I richiami, le tentazioni, i sogni, i desideri, a tale proposito sono stati tanti, da Platone, che invocava i filosofi alle redini di un governo al posto dei politici, fino a Shelley, il quale affermava che i poeti sono i legislatori non riconosciuti del mondo. Insomma, il sogno dell’arte che vuole essere prima di tutto vita, incarnata nei ritmi della vita umana, alle prese con i problemi e con le avversità, con l’atto artistico, frutto di una dimensione straordinaria, che si confronta con l’atto quotidiano, frutto, a sua volta, di una sfera più prosaicamente ordinaria. Ciò comporta il doversi sporcare inevitabilmente le mani, venire a patti con il relativo quando si è soliti dialogare, invece, con l’assoluto, masticare il sapore del compromesso, che non sempre risulta essere gradevole.
Naturalmente, oltre ai filosofi e ai poeti, anche i musicisti, non tutti, possono essere vittime di questa tentazione, ossia quella di volersi sporcare le mani e scendere a patti con il compromesso, affrontando il processo cognitivo ed esistenziale della quotidianità, consci, nella realtà attuale, di essere uomini tra le rovine, cercando di rovistare tra macerie e resti, non solo con la loro arte compositiva o interpretativa, ma anche e soprattutto con il loro pensiero, aiutati dal logos e dalla loro sensibilità; un cocktail, questo, a dir poco esplosivo, scomodo, poiché non vi è nulla di più pericoloso di un artista che pensa, oltre a fare il proprio mestiere, nel senso più nobile del termine, il cosiddetto poiéin di greca memoria. Il saper pensare, il saper unire il logos al proprio poiéin permette, inoltre, l’essere realmente liberi (si è veramente liberi solo dentro se stessi, ammoniva Schiller) e ciò, ancor di più, rende l’artista pericoloso, un uomo à rebours, controcorrente, singolo nella moltitudine, anche culturale.
Artisti di siffatta specie trovano riparo, tra i diversi esempi che si possono fare, all’interno di quanto enunciato da Cocteau nel suo Rappel à l’ordre da una parte e da Benda nel suo La trahison des clercs dall’altra, dando così un fondamento, più o meno sistematico, al loro pensare, oltre che al loro agire artistico. E tra coloro che ho avuto modo di conoscere, tra quelli che non sono insensibili al richiamo e che hanno deciso di indossare i panni di un chierico ravveduto, che non ha tradito e ceduto, vi è il direttore d’orchestra Mattia Rondelli, che ha messo la sua sensibilità di interprete al servizio del pensiero, se per pensiero vogliamo considerare qualcosa che non si limita alla semplice riflessione, ma a qualcosa che propone. Un pensiero-azione, dunque, che il musicista romagnolo ha voluto mettere in pratica, organizzando la scorsa estate un particolarissimo format, un incontro-dibattito che ha avuto luogo a Cortina d’Ampezzo e dal titolo Musica &, con la collaborazione del vulcanico pianista Roberto Prosseda e di sua moglie Alessandra Ammara, invitando personaggi della cultura, della produzione, dell’imprenditoria, della diplomazia, dell’intervento umanitario, coinvolgendoli in un confronto che ha visto come denominatore comune la sfera della Musica (con la m maiuscola), rapportata e comparata con altri campi presi in oggetto. Così, accanto a Rondelli, nella “scomoda” parte del musicista à rebours, si sono confrontati il produttore vinicolo Gelasio Gaetani d’Aragona nel confronto Musica & Vino, l’imprenditrice e vicepresidente di Confindustria Katia Da Ros, nel particolarissimo confronto Musica & Surrealismo, la scrittrice di origini armene Antonia Arslan e la mecenate Sonia Guetta Finzi nel delicato confronto Musica & Memoriae gli ambasciatori Edoardo Pucci e Pier Francesco Zazo, unitamente con il funzionario ONU Andrea Angeli e il corrispondente diplomatico del Sole24ore Gerardo Pelosi, nel confronto Musica & Diplomazia.
Sulla base di questa esperienza fatta di confronto e di analisi, ne è sorta un’intervista che ho fatto con Mattia Rondelli, e le cui domande, inevitabilmente, sono confluite anche verso altri campi, verso altri orizzonti, compreso quello squisitamente musicale. Ecco che cosa ne è venuto fuori.
Maestro Rondelli, la scorsa estate, in quel di Cortina, ha dato vita a un particolarissimo format, quello che porta il titolo di Musica &, individuando delle attinenze, delle liaisons, dei punti di aggancio con i quali poter relazionare l’arte dei suoni con altre sfere appartenenti al mondo dell’arte e di campi della vita produttiva e sociale. Per la precisione, ha affrontato i contesti riguardanti Musica & Vino, Musica & Surrealismo, Musica & Memoria e Musica & Diplomazia. Da qui, una serie di domande per comprendere meglio tale progetto che la vede, da quanto posso arguire, come figura di intellettuale che si riconosce nel ruolo di uomo di cultura engagé. La prima domanda, che in realtà è una considerazione, è che lei valuta non solo la musica, ma l’arte in generale come un ente, nel senso filosofico del termine, capace di interrelazionarsi con la vita e non certo restare conchiusa, sterilmente (?), nell’ambito dell’arte per l’arte…
Non so come risulti agli occhi del pubblico il mio ruolo in Musica &, ma personalmente non mi ritengo né un intellettuale, né uomo di cultura engagé. Per mia formazione, ritengo immodesto definirmi addirittura musicista, se considero responsabilità che comporta significato tanta definizione; sicuramente sono una persona per cui la Musica è una parte imprescindibile del mio essere, e di certo sono molto curioso. Dal celeberrimo Gnoti seauton (conosci te stesso) del tempio di Delfi tramandatoci dai Classici Greci, si è avuta da sempre riprova che il valore dell’arte non può essere un “per sé” ma è quanto meno specchio (oggi dovremmo dire forse loud speaker) della propria anima. Per di più, quello musicale è di per se stesso un linguaggio, quindi, non può fare a meno di un soggetto che comunica e di uno che ascolta, in cui il linguaggio è il significante. Il significato? La Musica. Fare Musica, non è suonare tutte le note… pensiamo, ad esempio, a Cortot… quante note imprecise, ma QUANTA musica!!!
Affrontando qualsiasi partitura, sappiamo che il segno scritto è tanto essenziale che sia suonato quanto insufficiente al definire il fare musica, credo quindi che qualsiasi pensiero, conoscenza, curiosità, idea che possa essere attinente quel compositore, quel brano, quel periodo siano fonti essenziali in cui ricercare idee che ci aiutino a rendere giustizia a quella o all’altra partitura. Abbiamo il privilegio di eseguire, per lo più, capolavori che sopravvivono ormai da secoli, forse che non sia nostro dovere chiedersi perché o da dove trovino origine certi miracoli!? Qualsiasi grande compositore non è stato una meteora dell’Arte per l’Arte, è stato prima di tutto, e come tutti, un uomo figlio del proprio tempo: delle proprie vicissitudini, dello stile espressivo “alla moda”, del suo essere anticonformista talora, degli eventi politici che lo riguardavano etc etc.
Anche noi siamo figli di questo tempo, e la nostra pervicace dedizione rende attuale e contemporanea anche la musica scritta secoli fa, e tanto ne siamo convinti da ritenere la “Musica d’Arte” Cultura, così come anche la Costituzione la riporta ad essere bene di pubblica utilità. Ma l’essere figli di questo tempo (o tempora o mores), rende il senso del Pensiero e della Bellezza, intesa come dal pensiero estetico, dell’arte e delle materie umanistiche non più riconosciuti come Valori. Personalmente, ritengo che la tendenza mondiale a pensare che l’innovazione tecnologica non sia strumentale, ma sia l’oggetto del progresso degli ultimi decenni, è stato un fenomeno devastante, idem per il mondo della comunicazione…
Da qui l’idea di Musica &, ossia di un format in cui un eccellente pianista (oltre che carissimo amico e mio complice in tutti gli aspetti di questo progetto) come Roberto Prosseda è interprete di un programma musicale che si dipana però attorno al racconto di argomenti diversi.
Laddove il denominatore comune tra l’Arte e la vita di ogni giorno è l’individuo, ossia l’Uomo, qualsiasi collegamento è possibile: basta trovare il bandolo di una delle tante matasse possibili e accompagnarlo in una direzione… un po’ come interpretare una partitura.
Se il rapporto Musica & Vino, almeno nella sua dimensione estetica, è già stato affrontato da altri, penso agli studi del filosofo e musicista Massimo Donà, mi intriga la relazione tra Musica & Surrealismo. Perché proprio il Surrealismo? Non credo che tale scelta debba per forza riferirsi al solo movimento culturale dei primi decenni del Novecento, quanto al fatto che lei prende a prestito l’etimo originale, quello più generale di “surreale”, contrassegnato da un valore che non riguarda solo il passato, ma anche e soprattutto il presente. La musica come forma di un “surreale” capace di perpetuarsi e di mutarsi in continuazione, ossia la sua capacità di essere e restare viva. È così?
Mi sarebbe stato più comodo se fosse stato così, ma Musica & Surrealismo è stato frutto della mia ostinazione e determinazione nel voler creare a tutti gli effetti una liaison con una grande Galleria d’Arte come Farsetti. Come lei può ben immaginare, il dietro le quinte di certi eventi è tutt’altro che prevedibile, organizzabile e/o lineare, per cui coordinare i diversi impegni, le diverse programmazioni e i diversi imprevisti ci ha obbligati, di fatto, a declinare Musica & Surrealismo proprio in relazione a una mostra che la Galleria Farsetti aveva in corso in quei giorni con opere di estrema importanza. Ad aumentare il fattore di difficoltà era far rientrare nel nostro format, che in fondo è una sorta di story telling musicale, oltre alle altezze del Surrealismo, la presenza di un’imprenditrice, Katia Da Ros, vicepresidente di Confindustria e titolare di un’azienda veneta. Quindi, sono proprio voluto partire dall’origine del pensiero surrealista: per André Breton, il suo artefice, il Surrealismo è il cercare ogni forma di comunicazione che possa essere avulsa dalla pura razionalità ma che, allo stesso tempo, miri alla verità/essenza delle persone, spogliata da qualsiasi infrastruttura. Già questo è l’essenza dell’essere musicista!!
Il sogno è sì il punto di partenza di Breton, inteso come automatismo psichico: l’uomo, come l’alchimista, deve essere un sognatore definitivo. Se per Breton, l’incosciente è il sogno di Freud, in musica il sogno è da sempre l’origine di tante ispirazioni. Se il primo alchimista (nel vero senso della parola) e ricercatore della verità tramite un linguaggio antiaccademico fu Monteverdi nel 1600, il tema del sogno come prodromo di conoscenza in musica anticipa gli anni del Surrealismo; tra i tanti esempi possibili, grazie alla presenza di Anna Maria Chiuri, abbiamo scelto proprio il mito di Tristano e Träume di Wagner, ossia l’ultimo dei suoi cinque Wesendonck Lieder: esalta la poesia, l’amore e il sogno, ossia tutti temi cari al Surrealismo…. La Sublimazione del Sogno/irreale porta la Verità, dunque alla Realtà, e per Breton è un “Grado di Realtà Superiore” che ha per scopo la trasformazione dell’individuo interiore attraverso la presa di coscienza autonoma (Scelta) determinata da una necessità ineludibile.
Entrando nello specifico, abbiamo Breton, il mito di Rimbaud e del teatro dell’assurdo di Jarry, con la poesia che è la via surreale della conoscenza, attraverso la destrutturazione della forma e del razionalismo. In linea con quello straordinario anticonformista che è stato Jacques Vaché, con Apollinaire, con Paul Valery (senza dimenticare lo spiritualismo di Bergson), la figura del Poeta diventa un veggente che necessita del mondo del meraviglioso e di un linguaggio nuovo. Attraverso il flusso di questa corrente, Paul Bourget scrisse una poesia, Beau soir, messa in musica da Debussy. Altro compositore eletto, potremmo definirlo arditamente un “ex post surrealista”, è Erik Satie di cui sentiremo un inno all’amore e al desiderio, altro caposaldo surrealista aprés de Sade, intitolato Je te veux! Inoltre, abbiamo Jarry con il teatro dell’assurdo e delle identità contrastanti. Breton ne trae una definizione per cui il Surrealismo è un grado della realtà connesso a forme d’associazione finora trascurate (mi verrebbe da dire che il format Musica & è una forma surrealista ante litteram) si prenda come esempio quel brano pianistico a quattro mani di Satie, Tre pezzi a forma di pera, eseguito da Prosseda assieme a sua moglie Alessandra Ammara.
Invece con la danzatrice nuda ritratta nelle Gymnopédies dallo stesso Satie, di cui Roberto (Prosseda) ci ha fatto ascoltare la prima delle tre, ci si collega al concetto dell’amore inteso da De Sade, ossia desiderio libero dai tabù. Quindi, amore come forza infinita capace di opporsi all’oppressione conformista o, detto in altri termini, l’intensità di come si potrebbe vivere.
Sulla base di questo percorso, forse un po’ azzardato e anche concettualmente un po’ ostico, ma stimolante, le domande a un’imprenditrice potevano sembrare surreali, ciononostante hanno ricevuto risposte molto concrete. Tali domande sono state: Tra sogno e la scelta che trasforma l’individuo, riconosce il processo surreale ma di successo per cui un individuo da un’idea, crea un progetto, lo “collauda” e trasforma un’idea in un’impresa? E poi, si è detto che l’uomo sognatore è faber fortunae suae e il processo secondo l’ideale surrealista si esplica in un triangolo fatto da Libertà/Conoscenza/Amore: vale a dire, Libertà come scelta responsabile verso sé e l’altro, Conoscenza oggi diremmo emotiva, e fuoco alchemico di trasmutazione universale. Lo stesso Apollinaire ha dipanato un percorso dall’esaltazione della rivoluzione industriale, all’onirico fino quasi a preludere il futurismo. Nella rivoluzione industriale di oggi Libertà e Conoscenza sono ancora le risorse dell’uomo che sceglie la propria strada… è ancora un principio saldo dell’impresa di oggi? Infine, l’ultima domanda: Libertà/Conoscenza/Amore in cui l’Arte è il tramite della Conoscenza. Oggi, specialmente per noi italiani, l’Arte, musica inclusa, è ispirazione di nuovi sogni? Quindi innovazione? È un investimento emotivo oltre che economico? Bene, le risposte sono state quelle di un’imprenditrice colta e illuminata, che ha saputo coniugare l’idea di sogno come essenziale ma altrettanto fondamentale la concretezza di un metodo rigoroso; ha riaffermato che il concetto di libertà non può prescindere dalla conoscenza e il fare impresa oggi non ammette il non sapere, ma che allo stesso tempo l’essere imprenditori vuol dire saper avere una visione critica, anche emozionale, che occorre restituire anche a chi lavora in azienda, ragion per cui ha avviato commissioni di installazioni e opere d’arte con cui arricchire tutte le aree di lavoro della propria azienda.
C’è poi il côté dato dalla sfera della memoria e, soprattutto, tenendo conto del momento storico attuale che stiamo vivendo o, per meglio dire, subendo, da quella della diplomazia. Lei ritiene che la musica, nel suo approccio propedeutico e non solo artistico, possa avere un ruolo, se non decisivo, almeno utile per riappianare contrasti e divergenze politiche ed esistenziali? Insomma, lo schilleriano O Freunde, nicht diese Töne può avere ancora una speranza o quantomeno una sua duttilità ancora oggi, così come lo immaginò nel 1824 Beethoven nella sua Sinfonia Corale?
Io ne sono fermamente convinto! La forza comunicativa delle emozioni, spogliate anche del limite di una definizione linguistica oggettiva, permette un tipo di coesione e fratellanza verso l’Uomo che altro, difficilmente, raggiunge. La Musica non ha nulla di statico, è il riflesso del divenire delle persone che la eseguono e che la ascoltano. Ma, ahimè, il mio convincimento è ben poca cosa. Viceversa, questa rilevanza così grande della musica a livello diplomatico è stata confermata sia dall’ambasciatore Pucci, di stanza a El Salvador, sia dall’ambasciatore in Ucraina Zazo. Quest’ultimo è lui stesso pianista, ma soprattutto è nella drammatica posizione di dover gestire l’emergenza di una guerra davvero fratricida. Ha raccontato, durante il collegamento a Cortina, come da un lato ucraini e russi siano davvero popoli “geneticamente” fratelli, e dopo le cieche istanze aprioristiche verso l’una o l’altra cultura, proprio come la Musica possa essere un collante e un’arma diplomatica vincente per poter far dialogare chi oggi si gira le spalle, e tornare a costruire ponti, collaborazioni e crescita. E sia il popolo ucraino, sia quello russo sanno quale sia il proprio debito e, dunque, il proprio amore per l’arte e per la musica italiane.
Ancora di più, è stato significativo ascoltare Andrea Angeli: pacificatore, consulente politico in territori di guerra e funzionario ONU da decenni. Angeli ha vissuto sulla propria pelle le tragedie più note che hanno segnato gli ultimi trentacinque anni: dal Cile di Pinochet, a quattordici anni di conflitti e mediazioni in Serbia e in Bosnia Erzegovina, in Afghanistan, in Iraq e in Cambogia. Angeli ha parlato sempre e solo degli aspetti più riusciti delle tante missioni, eludendo, evitando e rimandando al mittente le domande più scabrose. Certo ha avuto paura, ha visto qualcuno giocare con la sua vita, certo gli è toccato vedere morti ammazzati ingiustamente e con violenza, certamente gli è toccato lo strazio di restituire salme alle loro famiglie; i suoi occhi non sanno negare o nascondere tutte queste fatiche, ma sa riordinare tutte queste paure e sofferenze sotto il senso di responsabilità̀ della sua missione. Angeli non è un musicista né hai mai pensato a strategie diplomatiche culturali, ma si è trovato in situazioni in cui ha dovuto, per qualche strano motivo e per ordini altrui, far spazio a eventi musicali in momenti e luoghi in cui tutto sembrava necessario tranne che l’Arte. Contrariamente a qualsiasi sua aspettativa, ha dovuto constatare che certi eventi musicali hanno raggiunto scopi e obiettivi diplomatici che nessuna trattativa prima aveva mai, o sarebbe riuscita poi a raggiungere. Così, Andrea Angeli definisce la diplomazia musicale una extrema ratio, in cui le emozioni che la musica suscita riescono a comunicare e a trovare condivisione anche tra chi, a priori, non si vuole ascoltare.
In effetti, la frenesia e il bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti quotidianamente ci impediscono troppo spesso di prestare tempo e attenzione alle emozioni e alla vera causa delle emozioni. Il farsi toccare nel profondo da una percezione di un suono, che di per se stesso non ha una definizione univoca, così da segnare un prima e un dopo, determina il valore più significativo del termine “emozione”. In altri termini, emozionarsi è il modo più istintivo, primordiale e ineludibile per metterci in relazione con noi stessi (senza maschere) e con il mondo di cui siamo parte. Si crea un’inevitabile consapevolezza che costringe a mettere in relazione se stessi con ciò che ci si pone davanti: senso critico, conoscenza e ascolto ne sono conseguenze necessarie e preziose. A proposito dello Schiller beethoveniano, ovviamente non ho mancato di tirarlo in ballo, ma nell’accezione in cui la parola Freude è stata sostituita da Freiheit (ossia libertà): benché il video stemperi qualsiasi calore, l’esecuzione che Bernstein fece della Sinfonia Corale a Berlino dopo la caduta del muro fa ancora venire i brividi.
Tornando al concetto della memoria, la musica oltre a non dimenticare, deve anche non perdonare? O il solo non dimenticare è sufficiente affinché la ruota del processo storico, per dirla con Giambattista Vico, non ripresenti gli stessi conti da saldare?
Credo che la circolarità della Storia altro non sia che lo specchio di alcune costanti, spesso miopi, dell’animo umano che si ripetono. L’invito che ho fatto ai nostri ospiti, testimoni indiretti di tragedie immani, è stato proprio quello di aiutarmi, e aiutare la Musica, a far sì che l’atto della Memoria vada oltre il ricordo: compito della Memoria, a mio parere, è certamente far conoscere che certi fatti efferati qualcuno li ha commessi, ma dev’essere soprattutto far riconoscere che la forza di un’identità diversa, magari dalla nostra, è una fonte di arricchimento, di conoscenza e di crescita. La Memoria deve insegnare ai nostri figli che l’“Altro-da-noi” è un’opportunità di miglioramento e di libertà, intesa come scelta e responsabilità della nostra esistenza. In tal senso, i racconti di Antonia Arslan e Sonia Guetta Finzi hanno certamente toccato le corde più intime di ciascun ascoltatore, ma l’intento perseguito è stato raggiunto: la musica e la poesia armeni hanno raccontato, più di ogni altra parola, l’essenza di un popolo millenario che pochi conoscono e che troppi, e per troppo tempo, hanno voluto nascondere. Ancora, l’orripilante definizione di “razza”, l’orrore del senso di esclusione e la tragedia della Shoah da un lato sono stati sconfitti ma non dimenticati dalla bellezza, dal genio e dai contenuti financo esistenziali della musica di compositori ebrei, dall’altro lato ci hanno condotto senza remore ad affermare un’idea di Memoria che direi inclusiva: ricordare serve per capire che solo la discriminazione nella Storia ha creato differenze identitarie, si pensi al caso Dreyfus e al Sionismo conseguente; le leggi razziali hanno escluso dalla vita normale persone italiane, che si sentivano italiane prima che ebree. Da ultimo, quand’anche si riconosca qualcosa o qualcuno “altro da noi”, questo deve essere solo motivo di condivisione e conoscenza che rende noi stessi più autentici, più veri e più liberi.
Lei ha avuto modo di lavorare anche con orchestre dell’Est europeo. Quali sono le differenze di approccio che ci possono essere nel collaborare con una compagine orchestrale occidentale e con una dell’Europa orientale? Al di là della differenza del suono ottenuto, del Klang, come si direbbe in tedesco, si devono adottare delle accortezze psicologiche diverse per ottenere un rapporto di lavoro ottimale?
Uno dei motivi per cui ho sempre amato la direzione d’orchestra è l’idea di condividere il fare musica con altre persone, e nel conoscere, attraverso loro, esperienze e culture diverse. Quello che ho imparato sul campo, è che questa idea quasi romantica, in realtà si trasforma spesso in una sfida endocrina tra l’al di qua e l’al di là del podio in cui il segreto è riuscire a trovare nel minor tempo possibile la chiave d’accesso a quel gruppo di persone. Una specie di hackeraggio musicale/psicologico. Naturalmente, Paese che vai leggi che trovi: è chiaro che stia al direttore (singolo versus compagini più o meno grandi) trovare la chiave di lettura e inserirsi in una cultura nuova. Naturalmente la conoscenza della partitura e la convinzione delle proprie idee sono sempre buone frecce nella propria faretra, ma talora il balance psicologico tra autorevolezza e autorità (apparente) va tarato in base alle aspettative. Se in America ho imparato sulla mia pelle l’arte del politically correct, benché continui a trovarla poco proficua (in fondo, anche Massimo d’Azeglio pur amando noi romagnoli, ci definiva sanguigni e intemperanti, se non erro), in Russia ho imparato subito che l’autorevolezza musicale doveva accompagnarsi a un atteggiamento sì collaborativo ma - diciamo - con un certo cipiglio. Troppi sarebbero gli episodi…
Restando nel contesto della musica classica nell’Europa dell’Est, lei conosce bene Valerij Gergiev. Non mi interessa sapere da lei quanto è successo a questo direttore russo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte del suo Paese, in quanto si entrerebbe nell’immane calderone della demagogia spicciola. Mi interessa, invece, conoscere da lei l’uomo Gergiev e se differisce dall’immagine dell’artista Gergiev che abbiamo.
Mi si consenta ancora una premessa: il concetto di Istituzione. Per noi è la definizione di organizzazioni pubbliche, spesso oggetto di critiche e ancora più spesso oggetto di reductio a burocrazia o, ancor peggio, a carrozzoni. La scuola di provenienza, un grande teatro, un grande museo o un’orchestra per un russo sono Istituzioni in cui riconoscersi, in cui si ritrova la propria identità e, spesso, la propria ragion d’essere. Mi capitò un 1° maggio, gelido!, di essere a San Pietroburgo e non riuscire ad entrare all’Hermitage per la coda sterminata fatta da coppiette e giovani famiglie in attesa di entrare. Ciò premesso, Valery Gergiev è il musicista geniale che molti conoscono, è persona di grande umanità e molto attento al rispetto tra persone. Al contempo, è a capo e risponde in prima persona di una grande (per tradizione, per i suoi cinque palcoscenici disseminati tra Pietroburgo, Vladikavkaz e Vladivostok, per i suoi ottomila dipendenti e per l’eccellenza di un’orchestra che vive in costante tour mondiale) Istituzione russa. L’essere e il dover essere, con l’intensificarsi dell’uno e dell’altro, devono coesistere in un equilibrio che non è certo invidiabile.
Da un direttore che appartiene al sole nascente, ossia Gergiev, ad uno che invece opera nella terra del sole morente, ossia Sir John Eliot Gardiner, con il quale collabora anche per ciò che riguarda la stesura di testi musicologici, come nel caso di quello riguardante la figura di Claudio Monteverdi. Quali sono le strategie antropologiche, le differenti dialettiche, le metodologie culturali che bisogna adottare per poter comunicare e collaborare con due personalità che appartengono ad altrettante terre che hanno un rapporto diametralmente opposto rispetto al sole?
Strategie, nessuna, antropologiche forse sono le conseguenze. Credo che per poter condividere tanto o poco spazio con personalità e intelligenze così importanti, il passo primo, fondamentale e costante, sia quello di ascoltare e percepire ogni vibrazione, con orecchie, occhi e intuito. Prima di tutto, è il modo migliore per imparare “rubando” un po’ della loro Arte, e poi è il modo per anticipare e prepararsi alle questioni che vengono poste. Chiaramente un’estrazione culturale comune o, quantomeno, vicina, aiuta a capire e a capirsi più in fretta. Ma in entrambi i casi ho trovato una connessione, prima di tutto umana, che comunica in linea diretta e con grande trasparenza.
Il suo catalogo discografico si concentra su due titoli, pubblicati entrambi dalla Sony Classical, dedicati al repertorio della musica sacra italiana del Settecento, ossia lo Stabat Mater di Luigi Boccherini e il Magnificat e il Gloria di Giuseppe Sarti. Al di là della rarità dei titoli di questi autori, che cosa l’affascina di questo repertorio in quel preciso momento temporale della storia della musica?
Quando ho iniziato il mio percorso con Sony, non avrei mai pensato che il declino della discografia sarebbe degenerato in così poco tempo. Purtroppo, se si è iniziato con pochi mezzi per le produzioni, si è finiti per chiudere definitivamente gli uffici produttivi, lasciando le sempre minori uscite o al migliore offerente o alle grandi istituzioni che possono permettersi di autoprodursi. Ma oggi chi consiglia a quei ragazzini, che siamo stati molti di noi qualche anno fa, quali o quante registrazioni ascoltare? Mi si perdoni la breve predica sulla discografia. Il mio amore per la Musica di fine Settecento è, oserei dire, primordiale: da spettatore, da studente, da interprete e, mettendo le mani su una tastiera, è il repertorio in cui da sempre mi sono sentito “a casa”. Credo che le ragioni principali siano due: una è la concentrazione di sentimenti e di colori nell’essenziale, la linearità ma allo stesso tempo la possibilità di intraprendere varie linee di lettura. E nella musica vocale, come quella delle registrazioni che cita, un rapporto dialettico e linguistico strenue e “contrappuntistico” tra note e parole. La seconda, il senso della sfida e della scoperta, di fraseggi, articolazioni, colori e agogiche che, senza “soluzioni di comodo”, aumentano vertiginosamente la capacità di questa musica di toccare corde emotive, le più profonde. Naturalmente, non possiamo ignorare le potenzialità che ci offrono i tanti studi sulla pratica esecutiva storica: non credo che debbano essere un diktat, né una via obbligata e senza ritorno, credo piuttosto siano l’opportunità per leggere meglio e in modo più acuto segni che a volte sarebbero potuti risultare poveri. Ignorantia non excusat.
Qual è, invece, il suo rapporto con la musica contemporanea, al di là del lavoro interpretativo che ha avuto con la produzione di Antonio Riccardo Luciani? Nella sua visione estetica vi è attenzione anche agli aspetti più esplorativi e sperimentali o si mantiene ai margini di ciò che è stato ormai accettato anche sul piano storico?
Come premessa amo sempre citare una vecchia intervista a Sir Simon Rattle a cui fu posta la stessa domanda all’indomani del suo incarico ai Berliner, «Quella contemporanea è la musica che amo di più, è quella che sto eseguendo in questo momento». Non senza brit humor, trovo ci sia un grande fondo di verità. Dopodiché, va detto che non sempre il repertorio è deciso in toto dal direttore, almeno nel mio caso. Quando ho potuto, ho spesso proposto composizioni recenti, ci sono riuscito con Luciani, ma anche con Nicola Campogrande, Stefano Dallera (musicista scaligero ed eccellente compositore, tra i pochi non “ammessi” alla stagione da camera della Scala, nemo propheta in patria) e Giovanni Sollima (più di venti anni fa)! Se all’estero spesso non conoscono neanche chi sia Petrassi, in Italia ho trovato molte difficoltà a proporre esecuzioni di una compositrice solitamente interpretata dai migliori musicisti del momento, come Lera Auerbach. Conosco abbastanza bene la storia e l’evoluzione delle avanguardie post-belliche fino all’oggi, in fondo un diploma in Composizione sperimentale a qualcosa sarà servito… Certo è che la mia generazione (non più di giovani) è già figlia di esperienze musicali che vanno ben oltre l’accademia italiana della contemporaneità. La contaminazione di più linguaggi, il ritorno a tensioni armoniche intuibili, che pur lontane dalla tonalità, riportino a un ascolto anche emotivo (si pensi già al Ligeti degli anni Ottanta), il ritorno all’idea poetica, estetica e linguistica della Musica, ormai sono dati di fatto spesso volutamente discriminati o ignorati in Italia. Si pensi che Thomas Adès viene eseguito ora per la prima volta alla Scala… e come lui ci sono tanti altri compositori e compositrici che sarebbe bello eseguire e conoscere. Ammetto di non aver mai trovato un approccio sincero con l’Arte fine a se stessa.
Un’ultima domanda, Maestro Rondelli. Abbiamo visto che lei è un artista che riesce a dialogare, nel senso che il logos è condiviso, tra personaggi che appartengono al mono occidentale e a quello orientale. In tutta sincerità, osservando quanto avviene oggi e presumendo da ciò che il punto interrogativo concernente il nostro futuro diventi sempre più grande e opprimente, lei è ottimista o pessimista?
Passate le normali intemperanze giovanili, è o dovrebbe essere conseguente all’esperienza di tutti intuire che qualsiasi sia il contesto, una prova d’orchestra, il rapporto insegnante allievo, una negoziazione al mercatino o alla Banca Centrale, l’affermazione delle proprie ragioni a discapito e puntando il dito verso l’altro non porta mai al risultato auspicato, nonostante ci possano essere motivi evidenti anche solo di una parte. Viceversa, se la proposta lascia intravvedere un esito condiviso e migliorativo, magari non sarà accettata in toto ma di certo produrrà risultati positivi. Ribadisco che è essenziale sapere ascoltare e osservare chi sia il nostro referente… è metà dell’opera, ma oggi pare la più difficile perché tutti urlano simultaneamente. Credo che in quest’ottica quella attuale sia un punto di svolta definitivo per l’Europa: se si ritrova anche a livello politico l’importanza e il valore di quell’identità e quella profondità culturale che ci ha almeno connotati negli ultimi venticinque secoli allora si troveranno le strategie relazionali per supplire la debolezza demografica e di risorse del continente più piccolo, se viceversa si seguiterà a perseguire ciascuno le proprie ragioni, rinfacciando ad altri colpe e responsabilità senza dare e offrire una proposta costruttiva, sarà difficile essere ottimisti. Se si ragiona in termini di valori umani, credo che le emozioni che ci vengono dallo sguardo di un bimbo, come da tanta bellezza che ci circonda siano denominatori comuni che non hanno limiti di nazionalità, di tempo e di interessi. Esiste qualcuno che in nome del proprio ego, vorrà ancora essere il più potente a costo di vedere uccisi i propri figli?
Andrea Bedetti