Sulle pagine di questa rivista abbiamo già evidenziato come negli ultimissimi anni ci sia stata una vera e propria “Castelnuovo-Tedesco Renaissance”, la quale ha avuto indubbiamente il merito di cancellare un fraintendimento che ha afflitto a lungo il compositore fiorentino e la sua opera, quello di relegarlo quasi esclusivamente nell’alveo dei compositori che avevano scritto soprattutto per la chitarra. E in effetti, la maggior parte del catalogo discografico che risale a non più di vent’anni fa aveva messo in atto tale fraintendimento, accostando quasi esclusivamente il nome di Castelnuovo-Tedesco al repertorio chitarristico, il quale non è da sottovalutare, sia ben chiaro, ma che non dev’essere preso a modello assoluto per definire la caratura del compositore (il quale è scomparso, è bene ricordarlo, poco più di mezzo secolo fa, esattamente nel 1968) e la sua visione artistico-musicale.
E questa nuova registrazione, che presenta alcuni lavori che appartengono al repertorio cameristico per violino e pianoforte del musicista fiorentino, con Alberto Bologni e Carlo Palese per la casa discografica EMA Vinci, ha il merito non solo di andare a indagare tra le pieghe compositive in un genere ancora poco conosciuto dell’universo musicale di Castelnuovo-Tedesco, ma di evidenziare anche quella che è stata fondamentalmente la qualità caratteriale più positiva del compositore, vale a dire la sua indiscutibile umanità e la sua capacità di relazionarsi con gli altri artisti; un aspetto, questo, che se non lo trasforma automaticamente in una “mosca bianca”, poco ci manca tenuto conto che l’ambiente artistico, soprattutto quello musicale, a livello umano spesso e volentieri è peggio di un covo di vipere, in cui serpeggiano rivalità e maldicenze, tradimenti e ipocrisie, falsità e cattiverie.
Al contrario, l’umanità, la bontà d’animo che contraddistingue l’uomo Castelnuovo-Tedesco va di pari passo con la visione “umanistica” della sua musica, vista sempre come elemento apollineo, intriso di una classicità non solo formale, ma anche “morale”, rifugio sicuro nel quale il musicista e l’appassionato possono e devono fare affidamento non solo per goderne la bellezza estetica, ma per trovare conforto dalle pene, dalle sofferenze che la vita dispensa a piacimento. E tutto ciò da parte di un uomo, prima ancora che musicista, che fu costretto a pagare sulla propria pelle l’onta di un ostracismo volontario all’indomani della promulgazione delle leggi razziali emanate dal fascismo nel 1938, che costrinse lui e la sua famiglia a lasciare l’adorata Firenze e l’amata campagna toscana per trovare riparo, come émigré, in terra americana, dapprima a New York, e poi in California, all’ombra di Hollywood e delle major cinematografiche per le quali, come fecero altri valenti musicisti europei, lavorò, scrivendo colonne sonore e musical.
Eppure, di fronte a questo sradicamento esistenziale, il musicista fiorentino seppe sempre opporre una grandissima dignità umana e morale, che si riflette anche nella sua musica, una musica che può essere definita una sorta di “città aperta”, senza vincoli, senza barriere, senza sotterfugi stilistici od espressivi, ma che rimane quasi sempre solare, nonostante la presenza resa discreta del dolore, “ottimistica”, se dobbiamo intenderla come fonte di rinnovata speranza nell’uomo e nelle sue azioni, crocevia di stili, di comportamenti, di persone che lasciarono sulla sensibilità e nel cuore del compositore una traccia profonda come un solco nel quale trova ospitalità la semenza. E questo lo si può percepire anche dalle pagine che fanno parte di questa registrazione, le quali rappresentano una sorta di “officina musicale”, in cui la creatività di Castelnuovo-Tedesco è al servizio di altri musicisti, ai quali dedica o confeziona su misura le opere che poi andarono a interpretare.
È ovvio che, parlando di violino, non si può non evocare il rapporto non solo professionale, ma soprattutto umano e di amicizia, che ci fu tra il compositore e pianista fiorentino e quel colosso di artista che fu il lituano naturalizzato americano Jascha Heifetz, per il quale Castelnuovo-Tedesco, nel corso della sua nuova vita americana, scrisse alcuni pezzi, tra cui la Fantasia su La Figlia del Reggimento – op. 110 – Fantasy for violin and piano on Themes from Donizetti (1941) e la Serenatella on the name of Jascha Heifetz op. 170 n. 2 (1954), nei quali il troneggiante virtuosismo, ineludibile dalle magie di cui era capace il violinista di Vilnius, viene sapientemente edulcorato e stemperato dalle arcate del musicista fiorentino, nelle quali immette un eloquio capace di rendersi, allo stesso tempo, lirico, ironico, scanzonato, drammatico. E questo mette in luce un altro aspetto della “poetica musicale” di Castelnuovo-Tedesco, quello di saper usare i colori, le sfumature nei suoni, che ben si conciliano, per l’appunto, con uno strumento come il violino, il quale viene poi amalgamato alle esigenze dell’impianto pianistico, con quest’ultimo che non viene mai relegato alla mera funzione di accompagnamento, ma che assume spesso il ruolo di rappel à l’ordre per lo strumento ad arco, elemento di richiamo, dunque, di indicazione, di disvelamento timbrico attraverso i quali lo strumento ad arco può ripartire o ampliare quanto enunciato dal pianoforte.
Ma è altrettanto vero che oltre ad essere eminentemente “umano” nei rapporti altrui, Castelnuovo-Tedesco fu anche un raffinato “psicologista”, capace di tratteggiare, di effettuare precisi schizzi con i suoni attraverso i quali raffigurare gli amici e i colleghi più cari, usando la musica come ausilio e strumento con il quale descrivere i comportamenti, gli stati d’animo, i caratteri altrui (a tale proposito, tanto per fare un debito paragone, mi viene in mente il Bernstein pianistico con i suoi Anniversaries dedicati ad amici e musicisti) e che riversa nei suoi Greeting Cards op. 170, di cui il duo Bologni-Palese ne presenta, oltre alla Serenatella dedicata a Heifetz, altre quattro, tra cui spicca sicuramente, per intensità, impatto armonico e timbrico, scrittura ardita ed efficace, l’Hungarian Serenade on the name of Miklós Rózsa n. 25, risalente al 1960, dedicata al compositore magiaro, uno dei maggiori creatori di soundtracks di Hollywood.
Un tipo di scrittura, questo, che si evidenzia maggiormente (e, in un certo modo, paradossalmente a livello temporale) nella Sonata quasi una Fantasia, op. 56, e che non appartiene all’ultimo periodo di Castelnuovo-Tedesco, ma addirittura al periodo precedente al suo esilio statunitense, più esattamente al 1929, quando il compositore fiorentino aveva trentaquattro anni ed era ancora imbevuto, come altri musicisti italiani coevi (si pensi ad Alfredo Casella), delle ultime conquiste armoniche di stampo europeo, soprattutto della scuola francese. Non per nulla, ascoltando questa pagina suddivisa in tre tempi, saltano all’orecchio rimandi dell’ultimo Ravel cameristico, in cui il raffinato tratteggio stilistico impone brusche sterzate (soprattutto nel violino), che flettono il fraseggio in scarti timbrici squisitamente dissonantici, mai avulsi però dalla cifra stilistica, sempre ordinata organicamente secondo un modello che riporta a quell’afflato “classico” del quale il compositore toscano non può fare a meno.
Dalle note enunciate, e questo vale soprattutto per chi non conosce la musica di Castelnuovo-Tedesco, appare scontato come queste opere cameristiche siano alquanto ardue da riproporre non solo mettendo in campo la componente tecnica richiesta (il musicista fiorentino, sotto questo aspetto, è alquanto esigente), ma soprattutto quando si affronta l’espressività, il lirismo sotteso, quando non evidente, che le impregna e che dev’essere una summa di varie componenti che non sono mai disgiunte e rese individualmente, come se fossero altrettanti compartimenti stagni. La scrittura di Castelnuovo-Tedesco, difatti, è un perenne fluire in cui confluiscono vari strati, vari livelli di espressività che devono essere enunciati nel loro divenire immediato, sovrapponendosi, congiungendosi, amalgamandosi, senza soluzione di continuità (ed è qui che risiede la “modernità” del compositore, il quale non fu mai sedotto dalle rivoluzioni di linguaggio delle avanguardie del primo Novecento).
Ebbene, questa cifra espressiva viene resa più che adeguatamente da entrambi gli interpreti: se il violino di Alberto Bologni è pregno di quella dimensione in cui all’arduità della scrittura deve sempre corrispondere un fraseggio che rimandi all’idea di un’agognata “apollineità”, a un senso del “bello” capace di restare imperturbabile di fronte alle perigliosità che Castelnuovo-Tedesco impone, il pianoforte di Carlo Palese non viene mai meno alla funzione “accoppiante” (e non “accompagnante”) che il musicista fiorentino richiede e che attinge dal suo essere un grande pianista che dà sempre importanza al ruolo dello strumento prediletto. Quindi, se il violino “esprime”, il pianoforte “richiama”, se lo strumento ad arco “approfondisce”, quello a tastiera “amplia” in un susseguirsi di approcci, di appuntamenti timbrici, di sovrapposizioni stilistiche, in cui il gioco dei rimandi (il carattere psicologico della musica del compositore toscano!) non viene mai meno, dando luogo a un affiatamento interpretativo che è comunità di intenti e di visioni, come due vecchi amici che trovano sempre qualcosa su cui discutere e confrontarsi “umanamente”.
Buona, infine, la presa del suono catturata da Giuseppe Scali, con una riproduzione corretta dei due strumenti all’interno dello spazio sonoro; anche la dinamica vanta quell’energia e quella velocità atte a restituire compiutamente la timbrica, così come l’equilibrio tonale e il dettaglio, quest’ultimo indubbiamente materico.
Andrea Bedetti
Mario Castelnuovo-Tedesco – Works for Violin and Piano
Alberto Bologni (violino) – Carlo Palese (pianoforte)
CD EMA Vinci 40079
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5