di trascrizione e semplificazione a vantaggio dei loro strumenti. Quindi, per restare nell’ambito del flauto e di Mozart, trovo alquanto interessante la registrazione di un disco, pubblicato dalla Da Vinci Classics, che propone cinque famose pagine cameristiche mozartiane trascritte dal compositore e editore Franz Anton Hoffmeister per flauto e trio di archi. A registrarle sono stati il flautista Andrea Mogavero e il Trio Quodlibet, formato da Vittorio Sebeglia al violino, Virginia Luca alla viola e Fabio Fausone al violoncello, mentre le cinque opere in questione sono il Quartetto n. 1 in fa maggiore, trascrizione del quartetto per oboe, violino, viola e violoncello K.370, il Quartetto n. 2 in do maggiore (dalla Sonata per tastiera n. 7 in do maggiore K.309), il Quartetto n. 3 in sol maggiore (dalla Sonata per tastiera in fa maggiore K.533/494), il Quartetto n. 4 in re maggiore (dalla Sonata per tastiera in re maggiore K.311) e il Quartetto n. 5 in la maggiore (dalla celebre Sonata n. 11 in la maggiore, “Alla Turca”, K.331).

Prima di affrontare il programma musicale in sé, è il caso di scrivere due paroline sulla figura di Hoffmeister. Se oggi questo artista e imprenditore tedesco è conosciuto quasi esclusivamente per la sua attività di editore musicale a Vienna, dando alle stampe opere di Haydn, Mozart e Beethoven, in realtà negli ultimissimi decenni del Settecento la sua fama fu legata al fatto di essere considerato uno dei migliori compositori in circolazione. Il suo catalogo comprende la maggior parte dei generi, tra cui dieci opere teatrali, non meno di quarantaquattro sinfonie e diversi concerti per flauto, alcuni per clarinetto ed uno per viola, assai celebre all’epoca. Per ciò che riguarda la musica cameristica, oltre a diverse pagine dedicate al flauto (strumento che conosceva assai bene), al quartetto e al quintetto per archi, e a sonate per pianoforte, Hoffmeister sperimentò, per così dire, insolite combinazioni di generi e abbinamenti da camera, come i quartetti di contrabbasso o un Notturno per oboe, due viole, fagotto o violino. Il suo stile compositivo non può ovviamente essere paragonato a quello della empirea triade del Classicismo viennese, ma si fissa in una dimensione piacevole e leggera. Insomma, un autore per tutte le stagioni, sempre che non si richieda alle sue creazioni sonore impegno e profondità (un buon esercizio sarebbe l’ascolto di alcune sue sinfonie, registrate dalla CPO e dalla Chandos, per farne un debito raffronto con quelle haydniane e mozartiane).

Franz Anton Hoffmeister in un ritratto del 1784.

Tornando al rapporto musica (stampata & pubblicata) e denaro, è ovvio che dietro alla trascrizione di questi cinque Quartetti effettuata dal nostro Hoffmeister ci sia stata una precisa operazione di marketing, facendo sì che le pagine originarie di Mozart, nome celebre e à la page nella Vienna degli ultimi decenni del Settecento, ad onta delle annose difficoltà economiche del compositore (e qui apro una glossa per chiarire un punto: se è vero che la maggior parte degli anni trascorsi nella capitale asburgica furono vissuti all’insegna dell’indigenza, è anche vero che il primo ad esserne responsabile fu lo stesso salisburghese, noto scialacquatore di liquido, e non solo alcolico, oltre ad essere affetto dal vizio delle scommesse e del gioco d’azzardo, a cominciare da quello applicato alle partite di biliardo, delle quali era a dir poco dipendente), fosse abbinato a sue composizioni adattate alla bisogna per essere eseguite in modalità Hausmusik. Un’operazione commerciale, dunque, certo, ma non immune da una sagacia trascrittiva, tenuto conto, come si vedrà, che Hoffmeister il flauto lo masticava assai bene.

Il Quartetto n. 1, trascrizione del Quartetto per oboe e trio di archi, risale agli inizi del 1781, quando Mozart era assorbito a Monaco di Baviera nella stesura della partitura dell’opera seria Idomeneo. Nella città bavarese il salisburghese ebbe modo di vedersi con Friedrich Ramm, celebre strumentista e primo oboista dell’orchestra locale, il quale aveva già fatto parte della leggendaria compagine orchestrale di Mannheim, quando Mozart lo aveva conosciuto proprio nel corso del viaggio fatto in Germania cinque anni prima. Amadé decise, quindi, di scrivere un quartetto a beneficio delle straordinarie capacità tecniche di Ramm, sfruttando l’oboe al posto del primo violino e permettendo allo strumento a fiato di avere un trattamento simile a un concerto in cui poter cantare brillantemente e indipendentemente sullo sfondo dei tre strumenti ad arco, come dimostra assai bene il primo tempo (Allegro), che presenta un tema frizzante esposto in massima parte dall’oboe e ripreso saltuariamente dal trio d’archi. Il breve e, per certi versi, straziante Adagio che segue, può essere ascoltato come una vera e propria aria per oboe, mentre il Rondò finale ripropone lo stato d’animo spensierato dell’Allegro iniziale, mettendo ancora una volta in mostra la brillantezza e la predominanza dell’oboe nei confronti degli archi. In omaggio al virtuosismo di Ramm (e anche con la sottile perfidia compositiva che lo contraddistingueva), a metà di questo tempo finale Mozart gli lanciò una sorta di “sfida musicale”, scrivendo un fa naturale acuto da suonare, ossia la nota al vertice del registro del suo strumento, per poi fargliela ripetere come finale dell’opera.

L'oboista tedesco Friedrich Ramm, già membro della leggendaria Orchestra di Mannheim.

Se Hoffmeister ebbe gioco relativamente semplice con il Quartetto K.370, le cose cambiarono invece con la trascrizione delle quattro Sonate per tastiera, in quanto il lavoro trascrittivo da uno strumento singolo a quattro strumenti, uno a fiato e tre ad archi, risulta essere più complesso e ovviamente articolato. E questo già a cominciare dalla Sonata K.309, che Mozart compose proprio in quel di Mannheim nel 1777, per poi rivederla nel 1782, a favore della figlia del Kapellmeister Christian Cannabich, Rose che, nonostante avesse all’epoca soltanto quindici anni, doveva vantare già una tecnica non indifferente, se si tiene conto che la K.309 a livello interpretativo non è certo un’amena e rilassante passeggiata tra i tasti, ma richiede incisività di suono, indipendenza tra le due mani e una totale padronanza della scansione ritmica, oltre che una chiara comprensione stilistica e psicologica del Rondò finale, farcito com’è di umorismo e ironia, doti queste che in campo musicale/esecutivo raramente fanno parte del bagaglio di un adolescente. Ad ogni modo, la trascrizione di Hoffmeister ha il merito di rispettare pienamente la brillantezza (primo e terzo tempo) e il rarefatto incanto (tempo centrale) della composizione, in quanto il musicista ed editore tedesco sapeva perfettamente che nella sfera cameristica si scrive Mozart, ma si legge “equilibrio”, permettendo così di dare vita a una linea più che convincente a favore dello strumento a fiato, così come di bilanciare efficacemente il compito di accompagnamento/dialogo/sostegno fornito dai tre strumenti ad arco.

Quella che Hoffmeister confezionò nella trascrizione destinata al Quartetto n. 4, ossia la Sonata K.311, si basa su una sorta di “copia & incolla” della Sonata K.309, solo che qui le difficoltà immesse e concentrate da Mozart richiesero un tipo di interprete che dovette andare ben oltre la tecnica e la buona volontà della quindicenne Rose, al punto che (è convinzione di Piero Rattalino) si crede che il sommo salisburghese la concepì pensando più a se stesso in veste di suo esecutore (il culmine di tali asperità lo si raggiunge ancora nel Rondò finale, destinato a suscitare ammirazione ed entusiasmo in sede concertistica). Di pari passo, la versione trascritta da Hoffmeister avrebbe messo a dura prova un flautista che non fosse stato un professionista dotato di attributi sufficientemente attrezzati per affrontare e superare la sua parte, in quanto i virtuosismi richiesti, soprattutto nel tempo finale, non scherzano, così come i compiti da assolvere da parte del trio d’archi il cui livello esecutivo (vedasi i tempi veloci) è alquanto impegnativo nel pieno rispetto della scansione ritmica.

Naturalmente, nei piani di Hoffmeister in chiave trascrittiva, ossia di rendere più appetibile l’acquisto della pubblicazione, non poteva mancare la Sonata K.331, considerata la più famosa per via del famoso e stucchevole (non per colpa sua, ma perché lo hanno fatto diventare poi, presentandolo e usandolo in tutte le salse possibili e immaginabili) finale Allegretto alla Turca, epicentro e ombelico di quel fenomeno dell’epoca dato dalle cosiddette Turqueries. Questo perché ricordare tale capolavoro sonatistico solo per via del suo finale equivale a un crimine contro la genialità, rappresentata invece dal meraviglioso primo tempo, a dir poco atipico, formato da un tema e sei variazioni, che dalla terza in poi sono a dir poco territorio di stampo sperimentale nel quale si cimentò il sommo salisburghese. E Hoffmeister, il quale, come abbiamo visto, in fatto di arte trascrittiva ci sapeva indubbiamente fare, di fronte a una Sonata del genere ci andò a nozze e non solo per ciò che riguarda il famigerato alla Turca, quanto proprio nell’aver saputo cesellare un sapiente gioco ad incastro tra flauto e archi nel primo tempo, permettendo lo sviluppo di un dialogo tra i quattro strumenti capace di mettere in luce le dinamiche orchestrali che evidentemente Mozart aveva in mente quando lo scrisse (e, a proposito della Turca finale, l’intelligenza di Hoffmeister è stata non tanto di ampliare a livello meramente timbrico il tema della marcia in sé, quanto di aver saputo articolarlo, scorporarlo e assemblarlo nello sviluppo strumentale con una sagacia che assomiglia, e qui il tocco di ironia e di umorismo lo si percepisce fin dal primo ascolto, a una processione carnevalesca).

Da ultimo, un altro capolavoro assoluto, la Sonata K.533/494, che ogni volta che l’ascolto il mio pensiero va sempre al Grand National di Antree, ossia la corsa ippica ad ostacoli più impervia e massacrante al mondo con i suoi quasi settemila metri di lunghezza e trenta ostacoli, di tutti i tipi, da superare. Ostacoli che abbondano anche in questa Sonata, assemblata da materiale vario e incollato alla bisogna da parte di Mozart, tramutandola in una pagina terribilmente composita nella sua concezione e nel polimorfismo interpretativo che ne comporta, a cominciare dall’Allegro iniziale e dall’Andante che segue, il cui impianto vede una fusione, a dir poco audace, tra l’elemento polifonico e la costruzione armonica, mentre per ciò che riguarda il Rondò finale, basterà ricordare la leggenda che lo ammanta, ossia che fino a quando non fu ritrovato l’autografo originale riguardante la Cadenza aggiunta solo in seguito da Mozart, si credette che fosse stata elaborata in un secondo momento da Beethoven… A mio avviso, è proprio con questa Sonata che il lavoro trascrittivo fatto da Hoffmeister raggiunge il vertice, districandosi e facendo un’opera “diplomatica” non indifferente (a cominciare da come ha dovuto affrontare e dirimere il registro acuto degli strumenti nel già citato Andante).

Da sinistra, il flautista Andrea Mogavero, la violista Virginia Luca, il violoncellista Fabio Fausone e il violinista Vittorio Sebeglia.

Mentre ascoltavo la lettura fatta da Andrea Mogavero e dal Trio Quodlibet, mi sono chiesto che faccia avrebbe fatto Franz Anton Hoffmeister se avesse avuto modo di assistere alla loro esecuzione. Tenuto conto del risultato da loro ottenuto, avrebbe avuto la conferma della piena validità del suo lavoro trascrittivo, poiché sia il flauto, sia il trio d’archi hanno saputo rendere al meglio la ricchezza e la complessità della partitura trascritta. Da parte sua, Andrea Mogavero porta sulle spalle un bel pezzo di croce e lo fa con tutta la tecnica e il virtuosismo che possiede, non dando mai l’impressione di trovarsi in difficoltà con i tanti ostacoli che la trascrizione di Hoffmeister dissemina nei cinque Quartetti e pennellando un suono che è sempre prodigo di espressività, anche quando bisogna schiacciare il pedale della raffinatezza timbrica, unitamente a quello dell’ironia e dell’umorismo. Considero, poi, il Trio Quodlibet una delle realtà cameristiche più interessanti degli ultimi anni nel proscenio nazionale e questa loro esecuzione li mette sulla rampa di lancio per quello internazionale. Parlare di semplice accompagnamento fatto con stile, partecipazione e intelligenza significherebbe insultare indebitamente i tre artisti, poiché la loro interpretazione è una delizia in termini di dialogo e di completamento di ciò che viene fatto dal flauto. L’intonazione e la pulizia timbrica che hanno saputo esprimere è una marcia in più in chiave di maturità, il che va ad arricchire ulteriormente la preziosità del programma scelto a beneficio non solo degli aficionados in materia mozartiana prima e trascrittiva poi, ma anche di coloro che concepiscono tout court la nobile arte dei suoni come una dimensione che, attraverso l’ascolto, promuove adeguate riflessioni speculative. Come a dire, il fine ultimo della grande lezione dato dalla musica colta occidentale.

Un plauso, infine, al fido Gabriele Zanetti che ha indubbiamente vinto la sfida con questa sua presa del suono. Questo perché rendere al meglio, in sede cameristica, il suono di uno strumento a fiato come il flauto circondato minacciosamente da un trio d’archi non è uno scherzo, senza che tutti ci perdano o ci guadagnino troppo rispetto agli altri. Penso che la validità di questo risultato sia dipeso prima di tutto da un’accorta microfonatura, che ha permesso, in sede di palcoscenico sonoro, di ricostruire con correttezza lo spazio sonoro nel quale sono stati calati i quattro strumenti, con il flauto leggermente avanzato, ma senza penalizzare il timbro e la fisicità del trio d’archi. Merito anche di una dinamica effervescente in fatto di energia e di velocità, senza che la naturalezza potesse venire meno. Inoltre, l’equilibrio tonale, parametro alquanto critico, non presenta sbavature o mancanza di messa a fuoco, anche quando il registro degli strumenti va a innalzarsi nella gamma acuta e sovracuta. Infine, il dettaglio è squisitamente materico, il che permette di percepire la presenza fisica degli strumenti e in ciò il violoncello è una spanna sopra gli altri per la veridicità che riesce a infondere con la sua presenza.

Andrea Bedetti

Wolfgang Amadeus Mozart – 5 New Quartets for Flute and String Trio arranged by Franz Anton Hoffmeister

Andrea Mogavero (flauto) – Trio Quodlibet

CD Da Vinci Classics C00837

Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5

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