Nella storia e nell'evoluzione della musica colta occidentale ci sono stati dei momenti a dir poco capitali il cui avvento ha cambiato, rivoluzionato quanto era stato fatto e conquistato precedentemente, al punto da poter affermare che, con la loro irruzione, nulla è più stato come prima. Quest'ultima potrà sembrare una frase fatta, ma se riflettiamo su che cosa ha saputo rappresentare la nascita e l'avvento del pianoforte come principale strumento a tastiera, allora si potrà comprendere meglio la portata generale di un simile cambiamento. Che cosa sarebbe stato, per esempio, l'Ottocento musicale senza il pianoforte, che cosa avrebbero fatto e, soprattutto, come avrebbero potuto immaginare la loro musica quei compositori i quali, attraverso questo strumento, hanno mutato radicalmente la visione estetica dell'arte dei suoni?
Il pianoforte permise ciò che prima era stato fisicamente impossibile fare, poiché lo strumento inventato da Bartolomeo Cristofori diede la possibilità di ottenere suoni, sfumature, una potenza dinamica e un ventaglio di possibilità timbriche che erano del tutto precluse al clavicembalo e agli altri strumenti a tastiera dell'epoca. Naturalmente, come ogni innovazione radicale, anche l'irruzione del pianoforte (o, per meglio dire, del fortepiano) non fu accolta subito con altrettanta consapevolezza, in quanto il suo suono a dir poco rivoluzionario non venne recepito da tutti con favore ed entusiasmo (è nota, a tale proposito, la perplessità che Bach manifestò ascoltando e provando uno strumento costruito da Silbermann), ed è quindi logico pensare che l'avvento dello strumento ideato da Cristofori non abbia modificato subitamente e radicalmente non solo il modo di eseguire la musica, ma soprattutto di comporla in rapporto alle nuove possibilità fisiche ed acustiche del pianoforte, il quale, inevitabilmente, ha dovuto musicalmente affrontare un processo temporale di sedimentazione e di metabolizzazione, prima che le sue peculiarità potessero essere sfruttate per dare vita a un nuovo modo di comporre, di creare e di proiettare il mondo variegato dei suoni.
Un fenomeno di adattamento, di assestamento espressivo, questo, che si pose quando, e ciò ha rappresentato un altro cambiamento epocale, l'uso degli strumenti ad arco, nel cuore del Rinascimento, soprattutto del violino, sostituì progressivamente la presenza della voce umana. Ciò non significa che la musica composta per il violino creata in quel frangente storico ed artistico andò a sfruttare le caratteristiche e le potenzialità di questo strumento, ma facendo in modo che il suono del violino potesse sostanzialmente imitare quella umana. Ci fu bisogno dapprima di un'introduzione teorica, di una sistematizzazione estetica del suono strumentale dato dal violino, e ciò fu fatto da Agostino Agazzari che nel 1607 diede alle stampe il trattato Dello sonare sopra il basso, nel quale elogiò la piena autonomia espressiva dello strumento, e poi attendere un compositore, il bresciano Biagio Marini, che nel 1629 con le sue Sonate mettesse finalmente in atto il richiamo di tale autonomia compositiva ed espressiva incarnata dallo strumento ad arco.
Parallelamente all'avvento del violino, anche il pianoforte ha avuto fortunatamente il suo Biagio Marini, ossia un musicista che pensasse la musica in funzione di quel determinato strumento, senza fare riferimento alle possibilità e allo sfruttamento espressivo concepito per gli strumenti che lo avevano preceduto e il suo nome è Lodovico Giustini, nato Pistoia nel 1685 (anno baciato dagli dèi, visto che vide la nascita anche di un trittico da far paura, ossia Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel e Domenico Scarlatti) e morto nel 1743 nella stessa città.
Il fatto che deve far riflettere coloro che non conoscono questo musicista è che in realtà Giustini, il quale visse e operò artisticamente in un momento che coincide con il tramonto del Barocco e con il conseguente sorgere del Classicismo europeo, fu soprattutto un organista (dal 1734 fino alla morte fu organista della Cattedrale di Pistoia), mentre a livello compositivo si concentrò quasi esclusivamente nel genere della musica sacra, sul solco della tradizione familiare, visto che il padre Francesco fu apprezzato organista e lo zio Domenico autore di musica da chiesa. Eppure, la sensibilità e la lungimiranza di Lodovico si focalizzarono anche sul fortepiano, sul quale si concentrò non coercizzando il suo suono a mo' di imitazione, ma esaltando in modo del tutto innovativo le sue caratteristiche. Così, sebbene oggi il suo nome sia ormai quasi del tutto dimenticato, Lodovico Giustini fu in assoluto il primo a immaginare, pensare, creare musica in nome del nuovo strumento a tastiera, mettendo da parte quei modelli che erano serviti fino ad allora per dare vita a composizioni destinate agli altri strumenti per tastiera.
Ma se musicalmente Giustini fu in grado di fare ciò, non si deve dimenticare anche l'aspetto storico e sociale dell'epoca, anch'esso alle prese con l'irruzione del nuovo strumento, il quale non fu subito accolto favorevolmente nelle corti e nei palazzi aristocratici europei. Solo pochi, pochissimi furono coloro che lo fecero e tra loro ci fu il sovrano Giovanni V di Portogallo, colui che è passato alla storia per aver assoldato Domenico Scarlatti quale insegnante di tastiera per la figlia Maria Barbara e per il fratello più giovane, Dom António de Bragança. Proprio quest'ultimo è il dedicatario delle Dodici Sonate da cimbalo di piano e forte detto volgarmente di martelletti, op. 1 che Lodovico Giustini fece pubblicare a Firenze nel 1732, e che il pianista friulano Paolo Zentilin ha registrato per la casa discografica olandese Brilliant Classics, in un cofanetto contenente tre CD, non utilizzando un fortepiano, ma due splendidi modelli di pianoforte Fazioli.
Se esiste un'opera a dir poco visionaria è proprio l'op. 1 di Giustini, la cui importanza per il pianoforte è pari a quella de Das Wohltemperierte Clavier bachiano per il clavicembalo, un monumento musicale che si dipana, nella versione pianistica di Zentilin, per quasi due ore e quaranta minuti e che permette a coloro che sanno ascoltare di fare il loro ingresso in un universo fatato, meraviglioso, in quanto è proprio con queste Sonate che la musica per pianoforte prende avvio lungo un sentiero che conduce fino ad oggi. Tanto per far capire la portata anticipatrice di quest'opera, bisogna ricordare che si dovette attendere ancora alcuni decenni prima che altri autori potessero comporre lavori immaginati espressamente per il nuovo strumento. Certo, come annota giustamente il pianista e musicologo americano Stuart Isacoff nelle note di accompagnamento al cofanetto, queste dodici Sonate da chiesa, che da un punto di vista armonico si pongono a cavallo tra le preziosità del tardo barocco e le meravigliate esplorazioni del primo Classicismo e che presentano quattro o cinque tempi a sonata con l'alternarsi delle parti veloci e di quelle lente, vantano delle somiglianze con le Sonate scarlattiane e con la musica per tastiera di Domenico Zipoli, oltre che con l'ésprit manifestato dalle Sonate per violino di Francesco Veracini. Ma ciò che colpisce d'acchito, anche grazie alla lettura fatta da Paolo Zentilin (come vedremo tra poco), è la raffinata eleganza che contraddistingue l'op. 1 di Giustini, un'eleganza che si manifesta nella maturità strutturale di uno stile galante che però non si specchia mai in se stesso, ossia non è la sterile rappresentazione fine a se stessa di una musica che vuole esclusivamente intrattenere. È qui, difatti, che interviene quella nervatura i cui stimoli nervosi portano fino all'incipiente Classicismo, a quella tensione emotiva in cui gli affetti ormai sono prossimi a tramutarsi in stati d'animo ben più profondi e angoscianti (l'uomo occidentale sta per bussare alla porta della modernità), e che porta quindi la forma binaria, lo svolgimento delle danze (che siano sarabande, minuetti, gighe, correnti, allemande, gavotte, rondò, siciliane), gli sconfinamenti contrappuntistici ad ispessire la loro portata rappresentativa, con il risultato, non solo musicale, di rimandare sempre a qualcosa d'altro, gettando continuamente ponti verso altri approdi o forse verso il nulla, il che dimostra come Giustini avvertisse il mutamento di tempi e costumi, di bisogni culturali e artistici, di un modo di esprimere tutto ciò con l'apporto di nuovi strumenti capaci di fissare l'irruzione di tali istanze, di problematiche e instabilità antropologiche destinate poi a deflagrare, attraverso il pianoforte, nel secolo successivo.
Affrontando l'interpretazione dell'artista friulano, bisogna prima di tutto mettere in rilievo il suo ruolo musicologico in questa impresa discografica (la quale non rappresenta una prima assoluta mondiale, in quanto per la medesima etichetta discografica nel 2010 Andrea Coen ha inciso l'op. 1 di Giustini avvalendosi però di un fortepiano copia di Karl Schwarz del 1726), visto che Zentilin si è dovuto confrontare sia con il manoscritto, sia con copie stampate che presentavano manchevolezze, errori di trascrizione e anomalie armoniche alle quali ha dovuto ovviare egli stesso. Inoltre, a differenza di quanto aveva fatto Coen con la sua registrazione in prima mondiale, Zentilin ha voluto affrontare le Sonate di Giustini con un pianoforte moderno. Una scelta oltremodo rischiosa, poiché un conto è leggere la modernità compositiva dell'autore pistoiese, un altro è costringere la sua musica a confrontarsi con un modernismo che non gli appartiene. Ma la sua esecuzione (tra l'altro questo è il suo primo progetto discografico) non solo è pienamente rispettosa dell'aura tardobarocca, ma riesce anche a radiografare perfettamente la dimensione in sé dell'opera giustiniana sfruttando le possibilità fornite da un pianoforte moderno rispetto a un fortepiano. Questo perché, e l'orecchio allenato di un attento ascoltatore lo potrà riconoscere fin da subito, il costrutto armonico e il conseguente affioramento melodico delle Sonate si prestano al suono pianistico, in quanto entrambi necessitano di una grande fluidità timbrica, di un meccanismo strumentale che permetta di dare vita a un fraseggio che, pur non debordando giustamente in una dimensione romantica, deve pur esaltare un senso ritmico (i tempi sono principalmente delle danze), che in un lavoro come questo è linfa fondamentale.
Ma è il timbro, la sua profondità introspettiva, la sua resa dinamica che poi fa il resto. Perché qui si tratta di essere oltremodo accorti, cioè essere capaci di schiacciare l'acceleratore tenendo saldo il freno a mano, per poter restituire (e non solo esplorare) una pacata eleganza, la quale non si arresta alla sola forma, ma si dilata, si irradia nel culto del suo suono, trasmettitrice di un senso del bello che già accarezza le linee canoviane, che fa in modo che trionfi per il momento ancora Apollo prima di lasciare spazio al dionisiaco Ottocento. Ciò ha permesso, infine, di ottenere un equilibrio di lettura, di interpretazione in cui non viene mai a mancare il respiro, la dimensione interiore, il motore occulto che regge tutta l'arcata architettonica di una composizione, il cui ascolto, se fossero venute a mancare tali peculiarità esecutive, sarebbe stato oltremodo faticoso, se non peggio. Al contrario, Paolo Zentilin ha dimostrato di saper affrontare e vincere l'occlusione del tempo esteriore proprio in virtù della sua capacità di saper esaltarne quello interiore, insito nelle Dodici Sonate giustiniane.
Quindi, chi afferma di amare la sonata pianistica ottocentesca, chi considera il pianoforte il suo strumento del cuore, ha un compito ben preciso: ascoltare questi tre dischi per capire com'è nata l'alba di una nuova era. Ringraziando Paolo Zentilin, ben inteso.
Un monumento della tecnica di registrazione, qual è Matteo Costa, e Giorgio Fiori si sono occupati della presa del suono avvenuto nello studio Benelli Mosell a Prato. La loro sagacia e la loro perizia sono dimostrate da come si comporta la dinamica, in grado di restituire al meglio lo splendore timbrico dei due Fazioli utilizzati da Paolo Zentilin (a proposito, condivido in pieno la scelta di questo pianoforte, la cui cristallinità, nel registro acuto, non è così marcata come avviene al contrario con uno Steinway, il che avrebbe potuto sfalsare la bellezza del suono ottenuto invece con lo strumento a tastiera italiano), oltre a vantare un'energia e una velocità più che ragguardevoli, in modo da poter rendere egregiamente anche la microdinamica (i pp e i ppp non mancano di certo). Il palcoscenico sonoro ricostruisce idealmente il pianoforte al centro dei diffusori e la congrua profondità nella quale si trova fisicamente non pregiudica di certo la resa timbrica e le sue molteplici sfumature, grazie a un'ampiezza e a un'altezza nella riproposizione assolutamente convincenti. L'equilibrio tonale e il dettaglio non sono da meno, con il primo che rende giustizia del registro medio-grave e di quello acuto, i quali restano sempre distinti e scontornati, e con il secondo che offre un esempio notevolissimo di matericità, grazie ad abbondanti dosi di nero che circondano il pianoforte.
Andrea Bedetti
Lodovico Giustini – 12 Sonatas Op. 1
Paolo Zentilin (pianoforte)
3CD Brilliant Classics 96173
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5