Disco del mese di Settembre 2022
Le Sonate di Domenico Scarlatti. Sulla loro querelle tra clavicembalisti e pianisti mi rifaccio a quanto affermò in altra sede Pierre Drieu La Rochelle, ossia «non solo non voglio sporcarmi le mani, ma nemmeno i piedi». Ergo, passo subito al dunque, grazie a una recentissima registrazione, pubblicata dalla Da Vinci Classics, che vede la giovane pianista milanese Maria Clementi, la quale ha affrontato una silloge di quindici delle cinquecentocinquantacinque Sonate che compongono la Bibbia stilata dal Kirkpatrick (il quale, è bene ribadirlo, sebbene sia stato un clavicembalista écrasé, affermò, riferendosi proprio a Scarlatti, «che le qualità musicali d'una buona esecuzione, più importanti dell'effetto sonoro, si possono ottenere su qualsiasi strumento»), nell'attesa che qualcuna di esse venga prima o poi considerata apocrifa e sostituita dal ritrovamento di altrettante scovate nelle biblioteche di mezzo mondo.
Ciò che ci deve interessare, aggiornamenti musicologici a parte, è il loro significato, il loro cuore propedeutico, la cui essenza artistica prevarica quella eminentemente didattica. Eseguirle ed ascoltarle significa, quindi, entrare in un mondo a parte, a patto che si rispettino le regole che le sovraintendono e che le guidano, così come accade nel Gradus ad Parnassum clementiano e nel Mikrokosmos bartókiano, vale a dire una Bildung che anticipa di fatto le conquiste formative di scuola romantica, andando a investire non solo la concezione musicale, ma quella a tutto tondo di chi le deve affrontare. Da qui, un ascolto che è anche “formazione”, apprendimento totalizzante, come instancabilmente era solito affermare quel meraviglioso cane sciolto che è stato Scott Ross.
Nello specifico, la cernita fatta da Maria Clementi comprende la Sonata K. 1 in re minore, la K. 7 in la minore, la K. 27 in si minore, la K. 87 in si minore, la K. 96 in re maggiore, la K. 98 in mi minore, la K. 101 in la maggiore, la K. 108 in sol minore, la K. 135 in mi maggiore, la K. 188 in la minore, la K. 197 in si minore, la K. 260 in sol maggiore, la K. 319 in fa diesis maggiore, la K. 380 in mi maggiore e la K. 487 in do maggiore, quindi con una leggera preferenza per quelle in tonalità minore. La pianista milanese, per la registrazione, ha scelto uno Steinway D-274 dalle sonorità brillanti e cristalline, capaci di riecheggiare il richiamo di un clavicembalo. La scelta in questione, rispetto ad altre sillogi discografiche, oltre a fornire un debito work in progress scarlattiano, ha il merito di andare a sondare territori non frequentemente battuti, poiché se da un lato presenta Sonate celebri, come la K. 96, la K. 108, la K. 135, la K. 260, la K. 319 e la K. 380, è anche vero che oltre il canonico incipit fornito dalla K. 1 (resa da Maria Clementi con una deliziosa freschezza, tale da diluire molto bene la struttura ritmica con i richiami del registro grave e con un controllo “edonistico” dei trilli), dall'altro ha l'indubbio compito di preparare adeguatamente il palato all'ascoltatore, a cominciare dal trittico in tonalità minore date dalla K. 7, K. 27 e K. 87. La prima di esse è una Jota, la nota danza spagnola veloce, e dà modo fin da subito di comprendere la carognesca scrittura scarlattiana; infatti, oltre a rappresentare un brano oltremodo ornato, con l'interprete che si deve abituare non solo ai frequenti incroci di mano, ma anche ai caratteristi “cambi di velocità” del napoletano, che qui prendono avvio nella seconda parte della Sonata in questione, visto che la tessitura si addensa in modo inverosimile, costringendo l'esecutore a suonare accordi pieni, avendo il dovere di esaltare la copiosa ornamentazione, come a dire che bisogna rendere il bello tenendo graziosamente il pugnale tra i denti. Cosa che la nostra pianista fa in modo inappuntabile, elargendo cristallinità nella prima parte della composizione (il fluire della mano destra è godibilissimo), mentre la palude armonica melmosa della seconda parte viene affrontata con una matura sfrontatezza, facendo sì che ogni verticalità si trasformi in un'ariosa passeggiata orizzontale (e con il pugnale che tra i denti diviene una rosa odorosa).
La K. 27 fu amata da Benedetti Michelangeli e Maria Clementi, rispetto al sommo bresciano che la sparava in poco più di due minuti, tramutandola in un supremo esercizio virtuosistico, la diluisce e la allunga agogicamente di quasi un minuto, un'eternità, per cesellarla in un atto supremamente costruttivo, concentrando nella parte centrale della tastiera un bouquet di arabeschi, in cui l'immagine timbrica è un'offerta votiva fatta di pulizia e di lucidità alla ennesima potenza, in cui la struttura armonica non viene esasperata, anche con un uso sapiente del pedale, per fustigare in altezza, come faceva Michelangeli (a lui tutto era concesso), ma per ottenere un maggiore equilibrio dell'arcata totale della Sonata.
Da un mostro all'altro, da Benedetti Michelangeli a Horowitz, poiché quest'ultimo fece della K. 87 un suo cavallo di battaglia, andando a esasperare il suo carattere pastorale cangiandola in un brano pre-chopiniano (andatevi a guardare la sua interpretazione della Sonata in questione su YouTube, durante un suo recital moscovita nel 1986), in un tripudio di fraseggio, di impianto melodico spinto all'inverosimile, tale da fare della musica scarlattiana un “emblema” pianistico. Non è quello che vuole invece la giovane pianista milanese, la quale, al contrario, non perde mai di vista la concezione originaria per clavicembalo, in quanto cerca di perpetuarla sul pianoforte, il che è diverso. L'idea non viene abbandonata, ma semplicemente aggiornata. Fraseggio sì, ma con maggiore scansione, con il fluire horowitziano che si tramuta con le sue dita in un fremito pacato, nel quale la sedimentazione ritmica continua a dare i suoi frutti, che dimostrano tutta la loro maturazione sotto il sole di un'esplorazione dei volumi sonori, come a voler dire: se sul clavicembalo suona così, sul pianoforte il risultato della sua “idea” è invece questa.
Un'idea che viene esemplificata anche nella Sonata K. 96, nella quale Maria Clementi mette in atto un altro elemento costitutivo del suo progetto discografico scarlattiano, vale a dire lo smantellamento del virtuosismo strumentale fine a se stesso, ingolosito dalle note ribattute, dalla “terza mano”, dai passaggi di ottave doppie che dovrebbero far “visualizzare” una sorta di suono “orchestrale”, potenziato dall'apporto pianistico. No, invece la pianista milanese se ne frega, giustamente!, perché riconduce l'essenza del brano alla dimensione tel quel di una danza (penso, e qui mi ricollego, a come la Hewitt abbia affrontato pianisticamente Bach). Il cuore concentrico è la dimensione ritmica alla quale viene riportato il tutto, con un timbro secco, quasi “meccanico” (altro dato intrigante: volete il suono “bello e conturbante”?, sembra voler dire Maria Clementi: ebbene, andatevelo a cercare altrove): il trillo iniziale simil-corno da lei reso è la cartina al tornasole, chiave di volta per far capire che la potenza di suono che questo brano invitava a esibire sul clavicembalo, qui deve assumere un contorno timbrico meno esplosivo, ma più disciplinato. Ma, si badi bene, l'essenzialità entropica del volume sonoro che l'interprete dimostra, ottiene lo stesso risultato della tecnica puntillistica pittorica: i punti pennellati non mortificano ma, ammirati sotto una certa prospettiva d'osservazione, esaltano il tutto. E anche qui avviene lo stesso, che porta giustamente alla realizzazione di ciò che dovrebbe essere lo Scarlatti pianistico, ossia la sublimazione di quello clavicembalistico. Tutto qui.
Questo principio di “sublimazione” si ripercuote nella successiva Sonata K. 98 in mi minore, il cui termine di paragone sono andato a cercarlo nella versione registrata da Ivo Pogorelich, il quale reagisce impiegando il pianoforte soltanto in quanto pianoforte, ossia leggendo il brano sotto l'impulso di variazioni agogiche, inspirando ed espirando in modo difforme, con rallentamenti e conseguenti slanci, prendendo fiato per poi tornare sulla rampa di lancio. Maria Clementi invece tiene ben saldo in mente l'arcata del brano e la decodifica sapientemente tenendo accanto alla tastiera il vocabolario ritmico senza mai smettere di consultarlo, ossia sulla base della traduzione ritmica: se il clavicembalo mi dà tanto, quel tanto lo voglio affrontare e rendere pianisticamente. Niente voli pindarici, niente sfarfallii svolazzanti, ma solo la nuda materia costruttiva: le pause da enfisemiche divengono regolari, pulsanti per fornire il corretto slancio e il respiro diviene così più omogeneo, più lineare nel corso di tutta la Sonata, senza che la sua complessiva validità creativa venga meno, poiché la velocità adottata risulta essere azzeccata dalla prima all'ultima nota, facendo sì, ancora una volta, per l'appunto, che il pianoforte risulti essere l'estrinsecazione sublimata del clavicembalo.
Che Scarlatti musicalmente abbia anticipato letterariamente il romanzo di Robert Louis Stevenson è un dato di fatto, poiché basta ascoltare la Sonata K. 101 in la maggiore per rendersi conto come nel compositore napoletano albergassero sia il dottor Jekyll sia il mister Hyde... Questo è uno splendido esempio di un Giano bifronte esplicato attraverso l'arte dei suoni, un Quando i mondi si scontrano, citando il titolo di un famoso film di fantascienza degli anni Cinquanta: se la prima parte della pagina è un perfetto modello Rococò, sviluppato con le mani che elaborano una serie di invenzioni che comprendono scale veloci, note ribattute, deliziosi richiami di arpeggi, dando vita a una bambola di porcellana che si muove graziosamente come un automa educato e piacente, improvvisamente la pozione chimica che Scarlatti-Jekyll decide di provare su di sé, lo porta a prendere quanto elaborato fino a quel momento e, vittima del comportamento schizoide di Scarlatti-Hyde, lo butta in un angolo come fece la domestica con il cadavere scarafaggesco di Gregor Samsa. Al suo posto, invece, ecco apparire un larvale protoromanticismo che bussa timidamente alla porta, un frisson, un inquietante patema che va a destabilizzare tutto il costrutto, che anticipa di fatto quelle mutazioni che si avvertono repentinamente nelle mature sonate mozartiane. Una frattura, una dicotomia d'intenti espressivi che la giovane pianista milanese non rinnega, ma che certo non estremizza con improvvidi sbalzi umorali, ossia dando vita a un “prendi due e paghi uno”, ma mantenendo, a livello timbrico ed espressivo, un'unitarietà di intenti stilistici: sotto le sue dita, la K. 101 non viene scissa, ma si trasforma in una “ricerca” in cui la seconda parte diviene quasi lo sbocco naturale della prima; frattura sì, ma non “epocale”, da intendersi come un altro tempo, con le sue necessità, le sue problematiche, con la sua visione del mondo, che va ad irrompere e ad assoggettare quella precedente, ma con un'incantevole grazia, in modo che Scarlatti-Jekyll, una volta bevuta la pozione, cerchi di studiarne gli effetti senza caderne vittima. Il Rococò di clavicembalistica memoria non dice al protoromanticismo pianistico prego, si accomodi pure e faccia come se fosse a casa sua, ma gli ricorda che in quella casa ci sono precise regole che possono essere discusse e accettate, sebbene in parte. In fondo, la K. 101 può anche essere assimilata come un Minuetto che comincia a dubitare di se stesso (guarda caso, nella letteratura tastieristica proprio questo tempo-danza è uno dei primissimi in cui si avvertono quelle mutazioni stilistiche e culturali che andranno a confluire nel passaggio di consegne tra Settecento e primo Ottocento). Ed è quello che la lettura di Maria Clementi evidenzia.
Dunque, l'annosa storiella secondo la quale “mille diavoli” aleggerebbero su buona parte delle Sonate scarlattiane deriva dalla medesima immagine, come si sa, che ne avrebbe tratto Thomas Roseingrave quando, dopo aver ascoltato lo stesso Scarlatti suonare il clavicembalo, affermò d'aver avuto l'impressione che «mille diavoli sedessero allo strumento». Ebbene, è indubbio che la Sonata K. 108 in sol minore rientri a pieno titolo nel novero di quei “mille diavoli” che trovano riparo all'interno dello strumento (a tale proposito, Ralph Kirkpatrick, che non si lasciava andare soventemente a voli pindarici, giunse al punto, quando la mano sinistra, incrociando la destra, sembra far esplodere colpi di bombarda su una soave melodia intessuta dagli oboi, di paragonare questo passaggio allo Scherzo della Sinfonia Corale beethoveniana!).Che in questa Sonata ci siano “mille diavoli” nelle sembianze di uno Sturm und Drang di imminente avvento, non ci piove, tenuto conto della sua estremizzazione espressiva, testimoniata dalla presenza disseminata di ottave, note doppie, modulazioni astruse e soliti incroci di mano: certo aleggia un incontestabile senso di minaccia, ma la lettura della pianista milanese punta non tanto a mettere in rilievo ciò, quanto a individuarne una possibile omogeneità complessiva, senza dover ricorrere a una timbrica massiccia, la quale invece viene “arrotondata” dalle possibilità fornite dal pianoforte. Ancora una volta, è lo sfruttamento dell'arcata generale del brano a rivestire maggiore importanza nella sua interpretazione, evitando di fatto effettacci pour épater les bourgeois. La tensione, il conseguente smarrimento possono essere resi anche con grazia, tramite la ricerca di sfumature stilistiche, con una dosata proposizione delle volumetrie. Il risultato non cambia, in ossequio alla tradizione “didattica” di queste Sonate, le quali non furono solo un punto di riferimento per l'eremitica principessa Maria Barbara, ma nel corso del secolo successivo rappresentarono un ottimo viatico trasmesso da formidabili pianisti-didatti quali Czerny, Moscheles e Cramer, che videro idealizzate nelle composizioni scarlattiane l'applicazione di un principio fondamentale: lo sfruttamento della materia musicale attraverso il rispetto della forma.
Questo principio scolpito nelle tavole della legge tastieristica trova un'ideale conferma nella magistrale Sonata K. 135 in mi maggiore, la quale testimonia come Domenico Scarlatti abbia voluto riversare nelle sue pagine clavicembalistiche estreme difficoltà esecutive, non per mero virtuosismo, ma per esprimere quei bisogni impellenti di reale pensiero musicale e dei mezzi espressivi atti a concretizzarlo. In questo Allegro viene così instillata e sviluppata un'idea di iterazione variata: l'incipit viene quindi formulato con un delizioso arpeggio discendente e, subito dopo, vediamo la stessa figurazione riproposta, ma in scala discendente a progressione, con l'aggiunta di magici trilli, con incrocio delle mani. Questo inizio “virtuosistico” non viene però poi accentuato, calcato, fruttato per ingigantirne la sua portata “effettistica”, ma lascia spazio, con un vero e proprio coup de théatre, a una suadente melodia dalla quale si propagano delle minuscole cellule melodiche, il cui sottofondo armonico si materializza con un moto ondulatorio, fornendo all'attento ascoltatore un'impressione realmente ipnotica. Ed ecco una nuova mutazione: l'irruzione di un segmento velocissimo, il cui compito è di creare un ennesimo contrasto, con l'impressione che, prima o poi, la Sonata possa finalmente svilupparsi, ampliarsi. Cosa che invece non avviene, in quanto viene riproposta la materia data dalle cellule melodiche che portano fino alla conclusione. Quanta lucidità compositiva, quale capacità di offrire molto con poco, e la lettura che ne dà Maria Clementi, in ossequio a quanto insegnato e perpetuato dai grandi didatti dell'Ottocento, è proprio votata al pieno sfruttamento di quanto è proposto dalla forma generale della Sonata in questione. Anche qui, la pianista milanese detta la parola d'ordine: brillantezza nella sobrietà, rispetto dei volumi, disciplina timbrica nei pesi e contrappesi. Il risultato? I “mille diavoli” si fanno sentire, certo, ma non c'è bisogno di invocare l'arrivo di un plotone di esorcisti...
Che questa parola d'ordine, che questa disciplina della forma attraverso le potenziali espressive che riesce a offrire siano il denominatore comune non solo in ambito interpretativo, ma anche nella scelta stessa dei brani operata da Maria Clementi nella sua registrazione discografica, lo individuo anche nelle Sonate che seguono, a cominciare dalla K. 188 in la minore, la quale si concretizza nelle movenze di un fandango e che la nostra interprete, con un ottimo dosaggio dello svolgimento timbrico, ci presenta come un work in progress, un delizioso labirinto nel quale non perde mai la bussola. È il senso delle proporzioni che colpisce, la sua capacità di rendere lucidamente, ancora una volta, proponendo millimetriche sfumature nella resa espressiva, non eccedendo e non mancando: un fluire che anche in questo caso diviene ipnotico. Questa chiarezza e lucidità espositive vengono poi ulteriormente delineate da Maria Clementi in quella composizione così straordinariamente “misterica” che è la Sonata K. 197 in si minore (non per nulla amata e proposta da Horowitz), la cui filigrana dev'essere dipanata attraverso un Andante che non deve mai cedere alla tentazione di trasformarla in determinati, microscopici passaggi in un Adagio o, al suo opposto, in un Allegretto. Qui, la disciplina espressiva deve fare i conti con una risicata libertà esecutiva che dev'essere continuamente domata, senza mortificare l'eloquio melodico, e la nostra giovane pianista riesce a farlo ai limiti di una commozione d'ascolto, rendendo tangibili quegli invisibili abissi, il cui accesso è dato dalle piccole scale discendenti e che si materializzano nelle innumerevoli larve dissonantiche, nei quali va a sondare e a scavare.
Com'è stato fatto giustamente notare, la Sonata K. 260 in sol maggiore ci fa indubbiamente comprendere come Domenico Scarlatti nel comporre le sue Sonate non lo abbia fatto pensando esclusivamente al clavicembalo ma, come nel caso di questo brano, lo abbia concepito avendo a mente anche il fortepiano, ossia per uno strumento in cui le corde venivano percosse dai martelletti, permettendo di ottenere attraverso il tocco una differenziazione tra “piano” e “forte” (nello specifico della K. 260 lo si può evincere facilmente quando nella prima sezione del brano la mano destra si blocca alternando una nota e la sua ripetizione in ottava, mentre la mano sinistra imbastisce una serie di accordi, così come quando, alla conclusione della prima sezione, la mano sinistra esegue una vera e propria linea melodica; due passaggi che non avrebbero mai potuto essere esaltati dal meccanismo clavicembalistico, ma solo da quello di un fortepiano, capace di scindere e quindi eseguire il “forte” e il “piano”). Al di là di ciò, quando prima si è accennato al pieno dominio della struttura musicale, qui Maria Clementi ci fa comprendere di che pasta è fatta: la K. 260 è una di quelle Sonate che abbisognano di una lettura tale che il brano risulti all'ascolto apparentemente semplice, al di là della sua complessità armonica che la sovrasta (Scarlatti è stato un maestro nel saper dare atto a un'operazione di camouflage delle sue Sonate); così la lettura fatta dalla nostra giovane pianista riesce benissimo, proprio con il pieno dominio della sua forma, tramutando il camuffamento in una spontanea, deliziosa fluidità stilistica.
La spiccata originalità della Sonata K. 319 in fa diesis maggiore (glorificata anch'essa da una celebre registrazione discografica di Vladimir Horowitz) offre alla sensibilità esecutiva di Maria Clementi un ulteriore appiglio. La peculiarità strutturale di questa composizione (il cui svolgersi melodico sembra procedere in modo del tutto casuale, adagiato su alcuni microdisegni e improvvisamente “fratturato” nella metà della prima e della seconda sezione da un passaggio basato sulla continua ripetizione di un disegno circolare di tre note) viene in un certo senso da lei edulcorata, purificata attraverso una piacevolissima ragnatela timbrica, nella quale le sollecitazioni ritmiche assumono una linea adamantina, cristallina, un quarzo sonoro capace di donare mille riflessi, una miracolosa cristallinità che si ripercuote e si presenta anche nella successiva Sonata K. 380 in mi maggiore, un riuscitissimo Andante, il quale sotto le dita della giovane interprete assume un delicato andamento marziale tale da trasformarlo in una sorta di deliziosa marcia in nome di un Barocco deciso ad affermare tutta la sua risolutezza identificativa. Anche qui si nota un'esaltazione della scansione ritmica capace di mutarsi in un ordito timbrico del quale Maria Clementi non perde un solo filo, facendo affiorare efficacemente le preziosità contrappuntistiche.
Infine, la Sonata K. 487 in do maggiore, nella quale fanno il loro ritorno i “mille diavoli”, che stavolta si accaniscono perfidamente sulla mano sinistra, costretta a una serie di massacranti ottave (da quanto ho avuto modo di ascoltare, Maria Clementi deve averla in modalità bionica, per via dell'estrema naturalezza con cui riesce a renderle). Ma ciò che colpisce è la grazia, la capacità, come dire, di restituire al “femminile” lo spessore dionisiaco di questo brano, quasi “brutale” se viene affrontato con cipiglio estremo. Invece, la nostra interprete, dal suo lato, ci fa comprendere come una massiccia dose di “quota rosa” possa aggraziare, abbellire, far sorridere questa Sonata, con i “mille diavoli” che non divengono di certo altrettanti cherubini, ma ne sono tentati, come se Lucifero avesse fatto l'occhiolino all'arcangelo Michele (bisogna ascoltare come l'artista milanese riesce a far fluire come un ruscello il glissando ascendente finale, con l'acqua che scorre placidamente all'insù!).
Chi ama Scarlatti, al clavicembalo o al pianoforte poco importa di fronte a una lettura del genere, non potrà non ammirare quanto fatto da Maria Clementi: la sua interpretazione riesce a coniugare idealmente grazia e lucidità, intelligenza esecutiva con il senso delle proporzioni sonore, restituzione (con il pianoforte!) di un Barocco senza tempo, una cristallinità timbrica che lascia ammirati per precisione e delicatezza. Uno Scarlatti che sembra già annusare il vento che cambia e che decide, pur non rinnegando le sue origini temporali, di bussare alla porta di un Classicismo che, di fronte a questa lettura, è ben felice di poterlo accogliere tra le sue braccia.
Disco del mese di settembre di MusicVoice.
Simone Sproccati e Andrea Castelli si sono occupati della presa del suono, avvenuta nella Steinway Piano Gallery Passadori di Brescia. Il lavoro è indubbiamente ben riuscito, in quanto la dinamica, grazie alla sua energia e alla naturalezza, capaci di restituire la piacevolissima cristallinità, nel registro acuto, del pianoforte. Tali peculiarità, inoltre, permettono la ricostruzione dello Steinway al centro dei diffusori, ponendolo all'interno dello spazio fisico visualizzato a una discreta profondità. Ottimo l'equilibrio tonale, sempre distinto, adeguatamente scontornato e con una chiara riproposizione del registro acuto e di quello medio-grave. Infine, il dettaglio è squisitamente materico, capace di porre l'ascoltatore di fronte alla fisicità tridimensionale dello strumento, permettendogli di affrontare i quasi ottanta minuti di durata della registrazione senza alcuna fatica.
Andrea Bedetti
Domenico Scarlatti – Keyboard Sonatas
Maria Clementi (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00607