Il ritorno al pianoforte, al suo strumento prediletto, fu per il disilluso e maturo Brahms come per una persona ritornare a trovare l’amico più caro, dopo anni e anni di lontananza, quando ormai buona parte della sua vita era alle spalle e il carico dei ricordi era ormai superiore a quello dei desideri che attendono di essere ancora esauditi. Il pianoforte in Brahms torna così ad essere negli ultimi tre lustri della sua vita il solo, unico, vero confidente, una sorta di diario a ottantotto tasti, sul quale riportare quanto aveva nell’animo e nella mente. Ma il pianoforte, per il genio amburghese, diviene anche lo strumento con il quale tratteggiare e definire quanto sta mutando nel cuore pulsante dell’Occidente, con il quale descrivere quella traiettoria che ha già preso avvio e che porta a invertire la rotta storica del vecchio continente, dando inizio al suo tramonto, a quell’Untergang che il pensiero nietzschiano aveva ingenuamente salutato anche con soddisfazione, immaginando l’avvento di un novello Zarathustra, di un Übermensch che invece non vedrà mai la luce, sebbene determinati totalitarismi del ventesimo secolo lo abbiano creduto possibile (a livello storico ed occulto, si pensi al fenomeno del cosmismo sovietico e alle teorie hörbigeriane confluite poi nell’Ahnenerbe himmleriano).
Ma Brahms, assai più lucidamente, si rese conto musicalmente che un mondo stava per finire e che un altro avrebbe preso il suo posto, senza che lui potesse essere ancora presente, limitandosi ad addentrarsi nel regno di una decadenza alla quale sapeva di non appartenere. Lo fece, quindi, con il suo strumento prediletto, lasciando al loro destino le grandi forme, quelle con le quali aveva dato vita al suo contributo sinfonico e concertistico, abbandonando quasi il genere cameristico, e concentrandosi sulla solitudine promossa dal confronto diretto con la tastiera pianistica. Quindi, pianoforte e forma essenziale, ridotta ai minimi termini, almeno per gli abituali standard brahmsiani. Da qui, in questa condensazione formale, la nascita dei cosiddetti Klavierstücke e degli Intermezzi che, sempre rispetto alla precedente monumentalità, assumono quasi la dimensione simbolica di composizioni dal sapore haiku.
Proprio questa concentrazione, questo addensamento della forma, all’interno della quale travasare la densità totalizzante della sua sensibilità ultima in chiave musicale, rendono le composizioni pianistiche della maturità brahmsiana una parete di sesto grado per ciò che riguarda la loro interpretazione. A livello etimologico, se uso il lemma interpretazione al posto di quello di esecuzione, è per il semplice fatto che mai come in questo caso, riferendoci allo scorcio finale del pianismo brahmsiano, ossia facendo leva sulla potenza semiotica fornita dal prefisso inter di derivazione latina, il cui significato è tra, in mezzo a, il primo sostantivo è molto più aderente nella sua funzione esplicativa rispetto al secondo, poiché evocare il suono dal segno, andando a scandagliare ciò che si annida tra i segni stessi, ossia fare affiorare quanto il suono porta in e con sé, è il cuore stesso dell’interpretare. Così, se l’esecuzione è permessa a tutti, la vera interpretazione è riservata a pochi. E il numero di coloro che riescono a restituire il tra che si cela nelle partiture pianistiche dell’ultimo Brahms non possono che essere altrettanto pochi, poiché la dimensione metamusicale che impregna queste pagine abbisogna di un interprete il cui serbatoio di sensibilità evocativa faccia leva sulla dimensione storica ed esistenziale di cui si fece carico e fu testimone il sommo compositore quando creò quelle pagine.
Quindi, quando ho ricevuto la prima registrazione discografica di una giovane pianista lucana, Lucia Paradiso, pubblicato dall’etichetta Da Vinci Classics, che la vede affrontare i Klavierstücke op. 76 & op. 118 e gli Intermezzi op. 117 del genio amburghese, non ho potuto fare a meno di rammentare come il grande Wilhelm Backhaus ebbe modo di registrare a Londra nei primi anni Trenta, ossia sulla soglia dei cinquant’anni, alcuni brani di queste tre opere che in massima parte, tranne che per l’op. 76, rientrano nel contesto del vertice della maturità brahmsiana. Come a dire che i grandi di una volta erano consci del fatto che a una maturità stilistica, prima di affrontare determinate pagine pianistiche, sentivano il bisogno di raggiungere anche una determinata maturità esistenziale (in questi ultimi anni ho notato come diversi giovani e giovanissimi pianisti abbiano debuttato a livello discografico registrando le Goldberg Variationen senza battere ciglio… ). La cosa, però, invece di scoraggiarmi, mi ha ulteriormente incuriosito, anche per la presenza, in qualità di direttore artistico del progetto, di Alessandro Deljavan, che è stato il principale insegnante della giovane artista lucana e che rappresenta uno dei pianisti più interessanti della generazione nata negli ultimissimi decenni del secolo scorso.
L’opera meno matura, l’op 76, risale principalmente all’estate del 1878 (Brahms aveva compiuto da poco i quarantacinque anni), vale a dire quando il periodo delle vacanze poteva garantire all’autore quella tranquillità e il tempo necessari favorevoli alla composizione. Ho voluto specificare l’età del nostro autore per chiarire ulteriormente un concetto che può essere ribadito anche dall’apporto dello strumento fotografico: Brahms è un uomo che invecchia precocemente, nel corpo e nell’animo, che si lascia andare ben presto al ritmo dei ricordi, delle disillusioni e di un tramonto personale attraverso il quale saprà accogliere e raccontare mirabilmente quello storico della propria epoca. E qui, il suo strumento prediletto già comincia ad annotare e a sistematizzare la mole di rimembranze che il compositore fissa a livello formale attraverso un impianto arcaico con il quale vuole evidenziare gli strati nostalgici in cui si è ormai avviluppato. La forma breve non è tanto scelta in chiave post chopiniana, quanto per tornare ancor più indietro nel tempo, a Bach prima di tutto, nume tutelare di quella classicità destinata a diventare in Brahms chiave di volta per sorreggere tutte le arcate architettoniche del suo pianismo (e non solo… Che cosa ripeteva spesso Brahms? «Studiate Bach: lì troverete tutto quello che cercate»).
Dunque, prende ormai avvio quell’afflato di amarezza, di nostalgia, di ripiegamento esistenziale, evidenziato da una caducità fisica precoce, complice anche la passione per gli eccessi della buona tavola, del vino e della birra, nei quali l’amburghese trovava consolazione, piaceri condivisi con pochi e fidati amici. E qui, devono entrare in azione le doti necessarie dell’altrettanto fidato interprete… E il primo brano, il Capriccio in fa diesis minore, è già un ottimo banco di prova, in quanto l’artista deve dirimere il concetto di pp; come dev’essere affrontato, pensando al modo arcaico di sapore bachiano oppure quello più “aggiornato” chopiniano? Ebbene, Lucia Paradiso lo rende in modo traslucido, con un fraseggio disteso, che però non vuole dire tranquillo, calmo, ma facendo rilucere una sottilissima vena interiore, inquieta, dotata di un condom di distacco che porta al virare vigoroso con una ragionata progressione timbrica, per poi riproporre il dolente tema iniziale con un suono ancor più rappreso e contrito. La dimensione danzante del Capriccio in si minore che segue ha con l’artista lucana la vaporosità di uno zucchero filato in cui è stata aggiunta qualche goccia di bas armagnac per rendere il tutto sottilmente più euforico, giocando di fino, leccata dopo leccata, sulla dimensione agogica con la quale strutturare ritmicamente il brano, il quale è pienamente godibile e convincente. I quattro Intermezzi che fanno parte dell’op. 76, rispettivamente in la bemolle maggiore, in si bemolle maggiore, in la maggiore e in la minore, vantano sotto le sue dita quella caratteristica di punta nostalgica che si adagia su scenari dal sapore lievemente ipnotizzante, con una conclamata chiarezza dei piani volumetrici, sempre circoscritti e sfumati con delicatezza e accortezza, in modo da non sfalsare il continuo richiamo melodico che li impregna (a tale proposito, la resa del tema principale che permea e ispessisce quello in la maggiore è padroneggiato con un assoluto dominio della tastiera). I due restanti Capricci, basati sulla tonalità del do diesis minore il primo e del do maggiore il secondo, sono da affrontare con la spina dorsale bene eretta, rispettando il cocktail di venature tragico-eroiche e le nuances ripieganti nell’immanente (do diesis minore), con Lucia Paradiso che lo sorseggia con distaccata e sicura tranquillità, senza privilegiare le prime o le seconde, mentre in quello il do maggiore è rilevante la progressione del suo fraseggio, capace di comunicare perfettamente quei frissons che ancora albergano nel suo autore.
Trascorrono quattordici anni e con l’op. 117 & 118 entriamo nel regno della barba e dei capelli bianchi di Brahms; i frissons ormai albergano nel tempo delle rimembranze, e il genio di Amburgo scrive le sue pagine musicali per andare subito a rileggerle, sperando di trovare un ulteriore conforto, come a dire «io scrivo perché poi subito dopo devo ricordare attraverso i segni che ho tracciato». Benvenuti, quindi, nel luna park del Sehnsucht! Ecco lo spessore esistenziale con il quale Brahms prende per mano il temerario interprete che affronta i tre Intermezzi e i sei Klavierstücke, indicandogli il percorso che deve seguire, ma nel quale sono in molti a sperdersi senza speranza.
Piero Rattalino notò, argutamente, che nelle composizioni pianistiche brahmsiane, a partire fin dalla Sonata op. 5, vi è un sentore organistico. Questo si evidenzia soprattutto nelle ultimissime pagine dedicate al pianoforte, in quanto tale sentore tende a nobilitare l’irradiazione della nostalgia, a fornirle un’ulteriore connotazione “classica”. Ciò si evince nei due Intermezzi estremi dell’op. 117, mentre quello centrale, in si bemolle minore, vede primeggiare, mistericamente, un arpeggio che l’esecutore deve tramutare in qualcosa di ipnotico, sfuggente alle leggi temporali esteriori e interiori. Lucia Paradiso lo fa molto bene, con un’intensità timbrica che non incrina minimamente la portata cristallina del fraseggio. E poi quella nobiltà richiesta, che non dev’essere mai disgiunta a una carezza dolente, inutilmente consolante, come puntualmente avviene nell’ultimo, straziante Intermezzo in do diesis minore, simbolo supremo di un qualcosa che ormai scivola via dalle dita. Anche qui la pianista lucana ha le idee molto chiare e non ci pensa minimamente, a nostro beneficio, a calcare l’emissione nostalgica, poiché è sufficiente rispettare quanto avviene sul pentagramma, dando un respiro credibile a tutta l’arcata pur giocando sapientemente in chiave agogica, come a dire che le manifestazioni del lutto sono molteplici, ma vanno ricondotte tutte a un’impronta profondamente etica nella sua intrinseca bellezza.
Infine, i sei Klavierstücke op. 118, ennesimo richiamo a quel Welt von Gestern che Brahms volle considerare nell’ultimo decennio della sua vita come una sorta di feticcio al quale rivolgersi incessantemente. E in questa raccolta è sicuramente la Romanza in fa maggiore a incarnare tale richiamo. Fin dalla prima volta che l’ascoltai, ho sempre considerato questo brano come l’epitaffio che Brahms volle vergare sul suo diario, simbolica ultima pagina di un percorso in cui la stessa materia musicale, basata su uno schema bitematico a variazioni, trascende il suo utilizzo in senso pianistico per affondare le sue radici ancor più indietro nel tempo, al punto che il sentore organistico lascia spazio a quello clavicembalistico. Eppure, con un suono che diviene così simbolico, paradossalmente Brahms intinge lo stilo nell’inchiostro della modernità, anticipando di fatto le future conquiste debussyane. Anche qui, trovo che Lucia Paradiso sia stata esemplare, non solo nel rispettare l’allucinata pacatezza del brano, un mare immoto solo raramente increspato da un’improvvisa schiuma giunta dalle profondità (non vi è un solo f, ma solo p, pp e ppp), ma è in grado di restituire un’intensità di sguardo rivolto al passato che lascia interdetto perfino un possibile richiamo a quella modernità accennata sopra. La sua è una scelta di campo che approvo, in nome di un delicatissimo legato capace di affinare il senso prodigioso del fraseggio, che a tratti viene quasi singhiozzato. Roba da magone istantaneo.
Il resto della raccolta impone sempre, anche se non mancano slanci, impeti, pugni sollevati verso gli dèi, un viaggio à rebours, con Brahms che rischia una perenne afflizione votata al torcicollo, da quanto volge la testa verso il passato, galleggiando sulla linea piatta del rimpianto (Clara… Clara, dove sei?). Così, il piatto forte è dato dai quattro Intermezzi, il genere che l’ultimo Brahms trova più efficace, per fissare in una densità ungarettiana le sue ultime volontà creative, come avviene in quello che apre l’op. 118, in la minore, che supera di poco i due minuti. Sono momenti di erezione, di desiderio, di uno che si portava a casa due meretrici alla volta, e che adesso però lasciano spazio solo al ricordo-del-desiderio, un cane che abbaia senza mordere, orgasmi sognati ad occhi aperti, e di cui il pianoforte diviene entità sismografica (il momento di ripiegamento in cui si lascia andare nell’Intermezzo in la maggiore è il biglietto da visita di tale stato d’anima). Ma Lucia Paradiso evidentemente a livello medianico deve avere passato molto tempo con il sommo amburghese, che le deve aver spiegato per filo e per segno non come suonare, ma perché suonare in un determinato modo, un modo di totale affinità al senso di una vita che scivola via, che non torna più proprio quando si è pronti ad affrontare la vita stessa.
Perfino l’attacco della pseudotitanica Ballata in sol minore viene reso con quella sottilissima vena di “sul ponte sventola bandiera bianca”, poiché la nostra interprete sa perfettamente instillare nella sua visione interpretativa tutti quei connotati che appartengono all’impero metamusicale, calandosi in un ruolo di medium che la sua età e, forse, le sue esperienze con la trivialità quotidiana non dovrebbero ancora appartenerle. Sulla tastiera viene a crearsi così una patina di meravigliosa tristezza che si riflette sull’emissione timbrica, fornendo al brano stesso un’insperata unitarietà, facendo convivere il due nell’uno. E poi, il commiato finale, il finale di partita, dato dall’Intermezzo in mi bemolle maggiore, il brano più hegeliano per via delle sue finalità storicistiche, poiché il centrale richiamo beethoveniano ha un significato non di ricordo, ma addirittura di rinnegamento, con uno strato storico, quello del tempo di Brahms, che va a coprire quello del tempo del genio di Bonn, decretandone il suo fallimento. Ero curioso di ascoltare se Lucia Paradiso avesse affrontato quindi quest’ultimo brano in modalità “Muoia Sansone con tutti i filistei”, nel senso di essere oltremodo assertiva nei confronti delle storicità prese in considerazione. Mi sono dovuto ricredere: sotto le sue dita sorge progressivamente un mesto corteo funebre, un senso di annichilimento che a livello cinematografico si può cogliere nel Decalogo di Kieślowski, un annichilimento labirintico, senza via d’uscita. E questo grazie a un volume timbrico del suono che assume i contorni di una trionfale entropia alla quale sfugge una lacrima che va a solcare il viso del brano.
L’ho scritto più di una volta e continuerò a farlo anche in futuro: Johannes Brahms è il mio dio e adesso posso affermare che Lucia Paradiso appartiene di diritto alla schiera delle sue vestali.
A proposito di dèi, a occuparsi della presa del suono ci ha pensato uno di loro, sceso dall’Olimpo dell’audiofilia, ossia Michael Seberich. Ascoltare una sua cattura sonora diviene un’esperienza mistica e lo dimostra come ha saputo restituire il suono dello Steinway D274 “Henry” utilizzato dalla novella vestale brahmsiana. La dinamica sfoderata è di quelle che tendono a violentare i tweeter dei diffusori, visto che il registro acuto è di una lucentezza che taglia i padiglioni auricolari. Eppure, quanta delicatezza, che setosità nei pp e nei ppp, merito di una velocità che è prossima a quella della luce e a una naturalezza come possono esserlo solo i paesaggi leonardeschi. La ricostruzione spaziale dello strumento, nel parametro del palcoscenico sonoro, avviene con un senso a dir poco scultoreo al centro dei diffusori, senza contare l’ampiezza e l’altezza del suono che si irradia oltre di essi, ma senza mai andare a scapito di una messa a fuoco che fa correttamente i conti con la discreta profondità dalla quale proviene. Ovviamente, l’equilibrio tonale e il dettaglio non sono da meno: il primo è un prodigio di focalizzazione con una tempra da acciaierie Krupp, solido, senza un microbo di sbavatura, con un gioco di risalto tra il registro medio-grave e quello acuto da inchinarsi verso la Mecca, mentre il dettaglio vi spingerà a chiedervi se avete lo spazio necessario per ospitare nella vostra sala d’ascolto fisicamente il pianoforte, visto che il livello di matericità è in termini di assolutezza. Un’ultima annotazione: Edmondo Filippini, conscio del mio lato debole, mi ha messo a disposizione anche le tracce audio nel formato 96/24. Personalmente non credo nel paradiso, ma se esiste il suo impianto di filodiffusione deve diffondere musica della stessa qualità tecnica.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – Piano Works
Lucia Paradiso (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00779