Il CD registrato per la Sony Classics dal duo pianistico formato da Marco Sollini & Salvatore Barbatano, uno dei più affermati in questo particolare repertorio cameristico, dà modo di comprendere meglio, almeno per coloro che non conoscono in profondità l’excursus della sua produzione musicale, un ambito particolare dell’arte creativa di Ludwig van Beethoven. Questo perché Sollini & Barbatano hanno voluto registrare in questo disco, Works for Piano 4 Hands, la quasi totalità delle opere che il genio di Bonn volle consacrare al pianoforte a quattro mani, con le Acht Variationen über ein Thema des Grafen von Waldstein WoO 67, composte tra il 1791 e l’anno successivo, la Sonata in re maggiore op. 6, risalente al 1796-1797, le Drei Märsche op. 45 (1803) e le Sechs Variationen. Lied mit Veränderungen WoO 74 (1803). A tale corpus manca l’opera più tarda, la Grande fuga in si bemolle maggiore per pianoforte a quattro mani op. 134 (1826), vale a dire la riduzione della Grande fuga per quartetto d’archi op. 133. Al suo posto i due interpreti hanno voluto registrare la trascrizione per pianoforte a quattro mani che Alfredo Casella fece della celeberrima Quinta sinfonia op. 67.
Al di là di quest’ultima opera, le altre quattro composizioni rientrano in un lasso di tempo che va dal 1791 fino al 1803, un segmento temporale che nella vita di Beethoven rappresenta la fase di passaggio dalla luce mondana alle tenebre creative, dal giovane di belle speranze che fa irruzione nell’alta società aristocratica viennese fino al drammatico strappo dato da Das Heiligenstädter Testament, scritto il 6 ottobre 1802, quando l’incipiente sordità chiuse le porte a una gioiosa solarità (pur nel rigurgito di un’infanzia a dir poco traumatica) per aprire quelle di un’aderenza tragica che troverà idealmente in Friedrich Nietzsche il suo corrispettivo filosofico e speculativo.
Queste quattro opere per pianoforte a quattro mano rientrano quindi in quello che amo definire lo “scorcio in discesa” di Beethoven, di un uomo e di un compositore del quale nulla si è potuto immaginare se non fosse stato colpito e deturpato dalla sordità, ma del quale sappiamo tanto, tantissimo a causa di ciò che avvenne per via di quella menomazione che gli spalancò la via di accesso per altri territori, per altre sfere, per altri universi (come scrisse Franz Grillparzer in un verso: “Se il mio tempo mi vuole osteggiare/lo lascio fare tranquillamente. Da altri mondi sono venuto/e in altri mondi spero di andare”), in cambio di una perenne erta da affrontare e salire, anno dopo anno, incomprensione dopo incomprensione, sofferenza dopo sofferenza.
Tale “scorcio in discesa”, almeno nel repertorio in questione, si riesce a inquadrarlo fin dalle Variazioni sopra un tema del Conte di Waldstein in do maggiore, in cui il genio di Bonn, partendo da un brevissimo tema composto dall’amico, mecenate e protettore, il conte Ferdinand Ernst Gabriel von Waldstein, riesce a estrapolare dalla sua modulazione transitoria in do minore una serie di variazioni tutte giocate su proiezioni chiaroscure, in cui la linea mantiene sempre una sua purezza formale, a volte persino quasi ingenua rispetto al futuro e implacabile titanismo, senza mai però cadere nella banalità e in soluzioni scontate.
Lo stesso si può affermare per le altre tre opere qui presentate dal duo Sollini & Barbatano, tutte caratterizzate da una nobile incisività, da una capacità di conciliare l’aspetto drammatico (non ancora tragico) con la grazia e la dolcezza temperamentale (ciò si presenta concentrato idealmente nel primo tempo della Sonata op. 6), dandoci così modo di ammirare un giovane Beethoven, il cui aspetto “camuso”, tale da suscitare curiosità negli uomini e un delicato ribrezzo nelle donne, il quale con fervida eleganza formale cercava di entrare nel cervello dei primi e nei cuori delle seconde, affamato di comprensione e di amore com’era.
Ma si ascoltino con attenzione, tra le pieghe, tra i recessi, tra gli angoli timbrici e armonici, le Tre Marcie op. 45, già posteriori a quel maledetto ottobre del 1802, in cui la piacevolezza formale, la costruzione ritmica, la dialettica degli sviluppi sono già larvatamente inzuppate da grigiori umorali, da ombre che pur vivendo nella luce già si nutrono di pensieri oscuri, di valenze esistenziali nelle quali la solitudine interiore diviene un regno sempre più forte e preminente. Cosa che viene confermata dalle Sei Variazioni composte a partire dal Lied Ich denke dein (“Io ti penso”), il cui titolo suona già come un campanello d’allarme, per farci capire che la scoscesa è ormai alle spalle, che le speranze di una vita à la page, circondato da comprensione e amore, appartiene solo al mondo atroce e rassicurante dei sogni, poiché se è vero che il cuore di queste variazioni risale a un quaderno del 1799, non bisogna dimenticare che in vista della loro pubblicazione Beethoven vi rimise mano quattro anni più tardi, trasformandole in un gesto di “sentimento didattico” dedicato alle contessine Therese e Josephine von Brunsvik, di cui egli si innamorò vanamente, sul quale aleggia un delicato grido intriso di disperazione e di vacua speranza, un atto musicale (e non fu certo l’unico) che ha il profumo non corrisposto di un mazzo di fiori di campo.
La tabula rasa, l’amara lucidità, la disarmante capacità di giganteggiare tra le note e gli accordi, rivoluzionari, disperati, ma allo stesso tempo così teneramente afflitti, il duo Sollini & Barbatano l’hanno voluto conchiudere con la trascrizione della Sinfonia n. 5 fatta da Alfredo Casella, la cui levatura compositiva è ancora, purtroppo, al centro di un dibattito che oscilla tra i detrattori, i quali sostengono la modestia inventiva del musicista torinese, parzialmente stemperata a suo favore da un malcelato opportunismo politico, e i sostenitori, tra cui il sottoscritto, che puntano maggiormente su una capacità di scrittura, soprattutto pianistica, come poche nella prima metà del Novecento, frutto di una sapiente opera di mediazione tra aperture al respiro europeo del tempo (a cominciare dalla musica francese) e un’accurata operazione di filtro e di depurazione del tipico sostrato melodico frutto della tradizione italica.
Operazione che si può facilmente dedurre anche dalla trascrizione in questione, in cui convivono felicemente un’essenzialità costruttiva e una continua ricerca di sfumature timbriche che le venti dita riescono a estrapolare dalla tastiera. In fondo Casella è autore di un’esemplare immagine olografica del capolavoro sinfonico beethoveniano, capace di portare in superficie la febbre, le nevrosi, l’instabilità, la malattia interiore che cercano di risolversi in un titanismo intinto nel manganese lacrimevole (è miracoloso, in tal senso, il passaggio finale del secondo movimento, in cui il pugno alzato, atto di sfida, si abbassa subito dopo in un gesto di spossata delusione). Questa versione è così prodigiosamente “didattica” che dovrebbe essere ascoltata prima di quella originale per poter cogliere d’emblée le nervature, l’impianto scheletrico, la rete arteriosa, le fibre muscolari che la circondano e la proteggono.
La lettura che Marco Sollini & Salvatore Barbatano riescono a proporre di queste pagine ha la capacità di portare l’ascoltatore a immedesimarsi nel dualismo titanismo/vittimismo beethoveniano. Quello proposto dal duo pianistico, in effetti, è un viaggio nella psiche prima ancora che nell’arte musicale del gigante di Bonn, è la proprietà interpretativa che si erge a dimensione speculativa, è il sapere offrire una tappa esistenziale, la ricostruzione, attraverso il repertorio del pianismo a quattro mani, di una Kehre squisitamente heideggeriana, di una “svolta” (Das Heiligenstädter Testament), di un mondo di luce che progressivamente si annulla nelle sfavillanti tenebre di un titanismo creativo che è unico nella storia della musica. E qui non sto a soffermarmi sulle capacità tecniche dei due interpreti, sul loro affiatamento, sul loro sentire la dimensione esecutiva sempre con una modalità univoca/dualistica (l’ultimo tempo della Sinfonia n. 5 è semplicemente esemplare), poiché a questi livelli è il minimo che si possa richiedere; no, mi riferisco ad altro, più precisamente alla capacità di inserirsi tra le nervature, tra le speranze, tra l’eleganza formale di queste pagine, facendo in modo che l’ascolto potesse trasformarsi nell’ascoltatore in una vera e propria lettura tale è l’evidenza espressiva che le contraddistingue, tale è la carica psicologica che le intride, il saper trasformare il gesto in un’immagine, in una tridimensionalità affettiva e commovente da poterci restituire idealmente, magicamente quello scorcio in discesa al termine del quale il destino volle che il genio di Bonn andasse a sbattere per consegnarsi nelle mani immortali dell’Arte. Esaltante.
La presa del suono effettuata da Raffaele Cacciola è oltremodo convincente e foriera di un ascolto tecnico piacevole e coinvolgente. Lo Steinway modello D usato dal duo pianistico per la registrazione dipana assai bene il suo caratteristico timbro grazie a una dinamica precisa, veloce nei transienti e debitamente naturale. Il palcoscenico sonoro ricostruisce lo strumento a una discreta profondità, inserendolo in un corretto spazio fisico creato tra i diffusori; l’equilibrio tonale, parametro fondamentale per questo tipo di repertorio cameristico, non presenta la minima sbavatura o indebita invadenza timbrica tra il registro medio-grave e quello medio-acuto, mentre il dettaglio è contrassegnato da una confortante tridimensionalità materica.
Andrea Bedetti
Ludwig van Beethoven – Works for Piano 4 Hands
Marco Sollini & Salvatore Barbatano (pianoforte)
CD Sony Classics 19439798802
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5